- Dalle crisi alle minacce. Il governo del terrore e la minaccia delle parole
«Siamo in un mondo che cambia», afferma l’Ue (nell’immaginario orwelliano l’Europa), nella Comunicazione congiunta proposta il 26 marzo scorso. Ma il cambiamento è individuato nell’aumento di «rischi e minacce interconnessi», ovvero in un «panorama della sicurezza sempre più complesso e volatile». La risposta dell’Ue? «Un approccio coordinato alla preparazione» che garantisca «una cultura della resilienza in tutta la società». E per chi non avesse capito bene: «essere pronti a tutti gli scenari peggiori».
Et voilà, la strategia del terrore è servita.
Dopo le preoccupazioni suscitate dalle sollecitazioni al riarmo, che molti sembrano aver sottovalutato perché abbagliati dalla religione di un capo europeo difensore della pace, ma che altrettanti hanno rifiutato perché basato su molteplici menzogne, l’Ue sembra avere alzato il tiro con una “Strategia” ben più ampia che ritesse le fila da lontano, auto-attribuendosi poteri inediti di elevata rilevanza come la difesa e la “preparazione alla guerra”, nella disponibilità esclusiva dei singoli Stati.
La tecnica: agganciare le vicende che da sempre colpiscono l’immaginario dell’umano, insinuandosi nei timori e nelle paure che le contraddistinguono. Lo strumento: l’uso e abuso delle parole atte a riattualizzare e mantenere ben vive quelle paure; l’eliminazione dal lessico pubblico delle parole che invece quelle paure vogliono sfatare, non per ignorarle ma per agire con sano realismo sulle ragioni che le determinano.
Crisi e resilienza sono, ahimè, i termini che la fanno da padrone, confermando una narrazione che già da anni ne fa i propri cavalli di battaglia per politiche di austerità, di privatizzazioni e di esaltazione della concorrenza anche tra ordinamenti giuridici; e stabilizza una volta per tutte il ritorno alla paura e allo spaesamento quale vera e propria tecnica di governo. Due termini, crisi e resilienza, che sono stati violentati nei loro significati originari, svuotati dei loro contenuti più preziosi e vitali, trasformati nei vettori fondamentali delle politiche liberalcapitaliste dell’ultimo trentennio (Gats, Wto, Fiscal Compact, Six Pack, Two pack, ecc.). Guardare in cosa si è tradotta la resilienza nel Pnrr italiano ne è la conferma più amara, purtroppo prevedibile fin dai primi passi della ideazione europea (avulsa da un’analisi seria delle condizioni economico-sociali degli ultimi vent’anni), e poi nella costruzione del Piano.
Ma nella Comunicazione europea del 26 marzo vi sono due termini nuovi che compaiono per la prima volta, e che è facile presumere siano destinati a diventare i nuovi protagonisti del lessico europeo: preparazione e minacce.
La comparsa del concetto di preparazione coincide, guarda caso, con la scomparsa del termine che si era invece affermato nei decenni addietro come paradigma più idoneo dei processi di costruzione delle politiche: prevenzione. Preparazione alle crisi vs prevenzione delle crisi. Lo stridore è lampante.
Ma al concetto di crisi, a quanto pare ormai cosí tanto abusato da non spaventare più nessuno, si pensa bene di affiancare quello di rischio e, soprattutto, di minaccia. Qui lo stridore si fa sinistro. E per convincere che le minacce sono reali si accostano fenomeni che nessuna testa minimamente pensante avrebbe mai voluto vedere affiancate con tanta sfacciata disinvoltura. Infine, a svelare una volta per tutte il vero significato che in molti avevano subodorato e temuto di fronte ai primi usi politici del termine resilienza, l’Ue dice la parola-verità: adattamento.
Le persone devono imparare ad adattarsi.
