Premessa
È uscito di recente un libro intervista a due voci di Noam Chomsky e Pepe Mujica curato dall’attivista e reporter messicano Saúl Alvídrez, che fin dal titolo è già un programma di resistenza attiva: Sopravvivere al XXI secolo. Questo libro può essere considerato come un testamento intellettuale di Pepe Mujica dopo la sua morte recente. Buone pratiche di resistenza non violenta vi sono esplicitamente evocate e proposte in rapporto con lo sviluppo catastrofico degli eventi ambientali, economici e sociali: eventi che vengono affrontati dalle oligarchie al potere con i soliti vecchi metodi, fondati su discriminazione, repressione e violenza di ogni tipo, inclusa la guerra di cui si parla in un altro libro di fresca pubblicazione e scritto da Angelo D’Orsi, dal titolo La catastrofe liberista. Ma in questo contesto le buone pratiche di resistenza sono anche l’unica via per rendere possibile alle generazioni presenti e future una vita degna di essere vissuta. Le parole “felicità” e “socialismo” sono cadute oggi in disuso, dopo che per secoli sono state al centro del dibattito filosofico e politico come termini capaci di descrivere in modo sintetico le aspirazioni degli esseri umani. Per questo saranno esplicitamente richiamate e ridefinite nel nostro articolo come prassi comuni che possono guidare la vita, così da chiarire che “la felicità” è perseguibile da ogni essere umano nel corso della sua esistenza terrena. In una ideale simbiosi dunque, “l’amore dei gatti” e “la lotta per il socialismo” potranno dare un grande contributo al raggiungimento dello scopo.
Nel trattare l’argomento ci atterremo alle acquisizioni delle scienze naturali e umane al fine di definire tutte le pratiche empiriche che meglio rispondano allo scopo enunciato del raggiungimento della felicità. E per evitare ogni discorso generico dato che parleremo spesso di “essere umano”, ci piace riconoscere che la migliore descrizione dell’“essere umano” o meglio semplicemente quella di “umano” è stata data da Edgar Morin. L’essere umano è infatti secondo Morin nello stesso tempo un individuo, un membro di una specie che si è evoluta nell’ecosistema terrestre col quale vive in stretta simbiosi e infine il socio di una comunità, di una società cioè di esseri umani. Ma queste tre componenti non si possono separare fra loro perché l’essere umano è, nella sua interezza e totalità, un individuo, un essere appartenente a una specie e il membro di una società. Per spiegare questo concetto Morin ricorre all’analogia olografica. La differenza tra un’immagine fotografica e quella olografica consiste nel fatto che mentre nell’immagine fotografica a un punto dell’oggetto corrisponde uno e un sol punto sull’immagine, nell’immagine olografica ogni punto è il risultato del contributo di ogni punto dell’oggetto in quel punto.
A queste considerazioni va aggiunta un’altra e cioè che attraverso l’evoluzione fisico-chimica dell’Universo che ha prodotto gli atomi, di cui siamo composti, per nucleosintesi in una stella esplosa in una supernova in un tempo remoto così come l’evoluzione del pianeta Terra che ha prodotto per sintesi chimica le molecole necessarie per la vita siamo legati a tutto l’Universo.
Siamo perciò parte del nostro universo fisico, biologico, cosmico pur essendone distinti per il tramite della nostra cultura e coscienza, della nostra doppia identità biologica e antropologica e anche della nostra doppia identità antropologica e biocosmica.
Il tutto è nella parte e l’avventura umana, che non sappiamo dove vada, partecipa di una più complessa avventura cosmica di cui non conosciamo la meta.
La “felicità” che riguarda l’individuo nel senso definito da Morin, è fondata sulla consapevolezza della complessità dell’“umano”, di cui si deve tener conto ogni volta che ci si appresta a stabilire le buone pratiche utili e necessarie al suo concreto conseguimento.
Né bisogna dimenticare che i tre aspetti costituiti da individuo, specie e società sono intrecciati in modo inestricabile per cui la loro separazione, intesa come l’accentuazione di un aspetto rispetto ad un altro, ha portato verso esiti che sono stati particolarmente negativi.
