Dal 1943 al 1945, nell’Italia occupata, tedeschi e fascisti massacrano trentamila persone. Le indagini su queste stragi si fanno subito, soprattutto grazie a un reparto investigativo britannico. I documenti, a volte precisi sino a comprendere nomi e fotografie dei colpevoli, nel 1945 sono raccolti a Roma, presso gli uffici centrali della giustizia militare. Per qualche anno si celebrano processi, pochissimi rispetto alla mole dei fatti e delle prove. Dagli anni Cinquanta, basta. L’archivio coi documenti sarà rifrequentato solo nel 1994 e si farà un piccolo numero di nuovi dibattimenti, lentamente e senza esito concreto. Uno scandalo noto come Armadio della vergogna.
C’è da chiedersi quanti e quali magistrati militari, nel corso del tempo, fossero consapevoli dell’esistenza del sanguinoso archivio. Insomma: quanti sapevano? chi sapeva? C’è anche da chiedersi: come potessero tacere; come potessero dormire, amare le loro famiglie, accarezzare i loro bambini; quali dinamiche mentali accompagnassero la loro vita professionale e personale.
Per ragionarci attingo a un testo teatrale che un tempo ebbe successo. Si presta in modo speciale, per provenienza e inconvenienti. È Corruzione al palazzo di giustizia di Ugo Betti[1]. L’autore fu magistrato ordinario, lavorò a Roma dal 1931, ebbe un riconoscimento dall’Accademia d’Italia e nel 1944 lasciò la magistratura, o forse solo l’esercizio delle funzioni, per un incarico al Ministero e poi alla Presidenza del consiglio[2]. Si notano la convivenza tranquilla col regime e il successivo galleggiamento rispettabile nel teatro borghese. E parla chiaro la partecipazione alla sceneggiatura di Bengasi, un film di propaganda bellica del 1942; Betti non lo può neanche immaginare, ma fra i bambini portati a vederlo, durante la guerra, sperando invano in una scossa patriottica, c’è Marco Ramat, che sarà segretario di Magistratura democratica[3].
Corruzione al palazzo di giustizia è del 1944 ma fu messo in scena solo nel 1949, quindi nel clima di congelamento della Costituzione. Il testo gronda putredine, e certo non si può pretendere che un autore così abbia un pensiero né per i magistrati antifascisti, perseguitati e destituiti negli anni Venti, né per quelli caduti nella Resistenza. Però la descrizione dei meccanismi dell’ubbidienza, del conformismo, delle rese dei conti nell’ambiente giudiziario, anche quelli striscianti sotto l’ipocrisia, è molto fedele, forse proprio perché Betti li praticò o non li contrastò. Va detto che, per un caso curioso, la sua tesi di laurea si intitolava La rivoluzione e il diritto[4]. Doppiogiochismi anticipati o pentimenti successivi: nel fascismo c’è anche questo.
Tutto accade nel palazzo di giustizia di una città misteriosa, all’estero, ma è chiaro che l’autore ha in mente l’edificio di piazza Cavour, a Roma, detto «il palazzaccio». Un impiegato: «Questo è un palazzo immenso, un vero labirinto, vengono anche forestieri ad ammirarlo». E dopo la morte di un personaggio:
«Croz – Questo palazzo; ogni tanto un fattaccio, sangue in terra, disgrazie. Sempre poche, per la gentaccia che viene qui. […]
Archivista – La questione è il gran buio di questo maledetto posto, specie le scale, gli anditi».
Il posto labirintico, buio, maledetto. Il palazzaccio, il fattaccio. Il palazzo di piazza Cavour, un tempo sede dei principali uffici giudiziari della capitale e ancora adesso della Cassazione, è a trecento metri da Palazzo Cesi, che è stato per decenni il nascondiglio dell’archivio coi fascicoli sulle stragi. Molto diversi, però, i due palazzi. Il primo, realizzato dopo l’Unità d’Italia, si impone enorme alla vista; l’altro, rinascimentale nel nucleo originario, si apparta nell’antica rete urbana, isolato dal traffico.
Nel dramma di Betti – i personaggi togati hanno nomi improbabili, per prudenza – il giudice anziano Cust è un perfido freddo, il giudice Croz una carogna dai modi coloriti, il presidente Vanan un presuntuoso fragile (nel corso della trama cambia modi e aspetto); gli altri magistrati (Bata, Persius, Maveri) sono viscidi e vigliacchi. Nel loro ambiente si inserisce l’inquisitore Erzi.