Fino al colpo finale e grottesco di questa politica della rassegnazione: il Kit di sopravvivenza. Da tenere possibilmente sotto il cuscino. Qualunque sia il tipo di crisi e di minaccia. Che si tratti di un terremoto o di un attacco armato. Che si tratti di una calamità naturale imprevedibile o di una scelleratezza umana che si poteva e doveva evitare. Che la minaccia sia la natura o l’uomo, non fa più differenza, tutto è posto sullo stesso piano. Tutto è legittimato nella sua possibilità di accadere. L’essere umano è ricondotto a una delle molteplici forze “esterne” strutturalmente e stabilmente portatrici di rischi e minacce. Del resto, parlare con finta ingenuità di “crisi provocate dall’uomo” nasconde il vero protagonista di queste crisi: non l’essere umano genericamente inteso bensí il potere, un certo tipo di potere. Perché esseri umani sono tanto quelli che fondano la propria legittimazione sul potere del terrore quanto quelli che quel potere soffrono sulla propria pelle.
In questa Strategia dal linguaggio spaventoso, la prima vera minaccia sono le parole. Ma lo sa molto bene chi ha scritto il documento.
- I tipi di crisi a cui dovremmo prepararci
Le catastrofi naturali compaiono non a caso al primo posto: innegabili, spaventose da sempre, antiche quanto la storia dell’uomo. Inondazioni, incendi, terremoti ed eventi meteorologici estremi esacerbati dai cambiamenti climatici: alzi la mano chi non le teme. Sottile e insinuante il richiamo non detto alla comunità di destino che ci vede tutti legati dall’esposizione all’incerto del vivere. Peccato che non tutte quelle calamità siano realmente “colpa” della natura matrigna e che, anche quando naturali lo sono, le politiche umane ne hanno aggravato i danni in modo esponenziale: quante esondazioni sono causate da una cementificazione dei suoli e un indebolimento degli argini dei fiumi? Quante tragedie sono causate da politiche scellerate di governo del territorio? Quali fratture biografiche ha generato la politica di ricostruzione nel cratere aquilano? Si potrebbe continuare.
Le catastrofi provocate dall’uomo compaiono al secondo posto e si limitano a incidenti industriali, fallimenti tecnologici e pandemie. Innegabili anche queste, sebbene ognuna ne nasconda altre connesse e non dette. Quanti esseri umani sono stati vittime reali della pandemia e quanti dei vaccini? Ma dei secondi non si può dire: fanno parte dei tanti danni invisibili che chissà mai se si potranno provare e contare, e che la paura indotta dalla narrazione convenzionale ha confinato nell’ombra, insieme ai contratti miliardari coperti col segreto di Stato, dalla Ue e da alcuni Stati membri.
Dopo le catastrofi, dunque, le minacce e le crisi. Le catastrofi accadono e passano, pur lasciando la scia dei loro effetti nefasti; le minacce e le crisi disegnano sfondi incombenti duraturi.
Le minacce ibride sono «attacchi informatici, campagne di disinformazione e manipolazione delle informazioni e ingerenze straniere e sabotaggio delle infrastrutture critiche». Di là dall’incomprensibilità del termine “ibrido”, che sembra ingaggiato sol per rendere più inquietante la minaccia, basti una domanda per tutte: chi stabilisce cos’è informazione e cosa disinformazione? È informazione corretta la narrazione dominante? E dove comincia la manipolazione? Quando le voci dissonanti e le fonti di informazione alternativa cominciano a diffondersi, la narrazione dominante alza il tiro e grida al pericolo. È una storia già vista, purtroppo. E non è una bella storia. Tanto più perché aggravata ora dall’ipocrisia della difesa della democrazia.
Infine lo spettro più grande, la guerra. Anzi, con linguaggio apparentemente neutro e raffinato, le crisi geopolitiche, perché parlare di guerra suona a quanto pare da rozzi. «Conflitti armati, compresa la possibilità di aggressione armata contro gli Stati membri».
Qui, però, le ambiguità sfociano nella menzogna. Ma non è, la guerra (o conflitto armato, che dir si voglia), una catastrofe provocata dall’uomo? Non è la guerra sempre una scelta? Una scelta sempre folle che nulla ha a che vedere con la risoluzione di un conflitto bensí con una lotta di potere quale che ne sia il fattore scatenante (questioni economiche e finanziarie, controllo di risorse naturali, questioni religiose, territorio, ecc.). A quanto pare no, il conflitto armato che genera crisi è soltanto quello che i “buoni” subiscono da parte dei “cattivi”: ne è conferma la frase sibillina che allude alla possibilità di aggressione armata contro gli Stati membri dell’Ue. E le armi finanziate e inviate dagli Stati europei (Italia compresa) in Ucraina? E la partecipazione diretta o indiretta a tutte le guerre dell’ultimo venticinquennio dell’Occidente collettivo (a guida Usa), il cui elenco sarebbe lungo, che limitiamo qui all’Afghanistan, l’Iraq, il Kosovo, la Serbia, la Siria e la Libia?
