La guerra e il potere, economico, politico e culturale, sembrano implicati, nella Storia, in una collusione opprimente e inestricabile. Adesso, forse, più che in ogni epoca passata. Tant’è vero che, oggi, la sintassi di chi voglia sostenere, nel merito, tesi difformi dalle maggioritarie debba essere obbligatoriamente appesantita da tutta una sequela di premesse concessive. In una temperie sociolinguistica in cui la comunicazione di massa inclina alla lapidarietà dello slogan pubblicitario e dell’ultimatum terroristico, salterà all’occhio l’entità del supplizio comminato, o ne risulterà quantomeno evidente la sofisticatezza al confronto, ad esempio, con la schietta protervia con la quale il regime fascista soleva esigere dichiarazioni di lealtà.

Proprio negli anni in cui la dittatura, in Italia, ebbe solida parvenza e illuse le moltitudini col sogno effimero d’una millenaria restaurazione augustea e col primato della razza, la Terza Repubblica francese concedeva onori d’un diverso genere ad una vecchia gloria della letteratura nazionale.

Nato, in un borgo del nivernese[1], sullo scorcio d’un altro caduco impero, quello di Napoléon III, Romain Rolland festeggiò il settantesimo compleanno nella circostanza, entusiastica e quasi esaltata, dell’ascesa al governo del Fronte popolare[2].

Benché egli vantasse, allora, una personalità artistica ed intellettuale congrua ad una biografia tra le meno scevre di segni di predestinazione, avendo ottenuto l’agrégation in Storia all’età di appena ventitré anni e una cattedra di Storia dell’arte all’École normale supérieure a soli ventinove, essendo stato l’organizzatore del primo Congresso di Storia della musica[3], tenutosi a Parigi all’alba del ventesimo secolo, nonché l’autore del romanzo in dieci tomi, Jean-Christophe[4], che gli era valsa la celebrità entro l’anno delle guerre balcaniche e, allo scoppio della Grande guerra, la fama di assertore d’un pacifismo tanto ben espresso e recepito da indurre l’Accademia delle scienze di Svezia ad assegnargli il Nobel per la letteratura[5], volendo metter poi in conto di succedaneo il merito d’aver fatto conoscere in Europa il pensiero di Ghandi[6] o quello, più recente, d’aver aderito alle posizioni della Terza Internazionale ed aver visitato l’Unione Sovietica, in compagnia della nuova moglie[7] e del fraterno amico Gorkij, nonostante un così cospicuo coinvolgimento personale negli accadimenti più decisivi ed emblematici, Romain era un uomo schivo.

Sebbene avesse discusso la tesi di laurea in Lettere, allorché le prime proiezioni dei Lumière portarono scompiglio nelle percezioni dei cittadini, proprio su un argomento d’interesse drammaturgico, Le origini del teatro lirico moderno (Storia dell’Opera in Europa, prima di Lulli e Scarlatti), benché avesse esordito, fin da quell’ultima decade dell’Ottocento, con numerose pièces di carattere storico e filosofico, si era sempre astenuto dall’assistere alle messe in scena dei suoi testi[8].

In quell’estate del 1936, invece, la congiuntura sembrò tanto favorevole e promettente che pure quel vecchio, severo con sé stesso e generoso con gli altri al punto che il collega austriaco Stefan Zweig, in ideale rappresentanza di non pochi né infimi, l’avesse designato “Coscienza d’Europa”[9], anche lui si lasciò trascinare dall’euforia generale e sedette nella platea del Théâtre de l’Alhambra, il 14 luglio.

Nelle settimane in cui le truppe naziste, in spudorata violazione dei trattati, marciavano sulla Renania, mentre i golpisti di Franco consultavano gli orologi nell’imminenza del pronunciamento e Hailé Selassié denunciava alla Società delle nazioni i bombardamenti chimici sulle popolazioni civili perpetrati dagli occupanti italiani, in un contesto così indicativo delle prossime catastrofi, quanto lo potrebbe esser forse l’attuale, Rolland poté infine assaporare il compimento estetico dell’opera che aveva scritto oltre trent’anni prima.