Vanan sta per lasciare la presidenza, ambiscono al posto Cust e Croz. Sarà nominato Cust, scapolo e senza figli; Vanan invece è vedovo con una figlia, Elena, coinvolta nella trama, che muore, probabilmente suicida. Prima dell’azione scenica è morto l’affarista Ludvi-Pol, frequentatore di Vanan. Nel corso del dramma muore anche Croz, già malato, ed è un decesso con causa certa.
Il colpevole di corruzione, forse anche di omicidio, è Cust, almeno a un livello elementare; ma anche Vanan e Croz, con sfumature diverse, si sentono o sono colpevoli, forse di aver saputo, tanto che Vanan non farà nulla di serio per scagionarsi del tutto, mentre Croz in punto di morte si dichiarerà colpevole ma non accuserà altri, anzi scagionerà Cust, che poi si sentirà in colpa e dirà di voler confessare la verità a un Alto revisore, che non compare (non è chiaro se lo farà veramente).
Mettiamo un primo punto fermo. C’è un clima contorto, di falsa coscienza, anzi di più coscienze compresenti e tutte almeno parzialmente false. Nessuno è del tutto pulito, chi lo è davvero sarebbe destinato a non restarlo e l’unico modo che ha per evitare la sporcizia è morire. Lo confermano le parole terribili di Elena. La ragazza si è accorta che suo padre, Vanan, si sente colpevole: «Ho letto che anche i condannati a morte, in ultimo, benché innocenti, chiedono perdono come se fossero colpevoli. Accade così. Mio padre è un uomo stanco. Ma è innocente».
Dietro le false coscienze c’è del torbido. Quando i giudici vengono a sapere che saranno inquisiti la prendono in questo modo:
«Croz – Niente di grave, una cosetta tra noi; si tratta di vedere un po’, di indagare, di chiarire…
Bata – (con calore) Ma noi aderiamo con entusiasmo, e ben volentieri mettiamo a disposizione la nostra modesta opera per indagare, sicuro, per chiarire…
Croz – Forse mi sono spiegato male; non è che noialtri dobbiamo indagare.
Bata – No?
Croz – No. Sono gli altri che indagano.
Bata – E noi?
Croz – Noialtri, per così dire, dobbiamo essere indagati. È un po’ diverso. (Un silenzio)».
Di fronte alle accuse scatta una strategia difensiva polimorfa. L’inquisitore Erzi spiega l’indagine, poi:
«Bata – Sarebbe, in conclusione, come se qua e là per questi corridoi, uffici, scale, eccetera, ci fossero degli angoli, dei gomiti non molto illuminati, dove si accumula un po’ di sudiciume, cartaccia, polvere. Ma chi sarà, se mai, a razzolarvi in mezzo? Cancellieri, scrivani, grattacarte e simile muffa.
Persius – Ce n’è uno sproposito qui dentro, saltano fuori da tutti i buchi.
Maveri – Un vero esercito di topi roditori.
Bata – Io direi che la cosa non riguarda i magistrati.
Erzi – L’impressione del ministro è che codeste muffe, codesta aria ammorbata, abbiano germogliato in qualche cosa di più: una specie di fiore velenoso. (Un silenzio)
Bata – Capisco. Anche noi giudici: siamo in parecchie centinaia, qua dentro, a far svolazzare le nostre toghe nere e brontolare le nostre giaculatorie».
Sono reazioni di negazione, di sviamento, poi di minimizzazione che scivola verso il pittoresco e l’autorappresentazione grottesca. Il giudice che si mette bonariamente in ridicolo, a volte anche in udienza, è un fatto che nel mio lavoro ho incontrato più volte. Dove c’è falsa coscienza c’è falsa critica; come quella sulla bocca del peggiore, Cust, quando vuole screditare il presidente Vanan davanti alla figlia. Per farlo richiama l’attenzione su una caratteristica dei magistrati – lavorano con le parole – , la voce:
«Cust – Una voce conosciuta, cara: ma pure, qualche volta, parlando con l’eccellenza, col personaggio, voi sentivate che quella voce si faceva un po’ troppo premurosa, estatica, zelante; e poi invece un po’ frettolosa, sbrigativa col poveraccio. Succede a tutti. E poi finalmente bonaria e benigna dall’alto, col vecchio usciere».
Non posso leggere senza disagio, perché ho inciampato anch’io, fra queste bassezze, nell’ultima.