Infatti nel mondo occidentale la nostra relazione con la natura e con l’ecosistema terrestre è stata oggetto di un occultamento. Nel corso del XVII secolo si è accentuata la coscienza di una separazione fra l’uomo e la natura. E questa idea avrebbe costituito il fondamento del processo di sviluppo del mondo economicista, capitalista, mercatista che domina la nostra cultura e la nostra epoca.
Il capitalismo del XXI secolo e la “lotta per il socialismo”
Il termine “capitalismo” non è oggi molto usato ed è stato piuttosto sostituito dall’espressione neutra «paese/sistema a economia di mercato» o ancora più genericamente «paese/sistema a democrazia liberale». In questo modo viene nascosto il carattere fondamentale del “capitalismo” come sistema economico fondato sull’appropriazione e l’accumulazione della ricchezza esistente e prodotta dalla collettività nelle mani private di ristrette oligarchie, le quali attraverso la manipolazione delle masse e la loro “democratica costrizione” in una sottomissione “volontaria” hanno generato la condizione inumana come descritto assai lucidamente da Christian de Brie su «Le Monde Diplomatique » e che ha segnato la storia per secoli. Su queste basi è sorto il “capitalismo del XXI secolo” chiamato da Luciano Gallino «finanzcapitalismo», oggi senso comune prevalente in buona parte del mondo anche attraverso la “finanziarizzazione” dell’economia.
Ciò significa che con il semplice cambiamento di un numero su un calcolatore si può mandare in rovina un intero paese così come un semplice cittadino.
Un simile stato di cose sta rilanciando nuove forme di imperialismo associate a una crescente militarizzazione e sta producendo una catastrofe ambientale e con il suo neoliberismo sfrenato sta smantellando ogni rete di sicurezza sociale. Così facendo ha costruito una mostruosa disparità di ricchezza e di reddito e ha distrutto il concetto stesso di “bene comune” in nome della fede nei principi di mercato come regolatori assoluti di ogni aspetto della vita.
Ma quando si leggono o si ascoltano le analisi degli “esperti” presentati come illustri rappresentanti di “Istituti di Ricerca” sconosciuti ai più e spesso di recente creazione, sembra di essere tornati a molti decenni fa quando tutto veniva spiegato in termini di nazione e di patria con allegata la missione storica, letta e interpretata in termini di lotta tra le democrazie liberali e i regimi autocratici e totalitari e nei termini della superiorità politica e culturale dell’Occidente rispetto all’arretratezza e alla barbarie degli altri popoli della Terra. La Vecchia Europa, non paga di avere scatenato due devastanti guerre mondiali nel XX secolo e di aver insanguinato il mondo col suo colonialismo, è ancora in prima fila nella propaganda militarista e bellicista. La sua grande illusione consiste nel credere, con progetti come ReArm Europe, di poter tornare ad avere un ruolo centrale nella politica internazionale, un ruolo che invece è ormai definitivamente perduto, minacciando e preparando la guerra alla Russia, un conflitto potenzialmente mondiale, globale e di tipo nucleare. E come se non bastasse, ciò si fa nascondendo, dietro il silenzio e l’omissione su tragedie come la guerra contro i palestinesi di Gaza, che il metodo del genocidio diventerà quello attraverso cui le oligarchie suprematiste pensano di risolvere i conflitti con le moltitudini dei poveri e dei diseredati del mondo. Un tale sistema, pur nelle sue differenti realizzazioni storiche – la nascita del “capitalismo” viene di solito fatta risalire alla prima rivoluzione industriale sviluppatasi in Europa cinque secoli fa – è tuttavia molto antico. Gli archeologi datano a cinque millenni fa l’origine della diseguaglianza in alcune società della preistoria europea sulla base di elementi inequivocabili.
