di Silvia Calamandrei

Simone Pieranni aveva il libro Red Mirror già quasi pronto (Roma-Bari, Laterza, 2020), perché quando abbiamo discusso della Cina d’oggi il 14 febbraio alla Fondazione Basso, assieme a Marina Miranda e Romeo Orlandi, ci ha raccontato molte delle cose scritte in Red Mirror, che aveva anticipato su paginoni di «il manifesto» e che ha moltiplicato con lo scatenarsi della pandemia, oltre che sul suo giornale in tante interviste radiofoniche, televisive e sui vari siti.

Entusiasta com’è della fantascienza cinese, Pieranni è anche un entusiasta del posizionamento della Cina all’avanguardia delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’intelligenza artificiale, e ne segue da tempo gli sviluppi in un misto di ammirazione e crescente inquietudine. Ma quello che non poteva immaginare, così come tutti noi, era che la pandemia avrebbe moltiplicato le opportunità di sperimentazione e sviluppo di queste nuove tecnologie e accelerato il loro diffondersi.

Quando se ne discuteva a metà febbraio a tutti sembrava che la faccenda riguardasse la Cina, e che il fatto che l’epidemia scoppiata a Wuhan consentisse un’ulteriore accumulazione di dati tramite cellulari e app, nonché tracciamenti della popolazione senza problemi di privacy (alla quale gli asiatici terrebbero meno che noi, si dice), ci appariva come un vantaggio che la Cina avrebbe potuto sfruttare nella competizione globale, affinando il suo strumentario.

Non ci aspettavamo che nel giro di un paio di settimane l’Europa intera, con l’Italia in prima linea, sarebbe stata investita massicciamente dall’epidemia, affrontando le medesime problematiche senza WeChat, la app multifunzionale, l’applicazione delle applicazioni che Zuckerberg amerebbe emulare. Quel WeChat che dal 2011in Cina non ti fa solo comunicare via telefono e via mail ma sostituisce il portafoglio e ora consente di tracciare i tuoi contatti e i tuoi comportamenti.

Di qui il felice titolo del saggio, citando in contrappunto una fortunata serie tv che ha molto a che fare con I.A., realtà virtuale e telecomunicazioni: insomma la Cina, di nuovo al centro, paese di mezzo (Zhongguo), può anticipare sviluppi destinati a contaminarci, e senza bisogno di una nuova via della Seta materiale: con la pandemia la spinta al virtuale, al digitale, alla smaterializzazione, alla sostituzione del lavoro con lo smart working, alla robotizzazione, si è accelerata a livello globale.

E dunque la Cina rispecchia il nostro futuro prossimo? È di nuovo vicina come si diceva negli anni settanta?

Indubbiamente la Cina si è trovata meglio preparata ad affrontare l’emergenza, utilizzando strumenti già sperimentati, che «i cinesi sono abituati a usare o a “subire” ogni giorno: basti pensare – scrive Pieranni – alle conferenze virtuali e all’e-learning, su cui la Cina aveva investito da tempo, mettendo a punto software che consentono di collegare contemporaneamente più alunni fornendo all’insegnante tutti i dati necessari, compresi quelli registrati dalle telecamere sull’attenzione dimostrata dall’alunno durante la lezione».

In Italia, al di là di alcune oasi felici, si è dovuto far fronte alla chiusura delle scuole improvvisando strumenti di comunicazione a distanza ai quali gli insegnanti erano scarsamente preparati; per non parlare delle dotazioni di smartphone e computer soprattutto al Sud, che hanno accentuato il digital divide, nonché la scarsa copertura di rete in tante aree: virale il video del ragazzino che deve andare a studiare in mezzo a un campo per collegarsi con la teleconferenza dell’insegnante.

Ma su altri fronti, come quello della sorveglianza e della salvaguardia della privacy, non è detto che il modello cinese attiri e se ne sia invidiosi: e lo dimostra il dibattito sulla app per tracciare i contagi, ancora non messa a punto in Italia per la preoccupazione su dove stoccare i dati, chi li controlla, ecc.

