La mia risposta è semplicemente no. La domanda che molti si pongono, compagni e amici, specialmente dopo l’ultima tornata elettorale nel paese dei quattro populismi – leghista, berlusconiano, grillino e renziano (tenendo presente, però, che quest’ultimo è solo un amalgama di berlusconismo e vecchia Democrazia cristiana) – andrebbe riformulata così: “è possibile che un populismo faccia cose di sinistra, soprattutto in senso sociale?” La risposta, in questo caso, può essere sì: nella storia è accaduto, per esempio nell’Argentina di Perón, che siano state portate avanti politiche di ridistribuzione del reddito, nazional-protezionistiche, d’intervento dello Stato nell’economia. Tuttavia la stessa cosa potrebbe essere detta dei fascismi europei: non ebbero anch’essi una legislazione sociale? Ma a quale prezzo? La distruzione di qualsiasi libertà, di qualsiasi autonomia della sinistra sindacale e politica. L’applicazione “creativa” dei fascismi europei in Argentina, con il peronismo, ha condotto all’assenza di qualsiasi sinistra organizzata: per cui la lotta, tuttora, è tra correnti diverse dello stesso correntone giustizialista. Non esistono più prospettive né di sinistra liberal-democratica né di sinistra socialista che abbiano una loro identità e fisionomia.
Ma – si dirà – è il caudillismo tipico dell’America latina che ha prodotto fenomeni del genere. Attenzione: il caudillo, cioè il capo politico e militare più o meno carismatico, è un’invenzione europea trasmigrata al di là dell’oceano. Vale la pena di ricordare che Francisco Franco si autodefiniva tale, e che anche Simón Bolívar (molto dirà questo nome ai sostenitori del Venezuela chavista) si richiamava all’esperienza di Napoleone. No, dall’inizio alla fine, per le sue radici bonapartiste e plebiscitarie, il populismo – così come lo conosciamo – è un fenomeno che ci appartiene in quanto europei. Il solo populismo che può essere detto veramente di sinistra è quello russo dell’Ottocento: un variegato movimento politico e culturale, anarchico o protosocialista, basato su un’idea idilliaca di comunità contadina. Dopo di quello populismi di sinistra propriamente detti non se ne sono visti. Si è potuta vedere invece un’altra cosa: la tendenza più o meno apertamente plebiscitaria e autoritaria dell’uomo solo al comando, e – ancor più – la confusione strumentale e programmatica della distinzione destra/sinistra, costitutiva della politica moderna.
Arriviamo a noi, dunque. Il risultato elettorale del primo turno delle amministrative è preoccupante: i quattro populismi italiani occupano ormai quasi interamente la scena: all’ipotesi di una sinistra autonomamente organizzata resta un margine residuale intorno al quattro per cento. Questa è la realtà. Ci si deve interrogare sui perché di questa situazione. Si può chiamare in causa il ruolo ambiguo che sta giocando la minoranza Pd, che – pur del tutto consapevole della questione – esita e non riesce a dire nemmeno un chiaro “no” sul referendum del prossimo ottobre dal contenuto populistico-plebiscitario. In questo modo, tra l’altro, si porta l’acqua al mulino di un altro populismo, quello qualunquistico grillino che, sebbene sia anti-renziano, avrebbe un suo tornaconto evidente nell’ipotesi di una democrazia semplificata in senso plebiscitario, con una sola camera e un premio di maggioranza abnorme.
Vorrei ricordare ai compagni e agli amici che – per disperazione, non per speranza – hanno votato le liste grilline che l’idea di cavalcare un populismo contro un altro è un’idea peronista, e contribuisce alla eliminazione dal gioco politico di qualsiasi sinistra. Avere un’idiotina come sindaco di Roma può sembrare una soluzione – viste le condizioni in cui si trova la capitale –, ma è un bruttissimo segnale, specialmente se l’idiotina di cui sopra, com’è nelle cose essendo la destra in questa città oltre il trenta per cento, si prepara per il secondo turno a chiedere voti agli elettori lepenisti e berlusconiani.