Le caratteristiche dell’origine della disuguaglianza non possono infatti essere spiegate con la “natura egoistica” degli esseri umani. Le più recenti acquisizioni nel campo della paleoantropologia, della paletnologia e della preistoria hanno chiaramente dimostrato come l’altruismo e lo spirito cooperativo abbiano favorito l’evoluzione umana e impedito l’estinzione del genere umano.
Recentemente è apparso un articolo sulla rivista «Le Scienze» in cui si parla di una civiltà sviluppatasi tra Romania e Ucraina, durata tra il settimo e il quinto millennio avanti Cristo, costituita da megasiti abitati ognuno da migliaia di persone e fondata su una organizzazione perfettamente egualitaria. Ma questo vale ancora oggi per alcune popolazioni dell’America Latina o per popoli che vivono di agricoltura agroforestale nelle grandi foreste fluviali, che sono il bel numero di centinaia di milioni.
Nella lingua parlata dalle antiche popolazioni dell’America Latina, parlata ancora oggi, la lingua quechua, non esiste la parola “proprietà”. Non solo ma nell’intero continente americano, popolato dall’Homo Sapiens a partire da 18.000 anni fa non esistono testimonianze archeologiche di eserciti né di guerre prima dell’arrivo degli Europei.
Non c’è quindi niente di “naturale” nel processo di origine ed affermazione del “capitalismo”. Si deve osservare piuttosto in Europa l’affermarsi di idee che ritenevano il pianeta Terra come una riserva infinita di risorse a cui il genere umano avrebbe potuto attingere senza limiti di alcun genere.
Ne conseguiva quindi che l’accumulazione di ricchezza fosse ritenuto un segno di capacità individuali e prestigio sociale. E già il mito greco del re Mida ci fa pensare che anche gli antichi avessero qualche dubbio in proposito quando contrapponevano la ricchezza alla possibilità stessa di sopravvivenza. Re Mida infatti non può nutrirsi perché tutto quello che tocca diventa oro. Max Weber definiva la polis greca di Atene, un’istituzione in cui democrazia e imperialismo hanno origine nello stesso periodo, come «una gilda che si divide il bottino». Questa definizione potrebbe essere estesa a ogni tipo di oligarchia che si è costituita nel corso della storia, anche se i modi con i quali il bottino si accumulava e si divideva sono stati diversi nel corso dei secoli. Su questo aspetto gli antichi Greci avevano le idee molto chiare e le esprimevano in modo inequivocabile.
Nella lingua greca esistono infatti due parole per indicare l’economia e le attività produttive: una parola è il termine oikonomia che indica tutte quelle attività necessarie alla vita della casa e della comunità, quella che in termini moderni si potrebbe chiamare economia di sussistenza; l’altra parola è kremastikè che invece indica tutte le attività produttive che si fanno per accumulare sempre più ricchezza nelle proprie mani. Si potrebbe tradurre con il termine moderno di economia.
Il fatto che l’accumulazione della ricchezza nelle mani di pochi fosse considerato un pericolo mortale per il buon funzionamento della polis, Platone lo dichiarava apertamente a proposito della sua kallipolis, una città con una forte struttura di classe, governata da una ristretta élite coadiuvata da un esercito di guardiani. Per questo riteneva necessario che sia all’élite che ai guardiani fosse impedito ogni possesso privato della ricchezza e riteneva che al posto della proprietà privata si dovesse creare, per queste classi, una comunità di beni che includesse donne e figli.
Aristotele, che pure aveva criticato aspramente l’abolizione della proprietà privata della ricchezza proposta da Platone e che invece riteneva che, entro certi limiti, la kremastikè potesse essere utile, pensava comunque anch’egli che un’eccessiva attività di accumulazione della ricchezza avrebbe causato gravi conflitti nella polis e avrebbe minato la sua coesione sociale.
Il capitalismo del XXI secolo è anche caratterizzato da un fatto che è stato sottolineato da Elon Musk, uno dei suoi rappresentanti più ricchi e potenti, con la nota affernazione secondo cui la lotta di classe l’hanno vinta i ricchi.
