di Claudio Bazzocchi
Vorrei provare a seguire la riflessione che Gianni Cuperlo sta facendo in queste settimane, all’indomani dell’ascesa al governo di Matteo Renzi. Ebbene, di questa riflessione non condivido l’analisi sulla sconfitta congressuale e nemmeno su Renzi, descritto con troppa benevolenza. Penso comunque che la proposta avanzata da Cuperlo – di superare l’idea di una corrente tradizionale – possa invece essere accolta favorevolmente. E cercherò di spiegare perché.
La frattura
Cuperlo parla di frattura, sia per descrivere la crisi della destra e la caduta di Berlusconi sia per rappresentare il risultato del congresso e delle primarie del Pd, in cui la sinistra, con la sua tradizionale idea di partito, avrebbe subito una sconfitta epocale ad opera di quei milioni di cittadini in coda per dare un giudizio negativo e punire la classe dirigente del partito. Tale risultato imporrebbe dunque, secondo Cuperlo, la necessità di ripensare radicalmente categorie, culture, pratiche e linguaggi nonché l’idea stessa di partito. Si tratterebbe, dunque, di una frattura consumata in pochi mesi, a cui la sinistra dovrebbe essere in grado di rispondere con coraggio e velocità, evidentemente ben oltre i cambiamenti e le svolte degli ultimi trent’anni.
Questa idea della frattura non mi convince, dal momento che le primarie aperte non possono essere considerate un giudizio politicamente attendibile sulla sinistra italiana, la sua cultura e il suo linguaggio, che pure sono carenti e deboli nel rispondere alla crisi economica e politica contemporanea, ma non possono certo essere giudicati da portatori di risentimento antipolitico fomentato ad arte nei talk show televisivi, sui giornali della borghesia o tramite la satira dei comici alla moda, dotati di un armamentario retorico che ha ormai poco a che fare con la satira stessa.
Non bisognerà allora dimenticare che ci sono stati segretari regionali e di federazione del Pd che, nella famosa notte di aprile 2013 della riunione dei gruppi parlamentari al teatro Capranica per discutere sull’elezione del presidente della Repubblica, hanno intimato alle loro delegazioni parlamentari di non votare Marini, salvo poi costruire la fortuna politica propria e di Matteo Renzi (e anche dell’outsider Civati) su quel fallimento che loro stessi avevano provocato. Insomma, chi è stato davvero responsabile di quella débâcle nella vicenda del Quirinale si è presentato poi all’opinione pubblica come il fustigatore di un mondo e di un partito che doveva essere cambiato radicalmente, come il castigatore di una classe dirigente che aveva tradito i propri militanti e i propri elettori.
Ecco, in questo caso non possiamo parlare di frattura, di scollamento tra elettori e partito, proprio perché quel fallimento era stato preparato per sfruttare l’inevitabile risentimento e delusione e volgerli alla promozione di una nuova classe dirigente giovane, “pura” e aliena ai giochi di palazzo della vecchia politica. Furono in quell’occasione dispiegate nuovamente – dopo le primarie per scegliere il futuro presidente del consiglio e perse pochi mesi prima – le armi dell’indignazione antipartitica per scalare il Pd, per utilizzare ancora l’orrenda parola “rottamazione”, per muovere giovani e meno giovani contro i propri circoli, le proprie sedi di partito, descritti come covo di grigi burocrati scollati dalla società. Bisognava di nuovo chiamare il proprio popolo a sparare contro il quartier generale.
