di Silvia Calamandrei

Una corsa contro il tempo e sfasata di un mese quella compiuta dal traduttore americano a Los Angeles per renderci disponibile il diario di Fang Fang (Fang Fang, Wuhan Diary, New York, Harper Collins, 2020, edizione inglese); tra poco ci sarà anche la traduzione italiana di questa memoria-testimonianza del Coronavirus nel suo luogo d’origine (?), o per meglio dire nella metropoli cinese che per prima è andata in lockdown, vivendo l’esperienza che sarebbe toccata ad altri milioni di reclusi nell’intero globo terrestre. Anche altri hanno scritto diari del lockdown di Wuhan, come l’attivista femminista Guo Jing, e in tutti il tema centrale è la rivendicazione che le autorità rispondano delle loro responsabilità: una richiesta di accountability (wenzexing), oltre che di trasparenza e accesso all’informazione. Ma Fang Fang è probabilmente il personaggio più noto, e su di lei si sono concentrate critiche e censure.

Michael Berry, che era a gennaio impegnato a tradurre il romanzo della scrittrice Funerali soffici, quello che era stato motivo di attacchi dell’ultrasinistra cinese e oggetto di censura (per la visione critica dell’epoca della riforma agraria), appena avuto sentore del diario si è messo in contatto con Fang Fang per chiederle di tradurlo.

I dispacci dalla quarantena di Wuhan cominciano il 25 gennaio e terminano l’8 aprile, e sono sessanta quotidiane annotazioni di gesti, pensieri, atti e contatti che hanno consentito la sopravvivenza nella reclusione, dopo l’annuncio del 20 gennaio del dottor Zhong Nanshan (il grande specialista della Sars) che la nuova malattia era trasmissibile tra umani (negato fino ad allora dai responsabili governativi e sanitari locali presi da scadenze politiche e cerimoniali che non ammettevano interferenze).

È bene leggere la postfazione del traduttore perché ci spiega come quello di Fang Fang non sia un diario nel senso tradizionale: si tratta di annotazioni trasmesse quotidianamente su Weibo e su Wechat, le piattaforme social cinesi, e riprese, commentate e ripercosse nella rete di comunicazioni tra migliaia di utilizzatori. Talvolta il messaggio trasmesso da Fang Fang sparisce, cancellato dai censori, ma c’è chi l’ha copiato e lo diffonde di nuovo, oppure è stato ripreso e commentato da qualcun altro. Insomma è una conversazione in rete con migliaia di interlocutori, non solo amici, ma anche sconosciuti, una sorta di alveare ronzante in cui circolano le notizie, vere o false che siano, e si cerca di informarsi il più accuratamente possibile bocca a bocca non fidandosi delle fonti ufficiali. Questo telefono senza fili è seguito anche all’estero, nelle comunità cinesi sparse per il mondo e da tutti coloro che si appassionano alla Cina. Al 10 aprile il diario aveva avuto 380 milioni di visualizzazioni e 94.000 commenti (fonte «Guardian»). A partire da un certo momento il diario diventa oggetto di attacco, non solo dei censori, ma di faziosi nazionalisti che accusano la scrittrice di fare il gioco degli americani e di coloro che denigrano la Cina, esponendone gli aspetti negativi: “i panni sporchi vanno lavati in casa”, insomma.

L’interesse globale per le annotazioni della scrittrice cresce anche perché le sue descrizioni preannunciano la situazione in cui vengono a trovarsi tanti altri esseri umani confinati in altri paesi, via via che l’epidemia li raggiunge. Insomma De te fabula narratur, e quelle parole semplici e quotidiane, senza retorica e ricche di pietas svolgono una sorta di funzione consolatoria.