Cust fa osservazioni esatte – insieme a insinuazioni sulla vita privata – sempre per colpire il padre di Elena: «La scala dei doveri umani si fa un po’ confusa nell’animo di Vanan. Egli condannava da troppo tempo. Vi è un certo pericolo in ciò». Il nesso fra la severità nei giudizi e comportamenti personali discutibili è un’intuizione acuta ma poco sviluppata; e poi, chi legge sente l’esigenza di sapere come sia lui, Cust, nel lavoro processuale; insomma, ci si chiede se sia anche lui uno di quelli che castigano senza misura perché hanno la coscienza sporca.
Adesso ecco il Palazzo. Cust – è un deposito di informazioni, un vivente archivio – dice cose illuminanti sui magistrati quando parte dal luogo. Qui, anche se siamo al «palazzaccio» di piazza Cavour, cominciamo ad avvicinarci al contesto materiale dell’Armadio della vergogna, cioè a Palazzo Cesi:
«Cust – (pensieroso) Sono stanze molto quiete. Vi siedono uomini dal viso malaticcio, proprio di chi vede raramente il sole. Per lunghi anni, ascoltando in silenzio molte bugie, essi hanno esaminato azioni umane di straordinaria sottigliezza e perfidia. La loro esperienza è immensa. La gente vede oltre il tavolo dei signori un po’ logorati e cerimoniosi. Ma in realtà, specie quelli di essi che salirono agli alti gradi, sono dei lottatori, caro collega, nonostante che le loro vene irrigidite si rompano con facilità. Generalmente hanno il sonno difficile, […] e così covano le loro idee a lungo. Sono capaci di ascoltare attentamente, tenaci, prudentissimi»[5].
Quando i sospetti di corruzione si addensano su di lui, il presidente è sconvolto:
«Vanan – (urlando e quasi piangendo) Ma voi credete che io non capisca che cosa… che cosa si vuole da me? Trascinarmi, accusarmi, non è vero? Io ho capito benissimo! Vili! Vili pigmei! Vi schiaccerò! Vi faccio vedere io! Io farò crollare… assolutamente, farò crollare l’intero palazzo! Io denuncerò il colpevole, farò delle denunce precise! Non mi conoscono ancora! Non sanno chi è Vanan! Li sbrano tutti! E poi… e poi…»[6].
Poi Vanan non si difende con efficacia, anzi si umilia davanti a Cust come se volesse diventare colpevole:
«Vanan – Sai Cust, tu sei stato il solo… (Quasi piangendo) Io non ho amici: sono sempre stato troppo orgoglioso. Ora qua tutti… si darebbero delle arie, vorrebbero umiliarmi. Tutti diventano subito così… cattivi, perfidi».
Sono i terribili sbalzi di autostima delle persone circondate da un sussiego che traveste il sospetto, l’invidia, l’odio; è un cerchio che li soffoca alla gola, quando non hanno sufficiente saldezza d’animo né altri contrappesi. Così, ho visto magistrati altezzosi perdersi sino al ridicolo. Vanan che vuol far crollare il palazzo fa pensare, in altra vicenda, alle dichiarazioni del banchiere Roberto Calvi sul fatto che le sue rivelazioni avrebbero fatto crollare il Vaticano (un altro Palazzo, a un chilometro sia da piazza Cavour sia da Palazzo Cesi). Tempo dopo, sotto un ponte di Londra, Calvi pendeva impiccato. Già, Roma: palazzi labirintici, pieni di segreto, che mostrano crepe ma non crollano mai.
Quell’autostima, però, non è prerogativa di Vanan; certi dettagli la fanno occhieggiare anche altrove. Per esempio, quando Cust sta per diventare presidente, l’inquisitore si congratula: «Erzi – (leggero e cordiale) La scrivania dietro la quale d’ora in poi coltiverete i vostri acuti pensieri sarà monumentale, imponente».
In seguito Vanan crolla e si lamenta:
«Vanan – Io sono vecchio, Cust, sono stanco. E qui, ora, sono tutti sgarbati, tutti superbi. […] L’uomo ha bisogno di pace, non può stare contro tutto. Delle volte dico a mia figlia che vengo al palazzo, e invece vado in un giardinetto, sto un po’ lì»[7].