Quanto grande può essere la politica fraudolenta della guerra di difesa? Quanto grande può essere la minaccia falsa di un’aggressione per una politica di riarmo europeo, tanto più se costruita col dissanguamento delle politiche sociali e pubbliche? La guerra è un pericolo in sé: ma parlando esplicitamente di “guerra illegale” a proposito della “aggressione della Russia contro l’Ucraina”, l’Ue implicitamente ammette l’idea di una guerra legale. La sua, evidentemente. Una guerra tanto legale che invita appunto i cittadini a “prepararsi” per affrontarla al meglio; kit di sopravvivenza compreso. Nel fare ciò, ovviamente, omette le cause risalenti negli anni della guerra in Ucraina tra Occidente e Russia.
È stupefacente constatare il triplo salto mortale compiuto dall’istituzione Ue, non dotata a oggi di una politica estera né di una politica fiscale comune, nel preparare una guerra nel continente europeo. Si tratta di una innovazione al di fuori di qualsiasi legittimità democratica, che non può non far pensare a una almeno parziale eterodirezione atlantica statunitense, nella sua componente oggi in contrasto con l’attuale inquilino della Casa Bianca: quella stessa componente, i neoconservatori, che ha in gran parte preparato e realizzato le guerre sopra citate.
- I settori chiave della strategia
Previsione e anticipazione. Se è innegabile l’opportunità di «rafforzare la capacità di individuare e analizzare i rischi e le minacce emergenti», di «migliorare il funzionamento dei sistemi di allarme rapido e la capacità di esaminare all’orizzonte i rischi», come si può ragionevolmente affermare che tali raffinate capacità possano gestirsi con le stesse strategie e gli stessi strumenti rispetto a vicende tanto diverse come calamità naturali e guerre? Come può non dirsi che “anticipare” il rischio di un conflitto armato deve servire soltanto per evitarlo, ricorrendo a strumenti diplomatici di risoluzione del conflitto anziché alla “cooperazione civile-militare”, cioè al coordinamento tra autorità civili e militari?
Cosa ha a che fare con la resilienza la garanzia delle funzioni vitali della società, ossia della continuità dei servizi e delle infrastrutture essenziali, tra cui l’assistenza sanitaria, i trasporti, l’acqua potabile, le telecomunicazioni, ecc.? Perché le politiche sociali e le garanzie dei diritti fondamentali si sono trasformate in politiche di emergenza, legate per di più a una lettura della resilienza in chiave di mera sopravvivenza?
E perché l’industria sembra invece uscire rinforzata dalle situazioni di crisi, tanto che una delle sette azioni strategiche consiste nel promuovere la collaborazione tra il governo e l’industria per migliorare la preparazione? E perché, allorché si parla della “collaborazione pubblico-privato”, quest’ultimo si intende riferito alla sola industria? Dov’è finito il profluvio di parole e di documenti dedicati dall’Ue alla collaborazione fra le istituzioni e i cittadini europei, e l’enorme patrimonio di innovazione indotto dalla cooperazione e dalla sussidiarietà orizzontale in vari paesi membri, fra cui l’Italia? Quali sono le industrie utili? Date le premesse, quelle produttrici di armi e di vaccini sono al primo posto (per i secondi lo si dice espressamente, per le prime prevale il pudore ma il riferimento continuo alla necessità di rafforzare la preparazione militare parla da solo).
Il fatto è che, ancora una volta, ma ora in termini assai più brutali, si conferma la regola dei poteri dominanti: nei momenti di crisi e di emergenza non c’è spazio per la società civile, per i saperi delle persone, per i modelli alternativi di governo dell’esistenza, per il dissenso, ma neppure per la “democrazia del suffragio”. E infatti la società compare nell’azione strategica legata alla nuova parola chiave: preparazione della popolazione e resilienza della società. I cittadini e le comunità devono essere “responsabilizzati” affinché si preparino e rispondano alle crisi. Cittadini responsabili e ubbidienti. Preparati per rispondere in modo consono. Ordinati e composti. La protesta è uno spreco di energie, che occorre impegnare invece nel comporre il proprio kit di sopravvivenza. Un kit fra l’altro uguale a quello di tutti gli altri, come l’allegato si premura di suggerire, indicandone i contenuti consigliati. Non sia mai che le invidie suscitate dai contenuti più attraenti del kit del vicino di casa scatenino altri conflitti. Del resto le guerre fra poveri son sempre esistite. Insomma, la propaganda più bieca e bellicista si tinge di grottesco.