L’allestimento del dramma in tre atti, Le 14 juillet[10], fu sostenuto dalla Maison de la culture[11], fondata da Louis Aragon allo scopo d’imprimere una connotazione proletaria alle arti. Per eseguire la partitura teatrale congegnata dal Maestro di Clamecy, vennero scritturati una quarantina di attori professionisti, assieme a centocinquanta attori-operai. Lo spettacolo si proponeva esplicitamente di coinvolgere il pubblico nell’azione scenica, principalmente tramite una coreografia, prevista in coda alla recita e affidata al danzatore Tony Grégory dell’UTIF[12], la quale esaltasse l’aspetto festoso e la gioia liberatoria degli eventi rivoluzionari, una “ronde de la paix et de la fraternité”. Contribuirono alla composizione delle musiche di scena sette affermati autori, tra cui Darius Milhaud, Georges Auric e Arthur Honegger. Le scenografie furono arricchite da una tela commissionata a Pablo Picasso e l’effetto generale eccitò il compassato creatore fino a fargli esclamare:

[…] il sipario di Picasso è un rebus gigantesco: il Fascismo, uccello rapace, sostiene il bestiale capitalismo, ormai prossimo a crollare. Di fronte ad esso, un uomo barbuto si libera delle spoglie d’un animale, e porta sulle spalle un giovane genio, circonfuso di stelle. Il pubblico non inizia a reagire che all’apparizione di Marat, il cui nome scatena gli applausi. A partire da questo momento, va sempre più esaltandosi. Segue l’azione, ribollendo. Le battute di Hoche, di Marat, di Robespierre sono interrotte dalle acclamazioni. Io stesso sono sorpreso dalla potenza di propaganda rivoluzionaria della mia opera. Essa nasconde cumuli d’esplosivi. Comprendo che nessun governo, prima di questo, abbia mai tentato di farla rappresentare. Mi si rimprovererà sulla stampa di averlo disseminato di allusioni agli avvenimenti d’attualità; e – ciò è vero – costantemente alcune frasi s’addicono bene ai nemici del Fronte popolare, ma anche agli avvenimenti di Spagna, da un mese a questa parte. Si badi bene che il testo, senza alcun cambiamento, risale ad oltre trent’anni fa…[13].

Già allora, a inizio secolo, Rolland era stato capace di pregustare il destino del proprio Théâtre de la Révolution, se è vero che, nei commentari che accompagnarono l’edizione dell’opera per i tipi dei «Cahiers de la Quinzaine» di Charles Péguy, affermava:

Si tratta qua, come indica il titolo, d’una festa popolare, la festa del popolo di ieri e di oggi. Perché abbia tutto il suo senso, bisognerebbe che il pubblico stesso vi partecipasse, che si mescolasse ai canti e alle danze finali. La musica deve giocarvi un ruolo essenziale. Il suo compito è di precisare il senso eroico della festa e di colmare i silenzi che una folla teatrale non può mai riuscire a riempire completamente, che si aprono, nonostante tutto, in mezzo alle sue grida e che distruggono l’illusione della vita continua. Non è necessario che il pubblico colga tutte le parole della folla, non più che tutte le note dell’orchestra e dei cori; bisogna che abbia soltanto l’impressione d’una sagra trionfante. Io vorrei, inoltre, l’ossessione imperiosa d’un tema – tema della gioia e dell’azione –, tema della Libertà che conquista il mondo… […] il medesimo inno, ripreso dai cori sulla scena e su tutti i piani della sala, su tutti i lati della piazza, da gruppi di voci, da piccoli cori o da piccole orchestre, che circondano il pubblico e lo forzano moralmente a cantare con loro – Se questo pubblico è composto, solo in parte, da uomini del popolo e da giovani che sentono, per loro conto, le passioni della Rivoluzione, io rispondo che canterà[14].

Eppure, solo allorquando nelle strade di Barcellona erano già in corso i primi scontri della Guerra civile, preludio europeo alla totale, soltanto allora, Rolland ebbe la verifica della bontà dei propri postulati estetici, tant’è che le repliche del suo dramma si protrassero ben oltre il termine stabilito e i cittadini di Parigi continuarono a gremire, ogni sera, tutti i duemila posti del teatro, dal 14 luglio fino al 10 agosto.

Fosse sancita, una volta per tutte, la generale subalternità al pensiero ed al linguaggio dominante, a questo punto, dovremmo concludere, in fretta e furia, che una simile saldatura d’intenti, tra energie materiali e risorse spirituali, tra ceto intellettuale e classe lavoratrice, non sia più proponibile.