Ho conosciuto un magistrato potente, all’epoca in servizio al Consiglio superiore della magistratura, che raccontava la sua ambizione di poter, un giorno, sedere su una panchina e dare il becchime ai piccioni, senza fare assolutamente altro; non era dei peggiori, anzi. Però è probabile che il pubblico si commuova, di fronte alla presunzione di Vanan che si dirada mostrando un po’ di umanità. Quanto a me, che a volte ho incontrato queste persone, per loro non riesco a fare altro che raggelare la distanza e provare a farne un bisturi. Una strategia che ha funzionato nelle mani di Leonardo Sciascia e che Betti non tentò neanche.
Cust, un uomo solo, è oppresso da ricordi e rimpianti che si è illuso di colmare con la caccia al potere. Quando incontra Elena, giovanissima e immersa nel candore, devota al padre sino al fanatismo, fantastica: potrebbe avere una figlia come lei, una moglie come lei, una madre come lei. La costruzione mentale estesa alla madre può far intuire privazioni profonde. C’è comunque una madeleine, nell’anima ferrigna di questo ambizioso, e a farla emergere è proprio Elena:
«Cust – Sì, la ragazza somiglia a qualche cosa. […] A una figura di un barattolo, un barattolo di latta, che era una volta a casa mia, da ragazzo; una donna coi capelli sciolti… e un diadema… alzava un bicchiere, la reclame di qualche cosa. A me piaceva immensamente. Immensamente. Somigliava alla figlia di Vanan».
Anch’io ho ricordi simili. Su una scatola di dadi da brodo, la donna aveva i capelli ben pettinati e un sobrio filo di perle: con un sorriso caldo e composto sollevava un cucchiaio, e poteva indifferentemente accostarsi lei al piatto o prepararsi a imboccarmi, magari dopo aver soffiato premurosa sulla cucchiaiata bollente.
E poi. Il magistrato Adriano Burbatti, importante nella mia formazione, da anziano voleva che al mattino l’orzo solubile venisse in tavola sempre nel solito barattolo, su cui si vedeva un’immagine di serenità familiare. Compiacente, la domestica si prestava all’inganno. Un inganno apparente, perché lui, malgrado l’età, sapeva bene che quella marca d’orzo era fuori commercio da mezzo secolo; in cucina l’orzo di altre marche – le domestiche cambiavano, ma si passavano la rigorosa consegna – era periodicamente riversato nell’unico barattolo superstite. Quel contenitore consunto, e negli ultimi anni schiacciato, sbiadito, deformato come il corpo del padrone di casa, continuava a tener viva la calcolata illusione.
Torniamo a Corruzione al palazzo di giustizia. Il giudice Croz mostra una torsione mentale grave, forse patologica. Prima si finge morto e ascolta una confessione di colpa di Cust, per mostrarsi subito ancor vivo; poi è morente per davvero e avverte: fra poco parlerà con l’inquisitore, potrebbe smascherare Cust o scagionarlo:
«Croz – Potrei anche salvarti, caro, gli scherzi… mi hanno sempre divertito. In tal caso sarei io a nominarti presidente, sarei io a mettere l’ermellino sulle spalle del gran lebbroso, questo immondo guscio avrebbe la sua degna lumaca».
La scelta se denunciare un corrotto o promuoverlo a una presidenza è sul filo della follia: il bivio fra castigo e premio diventa uno scherzo. Anche qui, il magistrato che si balocca nel suo ruolo e la doppiezza del potere non sono novità: nella Recherche un commissario di polizia, «proponendosi come inimitabile modello i presidenti di corte d’assise dalla battuta facile», rimprovera al narratore gli approcci a una minorenne, e poco dopo gli suggerisce di farli con furbizia[8].
Croz rincara la dose parlando dei colleghi:
«Croz – Questi giudici mi hanno sempre rivoltato lo stomaco. Molti di essi sono integerrimi, dignitosi. E questi saranno longevi. Sono di legno. Quanto agli altri… accostati, Cust… Essi fanno giustizia! Ah ah ah. (Ride) Cioè essi esprimono il parere che certe azioni siano giuste e altre no. Come una salsiccia è appesa a un’altra salsiccia, così questo parere è appeso a dei codici ben rilegati. E questi codici, via via, ad altri codici e leggi e tavole sempre più antiche. […] L’inconveniente è che manca il gancio principale, l’uncino originale… mancando il quale… ecco tutta la fila di salsicce per terra! Ma dove, ma come, ma quando! Chi è stato a stabilire che una cosa è giusta e l’altra no? […] Ecco perché noi giudici siamo tutti degli ipocriti, tutti pieni di salsicce irrancidite! Ecco qual’è la vera corruzione di questo palazzo, ci puzza tremendamente, non vedo l’ora di esserne fuori»[9].