Tanto che i ricchi si sentono padroni del mondo che vogliono modellare secondo le loro idee aberranti. Questa nuova (vecchia) società composta di ricchi maschi adulti a cui si sono unite femmine adulte fornite di inconfondibili “caratteri virili” ha fondato una nuova teologia della ricchezza, i cui sacerdoti, rappresentanti delle Chiese evangeliche americane, si sono riuniti di recente in preghiera alla Casa Bianca con il loro Gran Capo Bianco Donald Trump. La scena è stata diffusa da tutti i media e faceva venire in mente il Consiglio Notturno di cui Platone parla nella sua ultima opera Le Leggi, un’istituzione che si riuniva all’alba per condannare al carcere a vita oppure a morte chiunque non fosse d’accordo con la sua dottrina. E l’azione del “nuovo” Consiglio Notturno si è fatta sentire subito con forza nei confronti degli immigrati, delle minoranze di ogni tipo, dei giovani e delle Università che pretendono di essere autonome e diffondere il pensiero critico.
E dopo tanti secoli (e millenni) di “capitalismo”, nel corso dei quali le idee e le pratiche dominanti sono state fondate sulla proprietà privata e sulla diseguaglianza come poi è stato teorizzato da Montesquieu nel suo famoso L’esprit des lois, il cui titolo oggi dovrebbe essere cambiato con L’esprit des lois est la propriété privée, è lecito chiedersi: a che punto siamo?
La risposta a questa domanda ce la danno due parametri molto semplici da comprendere: il primo è il tempo che resta allo scoppio dell’apocalisse nucleare, un tempo misurato dall’Orologio dell’apocalisse (Doomsday Clock), ideato nel 1947 dagli scienziati della rivista «Bulletin of the Atomic Scientists » dell’Università di Chicago: consiste in un orologio metaforico che misura il pericolo di un’ipotetica fine del mondo a cui l’umanità è sottoposta. Il tempo segnato dal Doomsday Clock è attualmente di 89 secondi alla mezzanotte. Questo significa che, secondo il «Bulletin of the Atomic Scientists», l’umanità è in pericolo di autodistruzione più che mai.
Il secondo parametro è l’Earth Overshoot Day, che segna la data in cui la domanda di risorse e servizi ecologici da parte del genere umano in un determinato anno supera quanto la Terra può rigenerare in quell’anno. Lo sfruttamento della Terra aumenta di anno in anno poiché si consumano più risorse di quante possa metterne a disposizione il pianeta. Ogni anno, la data dell’Earth Overshoot Day viene annunciata il 5 giugno (Giornata mondiale dell’ambiente).
L’Earth Overshoot Day è uguale al rapporto (Earth’s Biocapacity / Humanity’s Ecological Footprint) moltiplicato per 366, essendo stato il 2024 un anno bisestile; si calcola cioè dividendo la biocapacità del pianeta (la quantità di risorse ecologiche che la Terra è in grado di generare in quell’anno – Earth’s Biocapacity) per l’Impronta Ecologica dell’umanità (la domanda dell’umanità per quell’anno – Humanity’s Ecological Footprint) e moltiplicando il risultato per i giorni dell’anno considerato. Nel 2024 il giorno designato era giovedì 1° agosto. Il “capitalismo del XXI secolo” non farà che anticipare la data dell’ Earth Overshoot Day e quindi farà aumentare il deficit di risorse disponibili. Alla data odierna servirebbero le risorse di due pianeti Terra per soddisfare pienamente il fabbisogno.
Inoltre si parla della nostra epoca come di un’epoca pandemica, nel senso che si faranno sempre più frequenti e devastanti le pandemie prodotte da virus che hanno fatto il salto di specie/zoonosi dovuto agli effetti congiunti di più fattori, tra i quali il fattore evoluzionistico relativo ai virus unito alla distruzione di ecosistemi come le foreste, alla concentrazione degli esseri umani in grandi conglomerati urbani e ai loro spostamenti di massa, al commercio clandestino di animali selvatici, alla mancanza di prevenzione a livello planetario e via elencando. Su un recente numero di «Le Scienze» è infatti apparso un articolo dal titolo inequivocabile: Un accordo globale contro le pandemie di Alice Pace.