Michael Berry racconta di come si sia trovato in una “duplice” dimensione temporale, traducendo (spesso più di 5.000 caratteri al giorno): da una parte, per l’immedesimazione del traduttore nelle parole dell’autore, vive in sincronia con Fang Fang; in secondo luogo, avendo cominciato a tradurre un mese dopo, quando a Los Angeles si comincia a vivere l’inizio del contagio, è come se Fang Fang predicesse quanto sta per accadere negli Stati Uniti e altrove. Berry si ritrova confinato anche lui e si indigna dei raduni che Trump non vuole cancellare, proprio come a Wuhan non avevano cancellato i cerimoniali politici. E si rende conto che anche in Occidente c’è un problema di responsabilità dei politici di cui chiedere conto. Anche le mascherine prima si dice che non servono, poi non si trovano… Lui stesso si ritrova oggetto di attacchi di haters sulla piattaforma Weibo.

Se pensiamo che in Italia non abbiamo neanche un termine per accountability, mentre il cinese ce l’ha, non possiamo fare troppo i superiori, immaginando che i cinesi siano tutti robotizzati da un sistema di sorveglianza che li spinge ad accettare la censura e la tracciabilità a causa della loro millenaria cultura confuciana.

Gli strumenti di comunicazione a disposizione in rete possono essere usati anche per promuovere una cittadinanza consapevole. In Red Mirror Simone Pieranni ci ha messo in guardia dal nuovo tipo di cittadinanza che potrebbe diffondersi a causa della tracciabilità e della sorveglianza, ma nel racconto di Fang Fang troviamo valorizzati i whistleblowers che hanno consentito di spezzare censura e omertà, a rischio della propria vita, come l’oculista di Wuhan, sulla cui pagina web si è costruita una sorta di muro virtuale del pianto e del lutto.

Ma da dove Fang Fang ha trovato le energie positive per cantare fuori del coro? Lo spiega bene in una lettera aperta a uno dei tanti troll: uno studente sedicenne che non si sa se esista davvero (più probabilmente qualcuno che ha superato i cinquanta ed è un nostalgico del passato). Ricorda quando aveva lei sedici anni, nel 1971, ed era una Guardia Rossa infervorata, e sa che nessuno sarebbe riuscito a convincerla che le sue idee erano sbagliate, perché erano il frutto di un’intensa educazione ideologica di cui avrebbe fatto fatica a liberarsi. Cita una poesia di Bai Hua intitolata Anch’io sono stato giovane come te, ed i versi «Anch’io sono stato giovane come te, e allora eravamo proprio come sei tu oggi». E aggiunge: «ragazzo mio, voglio anche dirti che quando avevo sedici anni stavo molto peggio di te. All’epoca, non avevo mai sentito espressioni come “pensiero indipendente” e non sapevo che le persone dovevano imparare a pensare con la propria testa; facevamo quello che ci dicevano i nostri insegnanti, quello che ci dicevano le scuole, quello che ci dicevano i giornali, e quello che le trasmissioni radio ci istruivano di fare. La Rivoluzione culturale cominciò quando avevo 11 anni ed è terminata quando ne avevo 21: quello è il mondo in cui sono cresciuta in quegli anni. Non ho mai pensato a me stessa, perché non mi sono mai considerata un individuo, ma solo una vite in una macchina più grande. Funzionavo in sincronia con quella macchina, e mi fermavo quando si fermava».

Si considera fortunata perché si è emancipata grazie alla cultura e agli studi e c’è voluto l’intero decennio dell’epoca delle riforme per liberarsi dei veleni del passato, lottando contro se stessa. Non immaginava che anche alle nuove generazioni sarebbe toccato qualcosa di simile, ma reputa che grazie alle riforme ora lei ha il diritto di scrivere e pubblicare in rete e il giovane ha il diritto di attaccarla.

Ancora una volta Fang Fang si batte contro l’amnesia rispetto al passato, come ha fatto con i suoi romanzi.

Ma stavolta il messaggio ha un’eco globale, testimonianza di un flagello che l’umanità intera sta condividendo e dal quale si può sviluppare un sentimento di interdipendenza e di solidarietà. L’autrice sa che le sue parole possono anche essere usate nella competizione per l’egemonia tra Stati Uniti e Cina, ma constata anche quanta volontà di scambio e collaborazione esista tra gli scienziati, i medici e gli infermieri in prima linea ad affrontare il Corona virus e si augura che questa volontà di cooperazione prevalga.