Il tono è fumettistico ma qualcosa coglie nel segno. Nel lavoro del giurista ci sono serie logiche di norme e una tecnica per interpretarle, però le decisioni all’origine di quelle regole – conseguenze di storia, economia, politica, conflitti di classe, tecnologia, violenza – sono opinabili e comunque sfuggono alla presa di chi le applica, prescindono dalle sue convinzioni. Però, a veder meglio, il discorso di Croz è sbagliato. È una posizione pessimista, disperatamente cinica; è la stessa che spadroneggia, dopo, quando Cust è turbato perché si sente colpevole ed Erzi gli comunica la nomina a presidente: «Addio Cust. Lascia che il mondo cammini. Essere uomini è questo». Un fatalismo e una rassegnazione che poggiano su un mito falso, conformista, vagamente militarista: la maturità, l’essere uomini, mentre così si è burattini.
In ambito legale quel pessimismo e quel cinismo si basano sull’atteggiamento formalista e positivista tipico dei giuristi fascisti; tutto si rivela ben diverso se quel gancio è dato dal robusto progetto costituzionale uscito dalla Resistenza, dal conflitto, da una scelta di campo che spazza via il vecchio, falso unanimismo nazionalista, corporativo e interclassista del regime mussoliniano. Da un lato ci sono il cinismo e la scissione di coscienza (nel dramma Croz salva Cust accusando se stesso), dall’altro c’è il lavoro giuridico come impegno per cambiare la società: nella Costituzione si legge – non si applica ancora, certo, e la colpa è anche di tanti giuristi – una regola d’oro: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…».
A questo punto, provando ancora ad avvicinarci alla questione dell’Armadio e di chi ne fosse al corrente, teniamo conto – con ferme distinzioni da vedere subito – di quando Erzi, l’inquisitore, parla con Cust e immagina il momento della tentazione, cioè i primi contatti fra il corruttore e il giudice:
«Erzi – La conversazione divagò, alte amicizie, segreti poteri, attraenti lusinghe balenarono in essa. […] Il prudente visitatore tentava di incontrare qualcosa che nella anima del giudice era in attesa, e che si chiamava ambizione; oppure avidità; oppure invidia; oppure odio. Quando è che quella lecita cordialità, quelle vaghe promesse, quel sottile legame divennero un laccio, tenuto dalla mano di un padrone? […] Fu così che quel giudice pose a servizio di un padrone e dell’ingiustizia una mente acuta e dominatrice. Falsò decisioni, tradì segreti, alterò destini umani; sparse qui un turbamento che presto inquinò l’intiero palazzo; condusse la ferrea ruota della legge su molti innocenti»[10].
Quando Erzi chiede il perché di quel comportamento, la spiegazione di Croz paragona al diavolo il corruttore e prosegue: «Succede al giudice come al prete: dopo aver officiato tutta la vita davanti al ciborio, gli viene una uggia terribile, e una gran voglia di vedersi apparire davanti appunto il diavolo». La tesi è davvero rozza – nel dramma Croz è così – anche se l’interrogativo sulle motivazioni del cambio di campo è importante.
Il punto centrale, considerando la mancata giustizia sulle stragi nazifasciste, è che in Betti l’insieme di queste domande sui magistrati, oltre a essere appiattito sulla parte più grossolana della cultura religiosa, comporta un elemento esterno, il corruttore, e un compenso preciso per il corrotto. Nel caso del silenzio e dell’inerzia dei magistrati militari sull’Armadio della vergogna, invece, non c’è un compenso individuabile – diverso dalla solidità di brillanti carriere – , un apparato tace e non si riesce a vedere un momento specifico in cui la persuasione faccia cambiare idea a qualcuno, spingendolo ad abbandonare la fedeltà al suo paese e alla giustizia.
Anzi. Non dev’esserci stato un vero cambiamento di idee, perché la conformità al fascismo dei magistrati militari durante il regime era garantita, e anche dopo la guerra, a Palazzo Cesi, il loro orientamento reazionario non comportò, per l’insabbiamento delle indagini, un ribaltamento di posizione, uno sforzo contro la loro natura. Nel proteggere i colpevoli dei crimini nazifascisti probabilmente non sentirono di compiere un tradimento della Repubblica, rispetto alla quale erano un corpo estraneo, un’isola protetta. Ancora negli anni Settanta uno studioso autorevole denunciava il rischio che la giustizia militare serbasse le caratteristiche di «una felix (?) insula rigorosamente tenuta lontana dal “contagio”» della Costituzione[11]. Un Palazzo chiuso, separato anche da quello potente di piazza Cavour, e privo persino di un nome triste e ambiguo capace di correre sulle bocche del popolo: «il palazzaccio», immenso, con le scale gremite di varia umanità, come in I giorni contati di Elio Petri, e con le architetture opprimenti, come in Le Procès di Orson Welles, girati proprio lì.
