di Nicolò Bellanca
L’Italia è, secondo Luca Ricolfi, un paese prospero e stagnante i cui abitanti in maggioranza non lavoranoi. Viviamo in una società nella quale è diffuso l’accesso a consumi opulenti, l’economia è entrata in un regime di stagnazione o di decrescita e il numero di cittadini inoccupati ha superato il numero di quelli occupati. Questa «società signorile di massa» poggia sulla ricchezza reale e finanziaria che è stata accumulata dalle due generazioni precedenti (il patrimonio degli italiani, arrivato intorno ai 10.000 miliardi di euro, supera di quasi 9 volte il reddito disponibile) e su circa tre milioni di persone (straniere) che svolgono, in condizioni paraschiavistiche, le mansioni che noi evitiamo di svolgere (lavori stagionali, assistenza domiciliare, prostituzione, colf, dipendenti in nero, facchini della logistica, gig economy, muratori)ii.
In senso tecnico e senza alcun giudizio morale, per Ricolfi la maggioranza degli italiani (più esattamente, il 52,2% dei residenti con età superiore a 14 anni) è composta di “parassiti”: persone che consumano un reddito senza lavorare, e quindi senza contribuire alla sua formazione. Questo esercito di parassiti anima una società nella quale è diffusa la fruizione di beni voluttuari e di lusso (il 65% degli italiani fa vacanze lunghe e il 50% possiede una seconda abitazione al mare o in montagna) e si adagia in un’economia che, unica in Europa, esprime un tasso di crescita di medio periodo inferiore all’1% annuo.
La società che Ricolfi descrive si basa sul fragile equilibrio per il quale una ricchezza che proviene dal passato sorregge dei consumi che superano la produzioneiii. Ma, egli aggiunge, l’immobilità ventennale della produttività del lavoroiv provoca la perdita di posizioni competitive da parte del nostro paese e l’appesantimento del debito pubblico. Ne segue un progressivo ridursi degli stock di ricchezza e dei consumi opulenti, che condurrà la società signorile di massa a collassare.
Ricolfi propone uno schema interpretativo provocatorio e parzialev, e alcune sue elaborazioni statistiche sono opinabilivi. Non pretende di raccontare ogni sfaccettatura della nostra economia e della nostra società, bensì desidera mettere a fuoco una contraddizione peculiare, forse addirittura unica, che attraversa l’Italia: la maggioranza dei cittadini sceglie di vivere al di sopra dei propri mezzivii, godendo a scapito di altri (altre generazioni e lavoratori stranieri) di un elevato benessere consumistico privo di futuro.
Il modello interpretativo di Ricolfi non delucida l’origine della condizione italiana, se non rimandando a vaghe determinanti culturali e di mentalità collettiva (per cui, fin dai tempi del miracolo economico, gli italiani iniziano a riposare sull’accresciuta ricchezza, preferendo consumare anziché produrre)viii. Per tentare un approfondimento, un potente framework teorico è, a mio avviso, quello di Mancur Olson, che riassumo e adatto liberamenteix. Esso poggia su due pilastri concettuali. Il primo riguarda la superiorità organizzativa dei piccoli gruppi o élites: all’aumentare della dimensione di un gruppo umano, cresce più che proporzionalmente il numero delle connessioni tra i suoi membri; ciò rende oneroso il coordinamento, allenta i controlli reciproci e favorisce i comportamenti opportunistici. Ne segue che i piccoli gruppi hanno, rispetto alla massa indifferenziata delle persone, una maggiore capacità di azione collettiva.
L’altro pilastro individua piuttosto una circostanza specifica, che nelle vicende storiche non sempre compare: quando i benefici sono molto concentrati e i costi sono molto diffusi, ossia quando i guadagni si privatizzano e le perdite si socializzano, siamo davanti a un “boccone ghiotto”, a una occasione che è più redditizia di quelle derivanti dalle normali attività politiche o economiche. In quella circostanza, le élites (non soltanto economiche, ma pure politiche) si mobilitano per arraffare i “bocconi ghiotti”, mentre le tante singole persone, che subiscono un basso costo pro capite e incontrano difficoltà a cooperare tra loro, rimangono abuliche.