Poiché la cronaca immortala, da un pezzo a questa parte, solo i reperti quotidiani d’una cultura imperialista e bellicista, che non recede da alcuno dei crimini di cui la Storia illustra l’esaustivo repertorio, né si esime dal prelibare quei nuovi che il progresso tecnico dell’empietà metta a disposizione soltanto adesso, dal momento che il conflitto capitalistico evolve le sue forme nella vita quotidiana, organizzata in società dello spettacolo, visto che l’involucro delle democrazie viene strappato via dalle alluvioni, metaforiche e concrete, che caratterizzano il destino della civiltà liquida, tanto che alla stessa Reale Accademia di Svezia scivoli di mano il prestigio della neutralità e la belligeranza si riproduca fin dentro le coscienze sottoposte al diluvio mediatico, ben più in fretta di quanto gli esseri umani possano amarsi sotto le condizioni imposte dalle guerre commerciali e dai mutamenti climatici, per tacere dei bombardamenti tattici o strategici, pertanto, a me e a te, che mi leggi, a noi, in rappresentanza d’una umanità futura la cui autoconsapevolezza potrebbe andar formandosi fin d’ora e, comunque, si formerà, a noi spetta di incarnare la coscienza, non solo d’Europa, ma del mondo, conosciuto e immaginato dai popoli, affermare ciò che le istituzioni vigenti – economiche, politiche e culturali – hanno fino ad oggi negato: le libertà rivoluzionarie, materiali e spirituali, che serviranno a comporre la pacifica democrazia dei popoli del mondo.

 

 

[1] Romain Rolland (Clamecy, 29 gennaio 1866-Vézelay, 30 dicembre 1944) nacque nel dipartimento della Nièvre, tra la valle della Loira e quella del fiume Yonne. La famiglia, nelle cui ascendenze figuravano contadini ma anche notai, si trasferì a Parigi quando Romain aveva sette anni. Nella capitale, frequentò dapprima il Lycée Saint-Louis e quindi il Louis-le-Grand, con tanto buon profitto da esser poi ammesso all’École normale supérieure, nel 1886, frequentando i cui corsi venne in contatto coi poeti Paul Claudel (Villeneuve-sur-Fère, 6 agosto 1868-Parigi, 23 febbraio 1955) e André Suarès (Marsiglia, 12 giugno 1868-Saint-Maur-des-Fossés, 7 settembre 1948). In seguito, come membro dell’École française di Palazzo Farnese, trascorse due anni a Roma, tra il 1889 e il 1891, dove strinse amicizia con Malwida von Meysenburg (Cassel, 28 ottobre 1816-Roma, 23 aprile 1903), anziana precorritrice del femminismo, nonché ispiratrice di Wagner e Nietzsche. Al ritorno in patria, sposò Clotilde Bréal, figlia di Michel Bréal (Landau in der Pfalz, 26 marzo 1932- Parigi, 25 novembre 1915), linguista e ideatore della semantica, professore di grammatica comparata all’École pratique des hautes études e al Collège de France, dove ebbe tra gli allievi Ferdinad de Saussure (Ginevra, 26 novembre 1857- Vufflens-le-Château, 22 febbraio 1913).

[2] Nelle elezioni legislative, svoltesi in doppio turno il 26 aprile e il 3 maggio 1936, la coalizione dei partiti di sinistra, composta dai socialisti della SFIO (Section française de l’Internationale ouvrière), dai comunisti del PC-SFIC (Parti communiste-Section française de l’Internationale communiste), dal Partito Radicale (Parti républicain, radical et radical- socialiste) di Édouard Daladier (Carpentras 18 giugno 1884-Parigi, 10 ottobre 1970; a più riprese Primo ministro in diversi gabinetti, durante gli anni Trenta e fino al tragico ingresso nella Seconda guerra mondiale) e da altre formazioni minori, ebbe una netta affermazione, cui seguì, il 4 giugno, l’insediamento del governo diretto da Léon Blum (Parigi, 9 aprile 1872 -Jouy-en-Josas, 30 marzo 1950).

[3] Considerato, oggi, uno dei padri della moderna musicologia, Rolland insegnò Storia della musica alla Sorbona dal 1904. Nel 1911 diresse, inoltre, la sezione musicale dell’Institut français de Florence di Palazzo Lenzi.

