Dagli schemi precisi di cicli storici, di corsi e ricorsi con meccanica rigidezza a forme piú larghe e libere di accostamenti di epoche e di situazioni storiche, anche noi moderni non siamo immuni da questo voler illuminare il presente e persino il futuro con il ricordo del passato, e trasformiamo, piú o meno di passaggio, l’antico profetare in «filosofia della storia» (per improprio che sia il suo termine). Riferirò qui brevemente, come esempio, un gruppo di considerazioni su eventi attuali.

Noi possiamo applicare alla situazione presente del mondo e alla lotta internazionale politico-sociale tre paragoni storici.

1. L’Europa sta tra l’America e la Russia come la Grecia stette tra Roma e la Macedonia. Anche l’Europa, come l’antica Grecia, non ha avuto un’unità politica costante, ma solo federazioni e blocchi di tutti i popoli o di gruppi di popoli contro altri per motivi momentanei, tornando poi ciascuno al suo particolarismo. Anche la geografia dell’Europa è frastagliata e a penisole. Anche l’Europa ha avuto un medioevo e uno sviluppo dalla religione e poesia alla filosofia, e il suo momento dionisiaco contro l’apollineo-cattolico, e il suo romanticismo-idealismo e il suo Aristotele nello Hegel. Cosí il suo passaggio alla democrazia, ma anche la sua preferenza, in questa Sparta moderna che è la Germania, per lo statalismo, per la disciplina e solidarietà militaresca, per l’oppressione di razza. Al punto attuale la Macedonia sarebbe la Russia. Come la Grecia al momento dell’ellenismo, l’Europa è indebolita politicamente ed economicamente, ma forte come cultura. Le nazioni cercano piú intensamente di prima di federarsi, per sostenere la pressione dell’America e della Russia. Queste, entrambe, tendono all’influenza sulle nazioni, hanno ciascuna un partito a loro favorevole.

Racconta il Fustel de Coulanges nel suo Polibio (tradotto di recente per Laterza) che ogni città greca era divisa in due partiti a base economica, quello dell’aristocrazia e quello popolare, il primo (p. 132) disposto per i Romani, il secondo per la Macedonia, e dove questa poteva influire prevaleva un governo popolare. C’era anche un terzo partito, al centro fra i due estremi, di persone moderate e intellettuali, che teneva di piú all’indipendenza della Grecia, che odiava lo straniero, ma che non avrebbe permesso il prevalere del partito popolare, e che anzi, a questo, finí col preferire l’influenza romana, illudendosi che si possa «essere potenti senza essere ambiziosi», e che quello fosse un semplice protettorato, benefico per la pace e il benessere, da parte di un popolo che aveva per sé la ricchezza e il dominio del mare. E inizialmente i romani si accontentarono di essere a capo di una federazione, per trasformare poi la loro egemonia in impero. Il partito popolare, che rappresentava il sommovimento della stabilità economica e politica, fece di tutto per sbarrare il passo all’avanzata romana, fino alla guerra piú strenua e piú «partigiana», diremmo oggi. Roma diventò sempre piú imperialistica, sempre piú sprezzante nelle parole, sempre piú dura nei modi, fino alla distruzione di città, alla strage di popolazioni, all’asportazione delle opere d’arte. E quel terzo partito fu, dice il Fustel de Coulanges, il piú sprezzato e maltrattato. Vi furono di quelli, e Polibio tra questi, che dopo essere stati del terzo partito, passarono ai Romani ammirandone la costituzione politica.

Se la Russia è la Macedonia e l’Europa la Grecia, l’unità politica del mondo è da Occidente e non da Oriente, e in forma inizialmente federativa, poi sempre piú imperiale. L’ordine sociale non viene sommosso, anzi si ha un rafforzamento dei ceti privilegiati. L’Europa è spogliata e soccorsa. Essa, capta, comunica i suoi modi e la sua cultura, rimane anzi una sede di cultura sia per il continuarsi della tradizione, sia per nuove affermazioni. Ma la diffusione della cultura nel mondo, in tutte le pieghe della terra, spetta prima ai «Macedoni» (per l’Oriente), poi ai «Romani»: il carattere della civiltà si fa cosmopolitico, nei segni dell’architettura, delle macchine, dei costumi, nell’intenso scambio di culture, nella mescolanza dei popoli, nell’incontro di religioni; e nella formazione di un mercato unico mondiale.

Secondo questo racconto il sistema americano e il sistema russo dovrebbero compenetrarsi; se il secondo tentasse la guerra la perderebbe, e l’unità del mondo avrebbe il suo centro in Occidente (salvo a risorgere piú tardi un grande sistema politico nell’Oriente europeo o giú di lí). Ma l’unità mondiale stabilita dall’America sarebbe giuridica, amministrativa, non profonda; sarebbe un codice di convivenza internazionale, e fermerebbe l’uomo in quello che è, non lo rinnoverebbe; spianerebbe le differenze etniche, ma conserverebbe i privilegi dall’alto: in ultima analisi rivelerebbe una finalità edonistica, di «tirare a campare», di antifanatismo ma di perdita di fede (p. 133); da cui i soliti fenomeni di stoicismo, epicureismo, scetticismo; l’individuo che si ritira in sé stesso, o al riparo di un gruppo di stanchi amici. La sollecitazione popolare (malamente unita a un motivo dittatoriale) continuerebbe nei piú tenaci, ma trasformandosi attraverso Cristo: non Filippo di Macedonia, ma Paolo di Tarso vinse Roma. La vera unità mondiale, dunque, non quella costruita dal Senato di Roma e narrata da  Polibio (uomo della cultura occidentale), ma quella instaurata dall’intimo e dal basso, secondo un motivo sociale arricchitosi e approfondito religiosamente. E perciò insufficienza della Russia, antitesi all’America: la via è dopo le due nel rifare, scadute le vecchie religioni e le vecchie politiche, l’uomo, la società, l’universo.