Se una élite ottiene qualche “boccone ghiotto”, trae da esso notevoli risorse per rafforzare la propria azione collettiva e diventare più influente. Tuttavia, quante più élites competono per i “bocconi”, tanto più ognuna riduce la sua probabilità di vittoria e tanto più deve spendere per provare ad avere successo. Non basta: ogni élite, per ambire a battere le altre, deve anche allearsi con alcuni gruppi ampi, meno organizzati e meno provvisti di risorse, offrendo loro qualche fetta di “boccone ghiotto”. Si formano così tanti reticoli sociali che, intrecciando gli interessi delle élites a quelli di varie parti della cittadinanza, estendono il comportamento predatorio.
Olson analizza dunque una dinamica lungo la quale le élites puntano ad accaparrarsi porzioni delle risorse (economiche e politiche) esistenti, invece d’impegnarsi a produrre nuove risorse, e la concorrenza tra le élites coinvolge strati ulteriori della popolazione, fino a generare una maggioranza predatoria. È una traiettoria che, pur riguardando all’inizio piccoli gruppi, può diventare egemonica e permeare gran parte di una collettività: sempre più persone trascurano i comportamenti lavorativi e innovativi, a favore di quelli redistributivi, litigando per spartire poste sempre più esigue.
Che ci si riferisca alla schematizzazione di Ricolfi, o che si delinei un approfondimento teorico alla Olson, un’implicazione riguarda la strategia delle forze politiche progressiste. Quale valore-chiave mettiamo sulle nostre bandiere? La giustizia sociale o l’eguaglianza complessa? La prima posizione è sostenuta, tra gli altri, da Fabrizio Barca e dal Forum Disuguaglianze Diversità. Ecco qualche breve citazione: «Nell’improvviso e tardivo gran parlare di “disuguaglianza” da parte di cultura egemone e partiti […] è assente il riferimento alla giustizia sociale»; «Bisogna rimettere al centro l’obiettivo della giustizia sociale, di cui è parte la giustizia ambientale»x; «Noi pensiamo che le disuguaglianze devono essere ridotte perché è giusto, perché esse toccano il nostro “senso di giustizia”. […] È nella nostra natura umana badare a che nessuno abbia troppo e soprattutto a che nessuno abbia troppo poco: e allora è bene preoccuparsi in anticipo che non vi sia eccessivo divario di risultato a seconda che nella vita “ti vada bene o ti vada male”»xi.
L’immagine dell’Italia promossa da questa impostazione è quella di un paese che – segnato da tante forme di disuguaglianza, le quali impediscono di valorizzare tante forme di diversità – potrebbe e dovrebbe convergere su un programma politico volto a contrastare l’ingiustizia. Se però prendiamo sul serio il modello di Ricolfi, l’Italia è un paese connotato da una maggioranza impegnata a dividersi la ricchezza passata e a sfruttare il lavoro servile. Che questa larga parte degli italiani agogni prioritariamente alla giustizia sociale, appare un pio astratto desiderio sul quale le forze di sinistra rischiano di schiantarsi.
Piuttosto, se ci proponiamo di governare da sinistra una società incancrenita dalle coalizioni redistributive, occorre un disegno politico volto prioritariamente a smantellare i “bocconi ghiotti”, che mobilitano in senso predatorio le élites e che estendono quei comportamenti a larga parte della cittadinanza. Gli interventi egualitari di sinistra – ancor prima d’impegnarsi a livellare redditi, ricchezza, competenze o conoscenze – devono puntare a disostruire i tanti colli di bottiglia che rendono privilegiato e fruttuoso l’accesso a determinate opportunitàxii. L’obiettivo politico è di modificare la struttura dei colli di bottiglia – allentando direttamente il vincolo, oppure attenuandone l’impatto nel contesto in cui opera – per ridurre gli incentivi ai comportamenti predatori e per rimescolare e innovare le opportunità sociali ed economiche. È questa una strategia che colloca al proprio centro la ricerca dell’eguaglianza complessa, non della giustizia socialexiii.