Inoltre va sempre più prendendo forma nelle menti dei suprematisti al potere un nuovo sogno, in realtà un incubo per l’umanità, per cui lo straordinario sviluppo della tecnoscienza nel campo della robotica e dell’Intelligenza Artificiale potrebbe essere usato, come già si è fatto in passato con la catena di montaggio, per ridurre l’essere umano a un’appendice insignificante del processo produttivo, sia di quello manuale che di quello intellettuale, annullando il suo apporto di intelligenza, creatività, esperienza e capacità pratiche. La speranza dei suprematisti è andare oltre lo scimpanzé ammaestrato di fordiana memoria e ridurre l’umanità a moltitudini ignoranti, incolte, passive e inermi, sulle quali dominare con l’uso di media sempre più pervasivi e potenti. Si tratta di un sogno, o meglio appunto di un incubo formulato da menti malate che saranno curate dall’irriducibile forza della realtà sociale e naturale.
«La ragione [noi diremmo la ragione tecnoscientifica] è piccola, la natura è grande» scriveva Giacomo Leopardi e l’idea è stata ripresa nel titolo del libro di Telmo Pievani La natura è più grande di noi; e vogliamo aggiungere noi che la natura è più grande anche dei suprematisti al potere.
Lo scrittore Gore Vidal riteneva infatti che l’unica “forza” che avrebbe potuto liberare l’America da Bush sarebbe stato il clima. E infatti fu il ciclone Katrina che, provocando il disastro dell’alluvione di New Orleans, mise in luce tutta l’inettitudine di quell’Amministrazione. Parafrasando Alessandro Manzoni si potrebbe riscrivere: Le crisi ambientale e climatica saranno una gran ramazza. In una intervista al «Corriere della sera», Giorgio Parisi ha detto: «L’Intelligenza Artificiale non può inventare il futuro. Ha la conoscenza di tutto quello che ha scritto l’umanità e lo ricombina. Anche la nostra creatività mette assieme tutto quello che abbiamo letto, imparato, sentito, provato e vissuto e da lì genera delle idee. Però il futuro non si crea tirando a indovinare ma cercando di combinare l’esperienza con un’idea di mondo. Che i Chatbot non hanno».
Queste situazioni ci indicano l’urgenza della “lotta per il socialismo” e per una democrazia nella quale i cittadini impegnati e informati si uniscano per sviluppare tutti gli strumenti necessari per contrastare le minacce incombenti, non fosse altro che per mantenere semplicemente sul pianeta Terra condizioni adatte alla sopravvivenza del genere umano.
L’ecologia spiega bene che la vita funziona con cicli chiusi, nei quali la materia e l’energia circolano fra organismi produttori (vegetali), consumatori (animali) e decompositori che ”riciclano” le scorie e ne rendono disponibili gli elementi per la prosecuzione della vita. In stridente contrasto con ciò, l’economia è capace di soddisfare i bisogni umani e di far crescere la ricchezza soltanto producendo merci e oggetti mediante cicli aperti nel corso dei quali le risorse naturali vengono e restano impoverite e le scorie tornano nella biosfera contaminando e inquinando i corpi riceventi naturali (acqua, aria, mare, suolo), e peggiorandone irreversibilmente la qualità cioè la successiva utilizzabilità.
Avremo così più merci e meno risorse naturali restanti e altresì più scorie che un giorno nessuno saprà come e dove smaltire. Solo la teoria bioeconomica considera questi aspetti e riporta l’economia in seno alle scienze della vita. Non ci potrà essere una transizione ecologica – intesa come rispetto degli equilibri ecologici, con sfruttamento controllato degli ecosistemi – se l’economia non si svilupperà secondo i principi della bioeconomia. La ricerca consiste nel determinare le necessarie pratiche individuali e collettive legate a ciò che la bioeconomia indica come gli scopi ultimi di ogni azione umana e cioè la riproduzione della specie umana e il godimento individuale della vita.