[4] Romain Rolland, Jean-Christophe (1904-12). Ciclo di dieci volumi ripartiti in tre serie: Jean-Christophe, Jean-Christophe à Paris e La Fin du voyage, pubblicati nei «Cahiers de la Quinzaine», rivista bimestrale, apparsa a Parigi dal 1900 al 1914, fondata e diretta da Charles Péguy (Orléans, Loiret, 7 gennaio 1873 – Villeroy, Seine-et-Marne, 5 settembre 1914). In Italia, sono stati pubblicati: Gian Cristoforo, Sonzogno, Milano 1920-25, traduzioni di Cesare Alessandri (III) e G.A. Piovano; Jean-Christophe, Roma, Editori Riuniti, 1966, traduzione di Gianna Carullo, prefazione di Carlo Bo.

[5] Trovandosi in Svizzera al momento della dichiarazione della Prima guerra mondiale, decise di stabilirvisi al fine di meglio promuovere le proprie idee pacifiste. I suoi numerosi interventi sulla stampa del Paese neutrale vennero raccolti, in seguito, nei volumi Au-dessus de la mêlée, Librairie Paul Ollendorf, Paris 1915 (Come in forza d’una strana nemesi delle Muse contemporanee al gran massacro taylorista, l’editore che curò la pubblicazione rollandiana fu il medesimo che un paio d’anni prima aveva rifiutato il manoscritto dei primi volumi della Recherche di Marcel Proust, con la sbrigativa motivazione: «Sarò ottuso, ma non posso comprendere come un signore possa impiegare trenta pagine per descrivere come si giri e rigiri nel letto prima di trovare il sonno») e Les Précurseurs, Éditions de «L’Humanité», Paris 1919. Nel novembre del 1916, l’Accademia svedese gli conferì il Premio Nobel per la Letteratura del 1915, «come un omaggio all’idealismo della sua produzione letteraria e alla simpatia e all’amore della verità con la quale ha descritto i differenti tipi dell’essere umano».

[6] Romain Rolland, Mahatma Gandhi, Librairie Stock, Paris 1926. A conferma di un’indole antesignana delle successive tendenze dei Cultural studies, egli non fu permeabile soltanto alle teorie del Satyagraha elaborate dalla Grande anima di Porbandar, si interessò altresì, per far solo un esempio, alla lotta del popolo nicaraguense contro l’occupazione degli Stati Uniti ed entrò in corrispondenza con l’eroe nazionale Augusto Sandino (Niquinohomo, 18 maggio 1895-Managua, 21 febbraio 1934). Quanto lucida e precoce fosse in lui la critica di quella cultura che, tutt’oggi, vanta pretese egemoniche e globalizzatrici, lo testimonia anche un articolo apparso sul numero del marzo-aprile 1918 della «Revue politique internationale» di Losanna e poi confluito nella silloge Les Précurseurs, nel quale, esprimendo la convinzione che un’autentica cultura di pace si possa affermare soltanto con il sussidio della pedagogia e tramite l’istruzione di specifici programmi di studio fin dall’educazione primaria, egli osservava «che bisogna essere liberi dinanzi a ciò che si ammira e non lo si è restati dinanzi al pensiero classico – ché la forma dello spirito greco-latino, la quale ci rimane attaccata al corpo, non risponde più ai problemi moderni – ché essa impone agli uomini che l’hanno subita, fin dall’infanzia, dei pregiudizi opprimenti, di cui, nella maggior parte dei casi, non si disfanno mai e che pesano crudelmente sulla società odierna».

[7] Nel 1934, Romain sposò, in seconde nozze, Marija Kudaševa (Mosca, 21 maggio 1895-Clamecy, 27 aprile 1985), cittadina russa di madre elvetica. L’unione suscitò cospicue polemiche, giacché esponenti di rilievo dell’anticomunismo francese, quali Georges Duhamel (Parigi, 30 giugno 1884 – Valmondois, 13 aprile 1966) o Henri Guilbeaux (Verviers, 5 novembre 1884 – Parigi, 15 giugno 1938), subodorarono le trame delle autorità sovietiche per affiancare allo scrittore di fama internazionale una donna in grado d’influenzarlo. In effetti, l’avvicinamento di Romain alla Terza internazionale datava almeno dal 1932, allorché fu tra i promotori, a fianco di Henri Barbusse (Asnières-sur-Seine, 17 maggio 1873- Mosca, 30 agosto 1935), del cosiddetto “movimento Amsterdam-Pleyel”, articolatosi, per protestare contro la guerra imperialista sotto l’egida del Partito comunista e della Terza internazionale, in due congressi, il primo tenutosi ad Amsterdam, nell’agosto del 1932, e il secondo alla Sala Pleyel di Parigi, nel giugno del 1933. Nel 1935, per giunta, assieme alla questionata consorte e su invito del collega Maksim Gorkij, si recò in visita a Mosca, dove fu ricevuto da Stalin in persona.