L’immagine della frattura non convince anche per un altro motivo, che ha a che fare con la cultura politica del Pd e dei partiti che l’hanno preceduto negli ultimi venticinque anni. Renzi e il renzismo non rappresentano una frattura dal momento che Berlusconi e il berlusconismo hanno egemonizzato la sinistra italiana negli ultimi due decenni. Andrà ricordato che il Pds nacque contestualmente all’abbandono del proporzionale voluto da Segni e da Occhetto, che il centrosinistra volle fortemente le leggi elettorali per gli enti locali in quegli stessi anni, leggi di segno presidenzialistico che hanno esautorato il ruolo dei partiti e delle assemblee. Inoltre, negli ultimi dieci anni il centrosinistra ha condiviso l’idea che andassero rafforzati i poteri del presidente del consiglio a scapito del Parlamento. Ed è sempre il centrosinistra ad avere prodotto i sindaci sceriffi (pensiamo, fra gli altri, a Emiliano e De Luca a Bari e Salerno) e i leader “carismatici” alla Vendola e alla Civati, sorta di cavalieri senza macchia e senza paura che sfidano la mediazione politica considerata come corruzione, che dipingono come squallide le sedi di partito e il cosiddetto Palazzo e che si affidano alla energia di giovani smart e insofferenti verso i riti della politica tradizionale. In quella variante più di sinistra rispetto al Pd, il problema non è certo quello di liberarsi dal dominio capitalistico, la libertà sta solamente nella possibilità di poter mettere a frutto il proprio talento per un proprio progetto di vita, non è più la liberazione, bensì il vivere in un modo fluido e libero dai vincoli di istituzioni considerate inefficaci e dal peso di contesti sociali descritti come poveri di “capitale sociale”. Infatti, il mondo è già per se stesso meraviglioso, con i suoi happy hours, le sue feste di giovani ammiccanti agli obiettivi degli smartphone, i viaggi low cost e il luccicante ambiente virtuale 2.0. Ha solo bisogno di essere fluidificato con energie pulite, solari e morali, e, infine, con buone pratiche da affidare a un capo incorrotto e incorruttibile che garantisca la loro applicazione.
Ovviamente, non si dovrà nemmeno dimenticare il modo in cui è nato il Pd, partito non solo post-ideologico, ma praticamente non partito, affidato al carisma del capo che occupa lo spazio della politica, inteso come il campo di una campagna elettorale permanente da affidare al leader che si spende sul mercato politico.
Ecco, a fronte di tutto questo, continua a non convincermi l’immagine della frattura. Matteo Renzi e il renzismo sono il risultato della personalizzazione della politica, del disprezzo dei corpi intermedi e della mediazione, e dell’esaltazione del leader inteso come uomo solo al comando. Si tratta di quella personalizzazione che ha nelle primarie la sua forma massima di espressione. E le primarie sono ciò che caratterizza il Partito democratico così come voluto da Veltroni sette anni fa (e sono anche uno dei capisaldi della concezione della politica e del rapporto di essa con la società di Nichi Vendola e del suo partito).
Non credo allora che si possa parlare di frattura per la sinistra italiana, di solenne bocciatura nelle primarie dell’8 dicembre, tale che si renda necessario un cambiamento di cultura, linguaggio e categorie all’altezza di un momento drammatico di passaggio. In realtà, a dicembre non s’è consumata alcuna frattura. Renzi e il renzismo sono il prodotto di venticinque anni di scelte volte al disprezzo della mediazione, del conflitto sociale, dei corpi intermedi e della politica come campo di senso e strutturazione d’identità, di cultura e di visione del mondo. Non siamo di fronte una frattura, bensì al risultato, al prodotto di scelte compiute a partire dalla fine degli anni ottanta. E quindi dobbiamo parlare piuttosto di continuità, che alla fine produce l’uomo solo al comando che senza remore e senza vergogna – quelle che fino a quel momento, per una sorta di pudore, si erano almeno conservate formalmente – dimostra disprezzo per il Parlamento, la mediazione, i partiti e i sindacati, appellandosi al popolo contro il cosiddetto Palazzo. E questo risultato non è né una punizione né una soluzione per le scelte degli ultimi due decenni, ne è piuttosto il compimento.
Per questi motivi contesto al compagno Cuperlo l’immagine della frattura, la descrizione della sconfitta congressuale come momento rivelatore dell’inadeguatezza della sinistra e delle sue categorie. La sinistra italiana è certamente inadeguata, ma perché ha smesso di essere sinistra, perché è stata egemonizzata dal berlusconismo per quanto riguarda l’esaltazione del liberismo, la concezione padronale del partito, la torsione maggioritaria e presidenzialistica del sistema politico, e non certo per essersi attardata in concezioni vecchie della politica che non le permettono di interpretare adeguatamente la società.