Gli obiettivi della “lotta per il socialismo” sono anche chiari e hanno lo scopo di cambiare radicalmente il sistema economico e la società capitalistica: la pace e il disarmo generale a partire da quello nucleare, il superamento della società dei consumi e degli sprechi, il riciclaggio delle risorse e l’economia circolare, la riduzione del tempo di lavoro unita alla produzione di beni duraturi, la messa in opera di ogni strategia che favorisca la rigenerazione della Terra, dei suoli, delle acque e delle varietà viventi.
Afferma Pepe Mujica: «Stiamo perdendo la battaglia contro il consumo inutile e la banalizzazione della vita. Se potessi scegliere qualcosa da lasciare alle nuove generazioni sarebbe questo: la capacità di destinare più tempo alla vita vera». Si potrebbe aggiungere che la società dei consumi, figlia del capitalismo dei secoli XX e XXI, ha innalzato un muro di stupidità che il giornale satirico francese «Le Canard Enchainée» intitolerebbe in una sua nota rubrica come Le mur du çon , un muro che impedisce di vedere ciò che è utile e necessario alla “felicità”.
Lo scrittore francese Maxime Rovere si pone con umorismo, benevolenza e saggezza, una domanda che dà il titolo al suo libro, Que faire des cons? e nel fare ciò propone un nuovo metodo per pensare e curare questo flagello del nostro tempo, una malattia collettiva e un veleno delle nostre vite individuali.
Ce n’è di che impegnare il tempo e la vita di ognuno. Un impegno di questo genere può dare un senso alla vita di ogni essere umano. Il raggiungimento di tali obiettivi richiederà tempi lunghi che coinvolgeranno molte generazioni dato che il tempo in cui il “capitalismo” si è affermato è durato per millenni. Ma soprattutto sarà possibile abbattere il capitalismo se riusciremo a mobilitare davvero le moltitudini, non solo al seguito di “avanguardie” pur consapevoli e agguerrite, ma con una autentica e democratica auto-organizzazione dei cittadini per una lotta di lungo corso e non violenta, con lo scopo di creare modalità di produzione e stili di vita fondati sulla solidarietà e la cooperazione tra gli esseri umani e sulla salvaguardia del pianeta Terra per garantire la sopravvivenza del genere umano.
Anche se, come dice Pepe Mujica, non è cosa facile: «Una cosa è rovesciare un governo o bloccare le strade. Ma creare e costruire una società migliore è una questione completamente diversa, c’è bisogno di organizzazione, disciplina e lavoro a lungo termine». E continua: «Non ha senso frignare per le cose inevitabili. Le cose inevitabili vanno affrontate».
Ma abbiamo parlato di “lotta per il socialismo” in rapporto alla “felicità”; quindi dobbiamo essere più precisi e indicare alcune buone pratiche, scelte personali e stili di vita che rendano la “felicità” alla nostra portata nel corso sella nostra vita. Secondo le concezioni totalizzanti, ideologiche e teologiche, della realtà, ogni cosa e ogni processo risponderebbero a una legge di necessità e quindi, per esempio, nella società capitalistica del XXI secolo non ci sarebbe alcuno spazio per la “felicità” se non dopo che si è compiuta la vittoria della rivoluzione socialista. Ma la situazione non è questa; il mondo e la realtà non funzionano così. Il mondo infatti non è organizzato secondo un principio deterministico né tanto meno finalistico. I sistemi reali e in particolare quelli viventi, inclusa la società umana, si sono evoluti e hanno subito metamorfosi seguendo le leggi del caso dei sistemi complessi, cioè rielaborando e utilizzando materiali e idee disponibili e prodotte in epoche precedenti e adattandole, come si fa nel bricolage, alle nuove esigenze. Per questa ragione è sempre possibile elaborare strategie generali di “lotta per il socialismo” la cui validità dovrà essere continuamente sottoposta a verifica e nello stesso tempo sfruttare gli ampi spazi e possibilità che ogni società offre per realizzare le condizioni necessarie alla “felicità”. In realtà il desiderio delle oligarchie dominanti di dominare il mondo per asservirlo appartiene alla categoria dei desideri vani come li chiama Epicuro.