E se la collaborazione della ben più utile industria non dovesse bastare, l’ultima strategia prevede la resilienza attraverso partenariati esterni strategici: la Nato.
Questo grande quanto orribile “ombrello” strategico non può che condurre all’ultima azione, che tutte le comprende e che tutte le giustifica: il coordinamento della risposta alle crisi e un processo decisionale efficace. Anche qui la stabilizzazione senza più veli di una tecnica di governo che, richiamando espressamente la «necessità di migliorare la capacità dell’Ue di gestire e rispondere alle emergenze», rivendica a sé una sovranità che non le appartiene e una legittimazione che tradisce tutte le conquiste del costituzionalismo del secondo dopoguerra. E cosí, tradendo il significato più autentico del termine emergenza (dal latino e-mergere, sbucare fuori all’improvviso), questa diviene situazione di normalità: condizione strutturale di sfondo che contorce e rinnega gli assi portanti del governo democratico, restituendo le istanze di emancipazione collettiva e di dignità dell’esistenza al tempo buio della sopravvivenza. I significati più autentici generativi del latino e-mergere e del greco krisis sono spenti e messi fuori.
Del resto, non si può negare che le catastrofi e le minacce rendano tutti uguali; sebbene si tratti di un’eguaglianza al ribasso. L’eguaglianza sostanziale, piedistallo delle istanze di giustizia sociale che le costituzioni del secondo dopoguerra avevano abbracciato con slancio e lungimiranza contro il lassez-faire del liberalismo ottocentesco, torna a ripiegarsi sulla più addomesticabile eguaglianza formale. Tutti devono essere uguali di fronte alle crisi: i già svantaggiati per condizioni economiche e sociali non devono subire più danni degli altri. Ma che bello, che grande consolazione; peccato che sia troppo amara da mandare giù. «La diseguaglianza è un fattore di rischio per la preparazione», e dunque per l’addomesticamento: perché «la preparazione è una responsabilità collettiva» e tutti devono avere un ruolo, «fin dalla più tenera età».
La lotta alla diseguaglianza viene finalizzata alla migliore riuscita della strategia della preparazione. «Le donne e i gruppi in situazione di vulnerabilità, come i bambini, gli anziani e le persone con disabilità, le persone che conoscono forme di discriminazione, povertà e/o esclusione sociale, subiscono in modo sproporzionato gli effetti delle crisi, i quali sono spesso aggravati da diseguaglianze e svantaggi precedenti». Cosí, i diritti sociali, già da tempo degradati al rango di meri bisogni, vengono ora svenduti come argomento di una propaganda di bassa lega che spaccia per community building (concetto assai serio e con ben altri obiettivi) un approccio assai più che paternalista. Nessuno deve restare indietro negli sforzi di preparazione: ma nella cultura della preparazione inclusiva, a essere realmente incluse sono soltanto le paure. La self-resilience e la psychological resilience sono destinate a lasciare le persone sole, ancora più sole e impaurite di fronte a un fosco orizzonte di minacce permanenti.
Non solo. L’ulteriore diseguaglianza generata dalla disinformazione e manipolazione delle informazioni (c.d. Fimi), viene affrontata con una nuova forma di informazione/istruzione organica sulla preparazione, con tanto di catalogo di metodi e di Linee-guida agli Stati membri per migliorare l’allenamento alla preparazione. Funzionale alla formazione di questa nuova “cultura” della preparazione non può non essere un sistema accessibile e inclusivo di comunicazione delle crisi, sia prima (risk communication) che durante (crisis communication); e per rendere diffusivo ed efficace questo sistema dovranno avere un ruolo fondamentale scuole, insegnanti, giovani lavoratori e formatori, i quali dovranno farsi promotori di letteratura sul tema delle crisi e del rischio, e di insegnamenti sulla cittadinanza democratica: «cominciare dalla prima infanzia a supportare l’acquisizione di nozioni di base sulla preparazione, come chiave per una cittadinanza attiva e informata. Gli insegnanti avranno accesso alle risorse e alle opportunità di sviluppo professionale della Piattaforma europea di Scuola ed educazione».