Sono preoccupato dal fatto che l’idea di una frattura possa portare a valutare Renzi come una sorta di fustigatore della sinistra e del suo ritardo a causa di pesanti e vecchie categorie ideologiche. Sono sconcertato dall’ambiguità con cui si descrive il fenomeno Renzi da tanta parte della sinistra Pd, con quel misto di ammirazione e inevitabile rassegnazione, come se la sinistra avesse perso l’occasione per fare quello che ora dice di fare Renzi. La sinistra, in realtà, non fa altro da più di vent’anni e, non a caso, produce Renzi e il renzismo, cova al proprio interno il frutto più maturo della personalizzazione della politica e del nuovismo vuoto e antipolitico, a uso della semplificazione mediatica. Insomma, la sinistra italiana non è un vecchio elefante che non corre al passo coi tempi, e il Pd non è un partito staccato dalla società, incapace di ascoltarne bisogni, istanze e umori. Come più volte mi è capitato di dire, non è vero che i partiti italiani siano stati scollati dal paese reale, ne sono stati anzi fin troppo lo specchio. Nel momento in cui hanno abbandonato l’idea della politica come lotta etico-politica per promuovere una società e uno Stato in grado di attenuare e governare le lacerazioni tipiche del moderno – tra libertà ed eguaglianza, solidarietà e interesse personale, privatismo e dedizione allo Stato –, i partiti si sono ridotti a essere spazi in cui competere per il potere al di là di qualsiasi opzione politico-culturale. Non hanno avuto più bisogno di parlare alla società ma di essere parlati da essa per assecondare pulsioni egoistiche, risentimenti e interessi privati senza volerli più governare in nome di una propria autonoma visione etico-politica.
Il nuovismo renziano non è dunque la politica che finalmente ascolta la società e si riconcilia con essa, magari in modo inusuale ma comunque necessario, e tutto sommato inevitabile a fronte di una sinistra vecchia. Quel nuovismo è l’esito finale di una sinistra fin troppo nuova che da anni ha smesso di governare in base a una visione del mondo, della nazione, dello stato e della società oltre che dei propri referenti sociali, e che ora si ritrova travolta da un’ondata antipolitica che lei stessa ha contribuito a creare, e non causato come reazione ai suoi errori. Allora, Matteo Renzi non è la soluzione e nemmeno la nemesi, è bensì il prodotto, l’esito finale di un’idea di politica e di partito che ha creato la propria autodissoluzione: e non per errore, ma per convinzione.
Un 25 luglio senza 25 aprile per il nostro Paese
Il problema non è dunque quello della frattura per la sinistra italiana, ma di capire perché alla fine del ciclo berlusconiano essa non sia stata la protagonista della liberazione, perché dal 25 luglio non si sia arrivati a un nuovo 25 aprile. Bisogna capire perché la fine di Berlusconi non abbia significato la fine del berlusconismo e il Pd stesso abbia invece prodotto un altro uomo solo al comando e una forma di populismo forse ancora più pericolosa, in quanto realmente interclassista e senza più quasi opposizione nel Paese. Il perché sta proprio nel fatto che la sinistra è stata egemonizzata dal berlusconismo, come cercato di ricordare sopra. Non ha lavorato in questi vent’anni per produrre gli anticorpi prima e la liberazione poi, per avere una cultura e un’idea di Paese e di sinistra dopo la caduta di Berlusconi. L’unico ad averci provato – per quanto in grave ritardo – è stato Bersani con la sua critica del liberismo e del populismo e con la sua idea di un forte partito di massa, nuovamente radicato nelle ragioni del lavoro. Bersani ci metteva il suo essere popolare, rassicurante, uomo del territorio, capace di tenere assieme diverse tradizioni politiche e culturali e di interpretare, ancora nel 2012, l’incontro fecondo fra tradizione socialcomunista e cristianesimo sociale, che regge l’impianto della nostra Costituzione repubblicana.