La stessa questione, però, riguarda i magistrati militari entrati nella struttura successivamente, e in modo più bruciante quelli entrati dopo la riforma degli anni Ottanta, considerata come l’adeguamento della giustizia castrense alla Costituzione. Neanche da questi magistrati sono venuti elementi risolutivi sul passato; per scagionarli tutti senza riserve sarebbe necessaria la certezza che non si fossero accorti della presenza dell’archivio; invece sarebbe grave – di ciò non può affatto dirsi che vi sia prova – , se qualcuno ne avesse avuto sentore o notizia, apertamente o in modo indiretto. Sul punto, il lavoro svolto dalla Commissione bicamerale dal 2003 al 2006 offre spunti che forse hanno bisogno di sviluppo[12].
Sulla necessità di conservare il segreto il dramma di Betti è interessante perché nella conversazione fra Erzi, Cust e Croz si prova a immaginare la posizione del magistrato traditore, anche con la sua situazione nervosa, tesa sino al desiderio di fuggire:
«Cust – (quasi fra sé) Chi resterebbe, a covare la cosa, cioè il delitto, cioè il pericolo, a sorvegliarlo, a viverne?
Croz – (piegandosi su lui) Sai Cust che cosa credo, io, addirittura? Che la sua voglia, il suo bisogno più tremendo sia quello di parlarne. Della cosa. Parlarne. Ho ragione?
Cust – (smarrito e trasognato) Forse»[13].
Covare la cosa sarebbe un’espressione forte, per un segreto tremendo come la presenza di indagini e prove su massacri, che devono restare nascoste. Ma anche qui, il teatro resta indietro rispetto alla realtà, o meglio la realtà è più drammatica del teatro, sia perché si immagina la colpevolezza di uno solo, che non deve tradirsi coi colleghi, sia perché – trattandosi appunto, almeno all’inizio, del comportamento di un gruppo – applicare quella dinamica all’Armadio della vergogna sarebbe sopravvalutare la coscienza di quei magistrati: non risulta che nessuno di loro abbia sentito il bisogno di parlarne neanche dopo il 1996, quando la vicenda divenne pubblica e l’ammissione di aver saputo non avrebbe comportato, in fondo, rischi diversi dal guadagnarsi il disprezzo dei giusti (una pena che pochi temono, in Italia).
Rifrequentato l’archivio e riattivati i procedimenti, i magistrati militari di molti anni prima continuarono a tacere, persino dopo il pensionamento. Su questo sono pertinenti le parole di Croz, quando replica a un’osservazione di buon senso sul fatto che un essere umano, comunque, dopo una certa età sarebbe «fuori dal gioco»:
«Croz – (sghignazzando) Fuori dal gioco? Ma non si è mai fuori dal gioco, caro Erzi! Mio caro, voi figuratevi uno di quegli insetti neri, brutti, pinzuti. E uno lo stuzzica: e quello pinza. E uno lo storpia: e quello pinza. E uno lo stronca in due: e quello pinza. E uno gli trafigge e gli schiaccia anche la testa: e le pinze seguitano a pinzare, a pinzare, a pinzare»[14].
Croz ha ragione. Il buon senso qui vale poco, perché si misura su comportamenti di media correttezza o scorrettezza, mentre il silenzio sui crimini nazifascisti comporta una scelta di campo che segna la persona, che la condiziona in modo profondo.
Centrale, in tutto questo, è la presenza dell’archivio, che nel dramma serve a cercare il colpevole e nel caso delle stragi – teniamo da parte la questione di come fosse fatto: armadio, scaffali eccetera – diventa in un certo senso l’oggetto del crimine. Il giudice anziano sottolinea l’importanza dell’archivio per rintracciare il corrotto:
«Cust – Se [le parole] voi le guarderete tutte insieme, per ferrea che sia stata la sua astuzia, non credete che qualche cosa dovrà pur tradirle? Un ritorno insistente di certe ambiguità e cavilli: il sapore della corruzione. Sarà quel sapore a distinguere le parole di quel giudice da quelle di tutti gli altri. L’unico filo è questo. (Tornando a indicare) Le carte»[15].