Siamo dotati di volontà e di libero arbitrio e possiamo così essere padroni della nostra vita e quindi costruire buone pratiche che costituiscono contemporaneamente obiettivi della “lotta per il socialismo” e nello stesso tempo le basi concrete su cui costruire “la felicità”.
Ne elenchiamo tre che sono tra le più importanti.
La prima buona pratica consiste nel vivere una vita sociale intensa, divertente e gioiosa e nel ricreare forti legami tra gli esseri umani, oggi distrutti dalla modalità con cui la società capitalistica si organizza e tende a organizzare la vita di ognuno. Per far questo è necessario creare associazioni e comunità di ogni tipo e farne parte, con gli scopi più vari: la natura e l’ambiente, la cultura e lo sport, il giardinaggio e la danza e via inventando; il tutto fondato su un forte legame di solidarietà, sulla condivisione, sulla cooperazione e sull’aiuto reciproco. L’essere membri di queste comunità fornirà la certezza che, in caso di bisogno, potremmo contare sull’aiuto degli altri membri della comunità. Questa certezza, indipendentemente dal fatto che si abbia bisogno o meno di ricorrere all’aiuto altrui, sarà per noi comunque una fonte di sicurezza. E al centro della nostra vita dobbiamo dunque mettere intense relazioni affettive che abbiano al centro l’amore: parola e sentimento fraintesi e abusati, messi ai margini della nostra esistenza per mancanza di tempo e di energia da dedicargli. Per questo – l’argomento è complesso e esiste una vasta letteratura socialista sull’argomento – ci limitiamo a suggerire un testo sull’argomento, reperibile sul web e scritto nel 1923 da Aleksandra Michajlovna Kollontaj, una rivoluzionaria russa di orientamento marxista e femminista, nata nel 1872 a San Pietroburgo e morta a Mosca nel 1952. Il titolo dello scritto di Alexandra Kollontai è Largo all’eros alato! Lettera alla gioventù lavoratrice. È uno scritto di cento anni fa ma i lettori saranno colpiti dall’attualità del pensiero socialista sull’argomento. Un altro testo interessante, scritto in francese, è L’erotisme et l’amour di Etiemble. Se qualcuno poi volesse approfondire l’argomento per capire quale è il rapporto tra l’erotismo e il cibo consigliamo la lettura di Ricette immorali dello scrittore catalano Manuel Vazquez Montalban, facendo seguire alla lettura l’esecuzione pratica di alcune delle ricette presenti nel libro.
La seconda buona pratica, strettamente legata alla prima per la natura essenzialmente sociale del modo con cui vengono prodotte e diffuse le conoscenze scientifiche, consiste nel rendere accessibili a ognuno le conoscenze acquisite dalle scienze naturali e dalle scienze umane, in modo che la nostra mente possa essere libera da pregiudizi e convinzioni errate così come dalle fonti di paure e di angosce prodotte nella società capitalistica per fini di controllo sociale. Questa accessibilità è possibile e facilitata dalla diffusione delle tecnologie digitali mentre tutte le altre abilità, tra cui quelle manuali, che non sono trasmissibili per via digitale, potranno essere trasmesse da una stretta collaborazione tra generazioni.
Un’ulteriore “buona pratica” che pure è una condizione necessaria per il raggiungimento dei precedenti obiettivi, è la messa in atto di ogni azione che renda la disponibilità di tempo libero sempre maggiore, in modo che ognuno possa fare liberamente ciò che più gli piace. In questo caso la “lotta per il socialismo” significa lotta per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Queste azioni accresceranno la libertà di ognuno e allo stesso tempo cementeranno i rapporti sociali, fondandoli di nuovo sull’altruismo, sullo spirito cooperativo, sulla philia. E questo potrà essere realizzato più facilmente in quanto dipende dalla nostra volontà e dal nostro libero arbitrio, come azione di resistenza per “sopravvivere al XXI secolo”.