Ancora, si prevede la creazione di nuovi organismi non ben identificati (Eecc – Emergency Respone Coordination Centre; Eogs – Earth Observation Governmental Service), che inseguono l’accentramento di compiti di controllo più che di governo, di omologazione più che di dibattito democratico sulle condizioni di vita delle persone: un decisionismo tecno-finanziario ben poco incline alle dinamiche democratiche, e anzi perfettamente in linea con le traiettorie dell’autoritarismo liberale di cui è figlia questa Comunicazione Ue.
E infine il tema dei costi: «una preparazione robusta non può essere gratuita, ma implica dei costi». E da dove prendere le risorse? Solidarietà e sussidiarietà vengono menzionate a sproposito e in termini addirittura offensivi rispetto alla storia e al sangue versato di chi ha combattuto per ricostruire le società distrutte nel secondo dopoguerra sui pilastri di una democrazia sociale che guardava al socialismo. Il riferimento alla necessità di affiancare i corpi militari alle autorità civili va in senso diametralmente opposto ai percorsi di sussidiarietà orizzontale, solidarietà e partecipazione politica, economica sociale che si stanno affermando in modo diffuso nei territori e che dicono No alle politiche fondate su competizione e guerra proprie dell’autoritarismo liberale.
- No alla guerra e alla strategia della paura
Il Kit di sopravvivenza (alla guerra) rappresenta la coda simbolica e grottesca di un documento politico che rappresenta in realtà un approccio complessivo, una “filosofia” antidemocratica e autoritaria arrivata alla sua ultima stazione: la guerra.
Se mai vi fosse ancora il dubbio sulla natura antidemocratica e autoritaria della Ue, questo documento ne è la prova lampante. Dopo decenni di soffocamento delle politiche nazionali figlie del compromesso democratico sociale sorto sulle ceneri di quell’immane flagello che è stata la Seconda guerra mondiale, dopo decenni di lavoro ai fianchi degli Stati nazionali fino a far perdere loro le sembianze di Stato sociale di diritto e restituirli a un liberalismo ottocentesco in versione tecnocratica e autoritaria, questa Comunicazione della Ue si rivolge ora direttamente alla società europea, invitandola esplicitamente ad abbassare la testa e prepararsi alla guerra.
Il linguaggio usato può fare invidia alla migliore narrativa distopica di Orwell e Huxley.
Questo documento disvela una volta per tutte il vero significato attribuito alla resilienza: sopportare. Guerra compresa. È il più sbalorditivo salto quantico da parte di questa tecnostruttura che, dalla sua fondazione sino a oggi, non è stata in grado di costruire un ordinamento democratico e sociale neppure lontanamente comparabile con quelli nati dopo la Seconda guerra mondiale; anzi, ha progressivamente affossato questi ultimi.
Adesso, per un disperato tentativo di darsi una nuova legittimazione, i capi politici della Ue e degli Stati membri, sconfitti politicamente e sul campo di guerra ucraino, sembrano giocare il tutto per tutto fino a gettare l’umanità nel baratro di una guerra nucleare. Questa follia sta prendendo forma mentre gli Stati Uniti, con la discutibile quanto radicale azione del presidente Trump degli ultimi due mesi, rinforzata all’inizio di aprile con il Liberation day, stanno rivoluzionando gli equilibri politici ed economici mondiali; e in cui l’Europa, malamente rappresentata dall’Unione europea, viene messa fuori gioco dagli scenari mondiali dominati ancor più da Cina, Russia e Usa.