[8] Erano trascorsi appena cinque mesi dal celebre J’accuse di Émile Zola, quando il dramma Les loups di Romain Rolland venne rappresentato al Nouveau-Théâtre, per la regia di Lugné-Poe, nome d’arte di Aurélien Marie Lugné (Parigi, 27 dicembre 1869-Villeneuve- lès-Avignon, 19 giugno 1940), impresario alla cui arditezza il pubblico della capitale era debitore delle messe in scena di autori tra i più validi e controversi, quali André Gide, Henrik Ibsen, George Bernard Shaw, Gerhart Hauptmann, August Strindberg e, persino, l’eversivo Alfred Jarry. Nell’opera d’esordio, il nivernese aveva trasposto le vicende del famoso Affaire Dreyfus al tempo del Terrore, nel 1793, scelta che non mancò di attizzare le già incandescenti polemiche. Seguirono Le Triomphe de la raison (1899), Danton (1899) e Le Quatorze Juillet (1902), i quali dovevano costituire, nelle intenzioni dell’autore, le parti d’un ciclo che lui stesso denominò “Théâtre de la Révolution”, inteso ad illustrare al pubblico contemporaneo l’attualità del messaggio storico della Rivoluzione. Da lì a breve, le sue teorie drammaturgiche erano state inoltre precisate in un teso teorico: Le Théâtre du Peuple, Cahiers de la Quinzaine, Paris 1903.

[9] Stefan Zweig (Vienna, 28 novembre 1881 – Petrópolis, 22 febbraio 1942), quindici anni più giovane dello scrittore francese, lo tenne in stima di maestro fin dalle prime visite in boulevard du Montparnasse, nel febbraio del 1911. La corrispondenza tra i due si era intensificata nei disagevoli anni della guerra, al termine della quale il viennese dette alle stampe la biografia del blasonato amico, contenente l’iperbolico encomio suaccennato: Romain Rolland. Der Mann und das Werk, Rütten & Loening, Frankfurt 1921.

[10] La pièce, stampata nell’undicesimo volume dei «Cahiers de la Quinzaine», il 18 marzo 1902, era stata presentata sulle scene, tre giorni dopo, al Théâtre de la Renaissance, con la regia di Firmin Gémier (Aubervilliers, 1869-Parigi, 1933). Trentaquattro anni dopo, il dramma popolare fu allestito, il 14 luglio 1936, al Théâtre de l’Alhambra, registi Jacques Chabannes (Bordeaux, 13 ottobre 1900 – Issy-les-Moulineaux, 16 giugno 1994) e Sylvain Itkine (Paris, 8 dicembre 1908- Saint-Genis-Laval, 20 agosto 1944).

[11] Ebbe la prima sede al numero 22 di rue de Navarin, condivisa con quella della Association des écrivains et artistes révolutionnaires (AEAR), creata in Francia nel marzo 1932, come sezione della Meždunarodnogo obedinenija revoljucionnich pisatelej (Unione internazionale degli scrittori rivoluzionari), fondata a Mosca nel novembre 1927.

[12] Union des théâtres indépendants de France, denominazione assunta, dopo la costituzione del Fronte popolare, dalla Fédération du théâtre ouvrier de France (FTOF), sorta nel gennaio 1931 con lo scopo di servire le organizzazioni rivoluzionarie, nello specifico il PC-SFIC e la CGTU (Confédération générale du travail unitaire).

[13] Dal sito della Association Romain Rolland http://www.associationromainrolland. org/image_lieux/page15.pdf

[14] Romain Rolland, Théâtre de la Révolution, Hachette, Paris 1909. Il testo tradotto fa parte dei commentari inclusi nel volume assieme ai tre drammi Le Quatorze juillet. Danton e Les loups.

 

 

Immagine: Pablo Picasso