È di Erzi l’osservazione che i documenti – sottili, si usa la carta velina – sono sempre vivi: «Erzi – Le sottili carte che egli – e gli altri – annerirono con il loro frettoloso inchiostro, noi ora le troveremo, benché in un cimitero, più vive di lui»[16].
Attenzione, però. Se nella ricerca di un singolo corrotto le parole negli atti dei processi servono a ricostruire i suoi metodi di alterazione del lavoro giudiziario (si può pensare alla prosa di qualche magistrato sabotatore dei processi ai mafiosi), invece nulla, nel contenuto dell’archivio sulle stragi, aiuta a chiarire per gli anni successivi le responsabilità dei magistrati militari, per i quali l’archivio funzionò appunto come un corpo, ma che ebbe la parte di oggetto più che di strumento. Poche volte l’espressione giuridica corpo del reato è stata così pertinente e insieme distante, perché in quei carteggi, sottili, invece erano spesse e dense le vite sconvolte delle persone: corpi vivi, privati degli affetti più cari, della casa, del sostentamento. L’archivio, nelle stragi, somiglia al corpo delle vittime di sequestro di persona; e infatti, come in quel caso, lo scopo della giustizia è liberarlo, restituirlo alla luce e al movimento, non confiscarlo.
Corruzione al palazzo di giustizia naturalmente non risponde a nessuna delle domande più concrete sull’archivio delle stragi, e neppure al perché non fu semplicemente distrutto. Due elementi, però, sono curiosi.
Primo. Nell’archivio esaminato da Erzi le prove non si trovano; i verbali delle cause in cui si sospetta corruzione non ci sono, ma Cust esclude che siano stati sottratti:
«Erzi – (interrompendolo, quasi con un grido) Cust, dove sono quelle carte?
Cust – (calmo, indicando l’archivio) Là dentro a idea mia. Però nascoste in mezzo, in fondo, a montagne e montagne di altri fascicoli e carte. L’uomo ha avuto pazienza, si tratta d’averne altrettanta»[17].
Qui è presentata una tecnica di nascondimento che non risulta usata nell’archivio sulle stragi e che sarà, invece, una componente dei depistaggi postbellici sulle trame nere e le stragi fasciste: all’interno di archivi, lo spostamento di atti, rispetto alla loro segnatura corretta, con ricollocazione sbagliata.
Secondo. Neanche Cust trova le carte che cerca, compromettenti per sé, e Croz spiega: «Croz – Per fortuna (accennando verso la porta dell’archivio) tanto entra di lì e tanto ne esce. Come tutto il resto. Il cimitero più cimitero di quello lì si chiama macero»[18]. La rozzezza di Croz combacia con questa soluzione sbrigativa: l’archivio di Palazzo Cesi non fu distrutto né sottoposto alle procedure di scarto previste dalla legge; per questo sopravvisse e fu infine rifrequentato. L’Armadio della vergogna – una vicenda fortemente intrecciata al sangue – non fu un cimitero, e in questo sta uno dei suoi tratti spaventosi: la mancata giustizia tenne viva la morte.
C’è ancora qualcosa di vicino alla questione dell’Armadio nel commento dell’inquisitore, quasi alla fine:
«Erzi (bonariamente scherzoso) La tempesta placata… fra poco alcuni operai abbasseranno delle leve, le lampade si spegneranno; e mentre il giorno crescerà sull’incantevole lago della vita nuovamente pacifico e azzurro, noi ce ne andremo a letto, sicuri che la cosa, qui nel palazzo (voltandosi a Cust)… è di nuovo in buone mani»[19].
La cosa in buone mani. È implicito un riferimento al fatto che, dal momento della morte di Elena, Cust ha preso a pulirsi meccanicamente una mano. Un moto maniacale simile è in Sciascia, Il contesto (anche qui i nomi sono improbabili):
«Il giudice Azar: uomo forastico e cupo, e nello spavento che malattie e sentimenti lo contagiassero aveva passato gli anni dalla giovinezza alla morte. Mai aveva stretto la mano a un collega, a un avvocato; e quando non poteva sottrarsi alla stretta di mano, ché qualche superiore nuovo arrivato gliela porgeva, soffriva fino a quando non riusciva a inconigliarsi dietro una tenda o da qualche parte dove non vedendo si credeva non visto: e tirando fuori una fiaschetta d’alcool, abbondantemente, la sola cosa in cui abbondasse, se ne versava sulle mani scarne, incordate di arterie, maculate come pietre da lichene»[20].