Gli Stati europei e la Ue, invece di ripensare anch’essi il loro ruolo e nuove politiche dopo decenni di azioni fallimentari, si rinchiudono ancora di più nel loro “piccolo mondo antico” ordoliberale, oramai superato dagli eventi mondiali. Accelerano, dentro e fuori ciascun paese, in direzione di una stretta autoritaria verso il dissenso e l’agibilità democratica: vedi il Decreto sicurezza del governo Meloni, approvato in questi giorni dal Parlamento italiano forzando oltre ogni decenza procedure e leggi, per prima la Costituzione. E accelerano verso il riarmo di ogni paese europeo: un riarmo che in realtà riguarderà essenzialmente la Germania, grazie all’enorme capacità fiscale, acquisita da questo paese negli ultimi vent’anni di surplus commerciale vero l’estero, accumulato grazie all’euro e sulle spalle degli altri paesi europei, tra cui l’Italia. Questa nuova e ancor più cieca subalternità dei paesi europei si fonda essenzialmente sul riarmo tedesco. Riarmo, il cui sforzo andrà a sommarsi all’accresciuto costo dell’energia e alla già alta spesa in armamenti, senza che si riesca a cogliere neppure l’unica cosa buona che il nuovo inquilino della Casa Bianca sta cercando di realizzare, ossia la fine della guerra in Ucraina. Più realisti del re questi riarmisti, e allo stesso tempo legati ottusamente, a filo doppio, a un mondo che non esiste più perché frantumato dagli Usa: come i giapponesi nelle isole del Pacifico che vent’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale credevano di continuare la guerra.
Non basterà lo “zainetto della resilienza” a salvarci da tutto questo. E di certo non sarà in grado di salvare nessuno: né chi le guerre non le vuole, né chi le guerre le avrà volute.
Su una cosa però, bisogna dare ragione al documento dell’Ue sulla “preparazione” alle minacce: l’orizzonte che abbiamo di fronte è davvero intriso di minacce e fa paura. Tutto sta nel capire chi è il disegnatore di quell’orizzonte, chi è l’autore delle menzogne su cui si fonda, di chi sono le responsabilità delle minacce e del modo di maneggiarle.
La vera strategia, l’unica possibile, è quella che le persone, una per una e tutte insieme, di là dalle divisioni che fanno comodo al nuovo autoritarismo liberale, dovranno mettere in campo collettivamente per opporsi.
Ma per fortuna il senno popolare è tutt’altro che perso. Le migliaia di persone che ogni giorno si impegnano nella costruzione di forme alternative di governo del paese, fondate sui valori democratici di solidarietà e giustizia sociale, e le altrettante migliaia che stanno scendendo in piazza in questi giorni in tutta Italia, a spese proprie e di ogni età, lo dimostrano.
Mentre diminuisce l’affluenza alle urne, a causa di un sistema elettorale che ha progressivamente drogato il sistema della rappresentanza e della sfiducia crescente nella qualità della politica, cresce il numero di persone che decidono di percorrere diversamente i sentieri della sovranità popolare: una rete fittissima di nuove forme di partecipazione, che, mentre dicono No alle politiche dominanti della competizione e della guerra, concretamente mettono in atto i valori che rivendicano. Perché dire No a qualcosa è sempre, contemporaneamente, dire un Sí a qualcos’altro, come diceva Albert Camus ne L’uomo in rivolta.
I pezzi di comunità territoriali che vanno ricostruendosi imbracciando i valori democratici della Carta del ’48 non sono più isole sparse di resistenza ma stanno divenendo il tessuto di una trama di rilievo nazionale, omogenea e convergente nel messaggio che manda. Movimenti territoriali, patti di collaborazione, comunità educanti, cura condivisa dei beni comuni, imprese di comunità, e tanto altro ancora, sono oggi gli strumenti di un modo diverso di fare politica, e di costruire politiche ragionevoli, solidaristiche, vicine ai bisogni reali.
Le migliaia di persone che stanno tornando a popolare le piazze colorandole di bandiere, di striscioni, di cori, di bambini sulle spalle, di vecchi e di giovani, restituiscono vitalità ai principi stanchi della partecipazione e della solidarietà, e soprattutto a quella dimensione collettiva che è da sempre sgradita ai poteri dominanti.
A quanto pare, la strategia della paura non funziona. O non più.
Le persone ci sono, stanche, ma ci sono. Dalle piazze ai quartieri, dal Nord al Sud. E sono pronte a riesumare il calore e l’entusiasmo dei momenti di lotta.
È tempo che siano altri a cominciare ad aver paura.
Immagine: da Metropolis, regia di Fritz Lang, 1927