Quel tentativo giusto e appassionato non ha avuto successo, osteggiato dalla destra italiana, quella dei poteri forti, che non ha esitato ad appoggiare il movimento di Grillo per non far vincere la coalizione di centrosinistra alle politiche del 2013. Resistenze fortissime stavano anche dentro il Pd, come hanno chiaramente dimostrato la vicenda dell’elezione del presidente della Repubblica e i tanti passaggi di campo dall’area Bersani a quella Renzi.
Non una corrente tradizionale, ma un’associazione nazionale strutturata
Se tutto ciò è vero, allora sì che la minoranza Pd non può pensare di organizzare una corrente tradizionale all’interno del partito. E questo per due motivi. Prima di tutto, il Pd non è oggi un normale partito. Come sappiamo, i partiti di massa erano o di sinistra o popolari, con le loro varie correnti, ma solidamente ancorati a valori, visioni del mondo e a pezzi di società da rappresentare. Piattaforme programmatiche e classi dirigenti venivano scelte non in mezzo alla strada, ma tramite percorsi congressuali lunghi, partecipati e profondi dal punto di vista della cultura politica, quindi ben riconoscibili. I partiti non erano dunque scalabili tramite operazioni mediatiche, a colpi di retorica antipolitica e di carisma e non erano meri contenitori di potere da spendere sul mercato politico. Il Pd oggi non è quel tipo di partito, non è un partito radicato, con una precisa cultura politica rispondente a pezzi reali di società. E non si può dimenticare che chi guida quel governo non è un compagno che ha vinto un normale congresso, bensì colui che fino al giorno prima voleva liquidare l’idea stessa di partito di massa e la sua collocazione a sinistra, rompendo definitivamente i già tenui legami con i tradizionali riferimenti sociali e utilizzando quella retorica populista e antipolitica contro la quale il segretario precedente s’era battuto con tutte le sue forze. Non ci si può comportare come se nulla fosse cambiato, come se ci fosse ancora un partito vero, uscito da un congresso come tanti altri, dopo il quale si condividono al suo interno comunque valori, idee e visioni del mondo comuni.
Inoltre, il personale politico dell’area della sinistra Pd è caratterizzato da una sorta di storico pessimismo e quindi dall’accettazione della secolarizzazione – che ha messo in crisi le grandi ideologie –, rispetto alla quale si potrebbe usare solo la leva del governo – nella sua forma decisionista – per difendere gli interessi dei ceti di riferimento. Accetta sostanzialmente, con cupezza, la realtà odierna secolarizzata in cui ciò che conta per la sinistra sarebbe solo la sapiente gestione della leva del potere per difendere la propria rappresentanza sociale. Tutto sommato, non è posizione molto diversa da quella di coloro che invece guardano con esaltato ottimismo al tempo secolarizzato in cui i ceti medi della mobilitazione cognitiva chiedono partecipazione, forme di democrazia diretta, forum su internet e un leader carismatico che possa rappresentare al meglio l’innovazione dei ceti emergenti. In entrambi i casi, il partito come comunità popolare di uomini e donne non viene contemplato e la politica si riduce a lotta per il governo e per vincere le elezioni.
Questo tipo di personale politico si adatta benissimo a un partito che si sta trasformando sempre di più in un dispensatore di cariche elettive, fuori da qualsiasi progetto complessivo, visione del mondo e cultura politica. Per cui stare nel partito, dirigerlo, ha senso solo nella misura in cui si accede a cariche negli enti locali e nelle loro giunte, in Parlamento o nel governo. Si tratta di personale politico che non è in grado di fare la minoranza, di attraversare il deserto senza onori e con molti oneri e poca, pochissima acqua. Che non saprà fare la minoranza perché si vedrà costretto sempre a non dire fino in fondo le cose per non irrigidire la maggioranza con la quale contrattare il proprio posto nelle varie assemblee elettive o nelle giunte. E questo non in una situazione di normale partito di massa che condivide le stesse idee di fondo e la stessa cultura politica, ma in un partito guidato da un corpo estraneo a qualsiasi cultura politica della sinistra europea – che addirittura disprezza i corpi intermedi e l’idea stessa di partito –, in cui quindi la minoranza non è garantita in quanto tale, perché composta da compagni, ma deve ogni giorno conquistare la benevolenza del capo, che non è più il segretario di una comunità politica con valori, idee e visioni del mondo condivise.