Sciascia ha letto Betti? Più probabilmente un gesto reale è stato notato. Anch’io ho memoria di un magistrato con abitudini del genere, quanto alle mani; come di un altro, instancabile nello stropicciarsele.
Qualcuno nasconde la colpa e qualcun altro, come Erzi, ha la perfidia di alludervi. Ovvio: l’assoluzione impartita dai colleghi si chiama ricatto, condizionamento. Contesto, appunto. E poi, le luci del palazzo che brillano nell’atroce bonarietà dell’inquisitore sono anche le luci del palcoscenico, e su questo la presenza dello spettacolo, insieme al segreto, nel lungo periodo rimanda all’ingiustizia ritualizzata e specialmente all’Armadio della vergogna. Dopo il buio dell’archiviazione illegale, grazie alla rifrequentazione degli anni Novanta si è ammirata la celebrazione di pochi dibattimenti: un’attività lunga, terminata nel 2015, che non ha fatto giustizia. Esauriti quei lavori processuali, la magistratura militare non ha fatto i conti col passato; pochi anni fa la struttura non ha neanche risposto ad alcune domande su questo argomento[21]. Iniziata quando Guy Debord non poteva neppure aver in mente di scrivere La società dello spettacolo, la storia dell’Armadio della vergogna è accostabile a quelle intuizioni.
La cosa in buone mani è il prosieguo coerente, anche nel paradigma spettacolare, del covare la cosa, che a sua volta riprende la cova notturna delle idee, la prudenza malaticcia del Palazzo. Prima il problema era serbare un segreto, alla fine la soluzione mostra a tutti un ordine luminoso, una tempesta placata. L’uovo dell’ingiustizia, covato nell’appartata giustizia castrense, si è schiuso per dare alle chiacchiere dei facili commenti un pulcino che non volerà. «Vieni, Dolabella, e riconosci un alto ordine in questa grande solennità», dice un verso di Shakespeare, segnalato a proposito della parola ordine nel comunicato dell’agenzia Stefani dopo le Fosse Ardeatine[22]. Anche la cosa in buone mani è un ordine ristabilito.
[1] Ugo Betti, Corruzione al palazzo di giustizia. Dramma in tre atti, Cappelli, Rocca San Casciano 1959. Nei dialoghi ho tolto i puntini di sospensione che mi sembravano in eccesso.
[2] Betti, Corruzione al palazzo di giustizia, cit., prefazione di Federico Doglio, pp. 5-17.
[3] Marco Ramat, Primo codice, Editori Riuniti, Roma 1987, p. 97.
[4] Betti, Corruzione al palazzo di giustizia, cit. prefazione di Doglio, p. 5.
[5] Betti, Corruzione al palazzo di giustizia, cit., p. 64.
[6] Ivi, p. 49.
[7] Ivi, pp. 81-82.
[8] Marcel Proust, La fuggitiva, tit. orig. La fugitive, trad. di Franco Fortini, Einaudi, Torino 1973, p. 30.
[9] Betti, Corruzione al palazzo di giustizia, cit., pp. 114-115.
[10] Ivi, 65-66.
[11] Mario Chiavario, Una felix insula resa immune dal «contagio» del garantismo costituzionale? (A proposito dei rapporti tra l’ordinamento giudiziario militare e la VII disposizione transitoria della Costituzione), in «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 1971, pp. 1314-1324.
[12] Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, istituita con legge 15 maggio 2003 n. 107.
[13] Betti, Corruzione al palazzo di giustizia, cit., p. 71.
[14] Ivi, p. 67.
[15] Ivi, p. 73.
[16] Ivi, p. 78.
[17] Ivi, pp. 96-97.
[18] Ivi, p. 107.
[19] Ivi, p. 123.
[20] Leonardo Sciascia, Il contesto. Una parodia, Einaudi, Torino 1971, p. 14.
[21] Mi permetto di rinviare a Luca Baiada, Certe domande su crimini nazifascisti e giustizia militare, in questa Rivista, LXXX n. 4-5 (luglio-ottobre 2024), pp. 112-120.
[22] Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma 1999, p. 4. Anthony and Cleopatra: «Come, Dolabella, see / high order in this great solemnity».