Al lettore soppesare il peso degli argomenti e stabilire quale, tre le due prospettive evocate, gli appare più convincente. Il punto da rimarcare è che, mai come in questo caso, le analisi delle patologie del nostro paese sono la premessa dell’intervento politico. La rifondazione della sinistra si gioca non sull’efficacia mediatica di qualche slogan, tantomeno sulla bravura comunicativa di qualche leader, bensì sulla validità della rappresentazione dei nostri problemi.
i Luca Ricolfi, La società signorile di massa, Milano, La Nave di Teseo, 2019.
ii «Mentre leggevo [il libro di Ricolfi] hanno suonato alla porta e mi è stata consegnata la spesa ordinata e prepagata online; una sacca pesante, portata a mano, che includeva tante bottiglie di acqua minerale e un paio di bottiglie di vino. La concreta struttura paraschiavista della nostra società di cui parla il libro di Ricolfi – società cui appartengo e che contribuisco a far funzionare – era davanti a me, nella persona che mi recapitava l’ingombrante pacco, nella manciata di pochissimi euro che era il prezzo della sua fatica, nell’incertezza di quei pochi euro che in quell’occasione aveva avuto la fortuna di guadagnare rispondendo all’aleatoria chiamata del supermercato cui mi ero rivolto, nell’insicurezza di quel lavoro privo di ogni tutela, di previdenze pensionistiche, di assistenza nelle malattie. Ero un beké, come si chiamavano i proprietari di schiavi neri nelle Antille francesi, che ordinava a uno dei suoi schiavi di portargli da mangiare e da bere, con la differenza che quello della Martinica o della Guadalupa aveva almeno la certezza, ogni sera, di un pagliericcio e di una zuppa». Claudio Magris, La società dei nullafacenti rischia l’Apocalisse, «Corriere della sera», 16.11.2019. Il terzo pilastro della società signorile di massa è, per Ricolfi, la distruzione della scuola. Su di esso qui non mi soffermo.
iii «L’Italia è, di gran lunga, il paese europeo in cui è maggiore l’eredità attesa, ovvero la quantità di patrimonio che un giovane può aspettarsi di ereditare al momento del decesso di un familiare più anziano». Oltre al ricorso alla ricchezza e ai risparmi del passato, i consumi vengono sostenuti dall’indebitamento e dalla cultura dello sharing. Ricolfi, op.cit., p. 151 e p. 159 ss.
iv Ricolfi (op.cit., pp. 204-212) non fornisce una spiegazione dell’immobilismo, dagli anni novanta a oggi, della produttività del lavoro, tranne qualche cenno al ruolo negativo svolto dal decentramento amministrativo. Per una spiegazione sui versanti così della domanda come dell’offerta, si veda http://temi.repubblica.it/micromega-online/quale-politica-economica-puo-fronteggiare-il-declino-italiano/
v Per una visione antitetica a quella di Ricolfi, e non meno unilaterale, si vedano le ricerche della Fondazione Edison, per esempio http://fondazioneedison.it/it/news/10-falsi-miti-sull2019economia-italiana/ A mio parere, questa visione di un «paese che lavora, innova e funziona» esibisce dati significativi, ma racconta i comportamenti di una minoranza.
vii Ricolfi, op.cit., p. 218.
viii Ricolfi, op.cit., p. 32.
ix Si veda il classico studio di Mancur Olson, Ascesa e declino delle nazioni (1982), Bologna, il Mulino, 1984.
x Fabrizio Barca, Cambiare rotta. Più giustizia sociale per il rilancio dell’Italia, Roma-Bari, Laterza, 2019, pp. 6 e 18.
xi Forum Disuguaglianze Diversità, 15 proposte per la giustizia sociale, 2019, p. 20.
xii Joseph Fishkin, Bottlenecks. A new theory of equal opportunity, Oxford, Oxford University Press, 2014.
xiii Sulla eguaglianza complessa come strategia politica di sinistra, mi permetto di rimandare a miei recenti lavori: Nicolò Bellanca, Dall’eguaglianza all’inclusione, Roma, Manifestolibri, 2018; Isocracy. The Institutions of Equality, London, Palgrave Macmillan, 2019.