Quel personale politico ogni giorno appesantirà il referente nazionale di quell’area di minoranza con continue richieste, desiderata, di posti, incarichi, prebende ecc. E quel referente nazionale non avrà tempo per essere veramente dirigente politico, per esprimere un gruppo dirigente in grado di elaborare pensieri, cultura, idee, programmi.
Io penso che non si possano fare tutt’e due le cose, cioè garantire posti e cariche per la minoranza ed elaborare pensiero e cultura, proprio perché non siamo in una situazione normale. C’è bisogno di creare un gruppo dirigente che abbia voglia di attraversare il deserto, che non debba sempre guadagnare la benevolenza del capo per ottenere il proprio posto, la propria carica, perché solo così si potranno produrre idee, pensiero e cultura per la sinistra italiana. C’è bisogno di girare l’Italia a scovare le tante perle che ci sono, che non vogliono posti, ma desiderano studiare, generare pensiero e iniziativa politica e rappresentare di nuovo i ceti più deboli, a partire dalla strada e dai luoghi di lavoro. Non possiamo buttare queste perle in una corrente di sinistra del Pd, perché saranno sempre schiacciate dai più alti in grado, dagli assessori, dai consiglieri, dai deputati, dai ministri, dai sottosegretari, e così via. Non possiamo buttarli nel calderone delle minicorrenti dentro la corrente, dei veti incrociati, delle lotte per guadagnare il proprio posto.
È per questo che io penso, assieme a tanti altri compagni, che sia necessario creare al più presto un’associazione politico-culturale indipendente dal Pd – che possa partire per iniziativa di Cuperlo e altre personalità sia della sinistra Pd sia di chi non è iscritto a nessun partito – che si ponga l’obiettivo di produrre la massa di pensiero e di idee che serviranno dopo il nuovo 25 luglio che dovremo vivere – possibilmente fra meno di venti anni – affinché si arrivi a una vera e definitiva liberazione del nostro paese da populismo, antipolitica e servilismo. E avremo bisogno di un nuovo gruppo dirigente, libero dall’idea che dirigere significhi avere una carica, un posto da assessore o consigliere regionale e vincere quindi un’elezione primaria per una qualsiasi delle cariche a disposizione. Un gruppo dirigente che impari lo studio da una parte, e l’attenzione e la vicinanza ai compagni e alle compagne dall’altra, che non perda tutto il proprio tempo nelle trame in corridoi, peraltro sempre più vuoti, di partiti sempre meno abitati, vissuti e frequentati: quelle stesse trame in cui si perde giorno dopo giorno l’umanità e la capacità di dirigere veramente.
È necessario allora riprendere il contatto con il Paese e ricostruire un vero gruppo dirigente, a partire da chi negli ultimi anni si è formato senza subire le retoriche del ventennio che abbiamo alle spalle. Bisognerebbe stare dentro e fuori il Pd. Ciò non significa abbandonare il Pd. Vuol dire presidiare il partito – ma senza assumere responsabilità, senza fare accordi per le segreterie regionali o per altre cariche interne che sarebbero assolutamente incomprensibili – e allo stesso tempo essere capaci di parlare a tutta la sinistra italiana, grazie a una forma organizzativa strutturata come associazione – a Roma e sul territorio –, che sia in grado di attrarre anche chi non necessariamente vuole iscriversi al partito. Ci vuole coraggio e libertà. Bisogna mostrare ai compagni e alle compagne degli altri partiti di sinistra e a tutti coloro che non sono più iscritti ad alcun partito che si vuole intraprendere un percorso in mare aperto.