Pieranni, a proposito della scelta polarizzata che si prospetta per l’Europa, con l’alternativa di affidare i propri Big Data al sistema americano o a quello cinese, cioè a una gestione da parte di compagnie private o da parte dello Stato, intravvede per fortuna anche una terza via: «Per l’Europa, poi, il destino potrebbe apparire inesorabilmente legato alla seguente domanda: preferiremo che i nostri dati siano in mano cinese o in mano americana? Questa prospettiva dovrebbe portarci a ragionare sul peso dei dati e sulla loro “lavorazione”, attraverso la quale passerà il nostro mondo del futuro: elaborare una strategia complessiva e considerare i dati un bene comune potrebbe consentire all’Europa, a esempio, di non essere solo periferia del mondo o terreno di conquista di Cina e Stati Uniti, ma luogo in grado di prospettare un nuovo modello di trasparenza e di utilizzo pubblico dei dati».

Riuscirà l’Europa a percorrere una propria strada su questo terreno, dopo la pressione che la crisi epidemica ha esercitato sull’elaborazione dei dati, in nome della salute da difendere? È un interrogativo urgente cui rispondere se non si vuole essere colonizzati.

Su altri terreni il modello cinese della sorveglianza dei comportamenti con schemi premiali o punitivi oppure la creazione di Smart cities riservate ai privilegiati sembra ancor meno appetibile, e la nuova cittadinanza che Pieranni descrive, basata su un sistema di crediti sociali, suscita non poca diffidenza.

La partita del 5G è ancora tutta da giocare, ma forse le probabilità della Cina di vincere la scommessa si sono ridotte nella contesa propagandistica sopra origini e gestione del corona virus.

Il libro di Pieranni ci racconta come la Cina si è trovata attrezzata di fronte all’emergenza, avendo investito enormi risorse in ricerca e sviluppo, ma non scioglie l’interrogativo sulla capacità egemonica cinese in termini di soft power. Sulla Cina viene proiettata in questo momento dalla propaganda avversa un’immagine che oscilla tra i dubbi sulla barbarie e l’arretratezza del consumo di animali selvatici che si intreccia agli altissimi livelli tecnologici e la diffidenza verso la perfidia della manipolazione di geni e virus nei laboratori ipersofisticati.

Inoltre, se è vero che i sistemi di comunicazione ed elaborazione dei dati sono avanzatissimi, la mancanza di trasparenza e il sistema gerarchico e autoritario di governance hanno gravemente inquinato la capacità di reagire con tempestività al diffondersi del virus. La censura delle prime denunce e l’allerta tardiva sono colpe che gli stessi cittadini cinesi hanno stigmatizzato nei pochi spazi liberi che riescono a ritagliarsi in rete: il medico di Wuhan è divenuto un eroe dopo essere stato perseguitato, e l’operazione di recupero del governo centrale ha momentaneamente funzionato, anche capitalizzando sull’orgoglio nazionale.

Tuttavia cittadinanza vuol dire diritti e partecipazione, e nelle democrazie i governanti hanno dovuto e dovranno rispondere della loro gestione in nome della salute pubblica; le multe comminate per violazione dei regolamenti stabiliti per decreto sono soggette a verifica e contenzioso, ben diversamente dal sistema dei crediti sociali che lo Stato cinese calcola in positivo e negativo.

Pieranni ricostruisce le radici storiche millenarie del sistema di controllo capillare che lo Stato cinese riesce a imporre, e l’acquiescenza che ottiene in nome della stabilità e dell’armonia. Ma in questi mesi anche voci fuori del coro si sono fatte sentire, e non bisogna baloccarsi troppo con la propensione asiatica ai sistemi autoritari.

Ricco di informazioni attinte alle fonti, il saggio di Pieranni ci descrive anche le trasformazioni del lavoro avvenute in quella che era la “fabbrica del mondo”, dove le multinazionali hanno trovato la manodopera a basso costo per le produzioni delocalizzate. Puntando all’innovazione tecnologica, si sono moltiplicati in Cina gli alimentatori e marcatori di dati, una spremitura del general intellect destinata anch’essa allo spillover globale: mentre i minggong immigrati nelle metropoli stanno forse imboccando la strada di ritorno verso le campagne nella crisi indotta dalla pandemia, i lavoratori intellettuali a basso prezzo sono destinati a moltiplicarsi con il crescere dei settori dell’informatica, dei media e delle comunicazioni. Un fenomeno contagioso?

La pandemia apre nuovi scenari, cui il saggio di Pieranni offre utili chiavi di lettura.