2. La Russia attuale è la Francia napoleonica. C’è dietro una grande rivoluzione, con dei risultati consolidati, con degli stimoli spenti. La struttura politico-burocratica-militare si è sovrapposta all’impeto e all’apertura rivoluzionaria, ma ha anche salvato qualche cosa da un immenso rischio. La guerra vittoriosa ha stimolato la fiducia militare, il sentimento patriottico e perfino tradizionale. Una scossa politico-sociale è stata data ai paesi circostanti (di Europa e di Asia), ma i «puri» sentono che la rivoluzione si è chiusa nello statalismo, dove soffrono, insieme, socialismo e libertà. Il resto d’Europa e del mondo da decenni osserva la rivoluzione e i suoi sviluppi; e si travaglia, come accade sempre, nel problema di averne il bene senza gli svantaggi, o di fare una rivoluzione secondo la propria situazione e storia.

Pensiamo all’Italia dei primi decenni del secolo diciannovesimo dinanzi alla Francia, alla rivoluzione, a Napoleone: a parte dai giacobini assoluti, c’erano coloro che volevano una rivoluzione secondo premesse e attuazioni diverse, da una mentalità non illuministica e scientifica, ma romantica ed etico-religiosa. Il Mazzini rappresenta questa antitesi e questo accoglimento del punto rivoluzionario.

Secondo questo racconto, il problema di oggi davanti alla Russia staliniana è di preparare una forza etico-sociale che sia sulla direzione di una trasformazione della società, ma con premesse e attuazioni diverse. Anche qui, come nel primo racconto o mito storico, ci troviamo dinanzi a un «parto» religioso, con un impegno postcomunistico, che non ha a che far nulla con l’antico regime, con i moderati, con le chiese tradizionali.

3. La civiltà russa sovietica ha alla sua origine un impulso escatologico-apocalittico, che dichiara la fine della vecchia società e instaura il «regno di Dio» (cioè della Libertà) in terra. Protagonista di questa trasformazione è il proletariato, specie di popolo eletto il cui profeta Isaia è Carlo Marx. Si tratta di instaurare «il paradiso in terra» (p. I34), un paradiso conforme a una civiltà produttivistica, di grande industria, di cultura laica e scientifica. Alla Roma del tempo d’oggi l’Israele, che ha i suoi profeti, i suoi martiri, i suoi testi e la sua diaspora, si oppone con fiero antagonismo, cospirante e ribelle, scisso e insinuantesi. Rivolte imperterrite, armate e «partigianesche», azione di gruppi, tutto tenta Israele contro la potenza di colei che siede sulle acque.

Secondo questo racconto, la via d’uscita è nella trasformazione d’Israele, nella prospettiva introdotta nel «regno». Si ha un’apertura, che presenta principalmente questi due aspetti: la necessità di accompagnare il rivolgimento esterno e l’avvento di una nuova realtà e società, con una tramutazione interiore; l’estensione della liberazione a tutti, fuori di una chiusura di popolo (pur con missione universale). Fu un travaglio di decenni, ma segnò il superamento dell’escatologia ebraica. Ci si avviò al «regno» per altra via che non quella della rivolta armata. Mutò il metodo e mutò l’animo. Non si cercò per via diritta il potere, ma l’influenza sugli animi si diffuse, fu una forza, e perciò «potere».

I tre miti storici girano tutti e tre intorno a un punto che è quello etico-religioso (e tutti e tre in senso nuovo, non tradizionale). Se oggi siamo nel momento in cui si tende all’unità mondiale, se questo dopoguerra non è, come l’altro, il dopoguerra delle nazionalità, ma il dopoguerra dell’antitesi nel mondo, che è già, in certo senso, un’unità, portiamoci a questa unità, e vediamo da lí quanto essa debba essere profonda, complessa, aperta a un giorno mai stato nel mondo. Ogni lavoro fatto in questo senso se sembra inutile ai «realisti» angusti, è prezioso, perché mira ad arricchire e articolare l’universalismo, a farlo tale che sia di forza e di creatività per tutti. La purificazione dalle somiglianze storiche, da quello che di meccanico e come deterministico potrebbe mostrarsi in esse, si ha in questo collocarsi, oltre che al centro della coscienza morale che è sempre in un’unità, piú che mondiale, nel punto universalistico di un’unità mondiale, che conclude e supera tutte le somiglianze storiche perché mai vi fu unità mondiale; e nel portare a quest’altezza la socialità, la cultura, l’economia, con un’ispirazione che (anche se sarebbe stolto pensare alla duplicazione di persone e di istituti come furono nel passato) possiamo ben chiamare «religiosa».

 

 

da «Il Ponte», a. V, 1949, n. 2, pp. 131-134.