La felicità
A differenza degli antichi Greci, che chiamavano la felicità con la parola eudaimonia e dei Romani che ne facevano l’oggetto centrale di ogni loro attività filosofica e pratica e la indicavano come lo scopo della vita di ogni essere umano, oggi il termine “felicità” è in disuso e viene sostituito con altri come la realizzazione delle proprie aspirazioni, il successo sia in campo economico che sociale o professionale: in ogni caso qualcosa che è legato a una visione competitiva della vita, qualunque cosa si intenda per competizione e che comunque è il risultato di un lavoro intenso e organizzato.
Se dovessimo definire la collocazione dell’idea di felicità nella cultura contemporanea ci troveremmo in serio imbarazzo. Nell’ambito della riflessione etico-politica, il concetto sembra appiattirsi sui suoi apparenti sinonimi, espressi da un vago edonismo e desiderio di ricchezza, mentre la fine dei grandi valori collettivi di libertà, uguaglianza e solidarietà e di pacifica convivenza tra gli uomini si è trasformata in un atteggiamento di rassegnata accettazione dell’infelicità del maggior numero. Ciò è legato alla moderna idea della felicità per pochi, frutto della combinazione dell’etica protestante con lo spirito del capitalismo, come è stato sostenuto da Max Weber. Il capitalismo nasce su un fondamento che è rappresentato quindi dall’etica protestante. Puntualizza Weber: «L’utilità di una professione, con la corrispondente approvazione da parte di Dio, si giudica in primo luogo secondo criteri etici, e in secondo luogo secondo l’importanza per la collettività dei beni che vi si producono; poi segue il terzo criterio, che naturalmente è quello praticamente più importante: il profitto economico privato».
Il profitto derivante dall’attività professionale è la riprova dello “stato di grazia” in cui l’individuo si trova: è infatti il lavoro, e il successo che ne consegue, ad assicurare al protestante che Dio è con lui, che egli è l’eletto e il predestinato. La ricchezza è quindi moralmente lecita e addirittura obbligatoria; diventa pericolosa solo se induce ad adagiarsi nell’ozio e a godere peccaminosamente della vita. Come il successo è per pochi, così per pochi è lo “stato di grazia”. E da questo momento circolerà l’idea che corrisponde a ciò che in modo un poco brutale viene chiamata la “felicità per pochi”.
Il XVIII secolo sarà l’ultimo nel quale la questione felicità dell’uomo sarà al centro della discussione filosofica e politica. Con la Rivoluzione francese e l’avvento al potere della borghesia, il tema della felicità verrà infatti rimosso. I due principali artefici di tale rimozione saranno i filosofi Kant e Hegel.
Per Kant l’obiettivo della felicità non può essere perseguito dal potere politico, né pensarsi inscritto nella perfettibilità della specie. Kant considera millenarista (dunque utopica e pericolosa) ogni teoria che congetturi la raggiungibilità di uno stato di quiete e felicità al di là del faticoso lavoro della ragione nella storia (Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, 1798). Dalla rappresentazione dell’Eden come inizio della storia umana si può trarre piuttosto l’idea che, come si dice in Inizio congetturale della storia degli uomini, «l’uscita dell’uomo dal paradiso, rappresentato dalla ragione come il luogo del primo soggiorno del genere cui apparteneva, non è stato nient’altro che il passaggio dallo stato di selvatichezza di una creatura semplicemente animale all’umanità, dal girello per bambini dell’istinto alla guida della ragione; in una parola: dalla tutela della natura allo stato di libertà. […] Per l’individuo, che nell’uso della libertà guarda solo a se stesso, questo cambiamento fu una perdita; per la natura, che nell’uomo indirizza il suo fine al genere, fu un guadagno».
Chi è consapevole di ciò abbandona il sogno infantile della felicità per impegnarsi nel lavoro della “cultura”, un lavoro secolare di emancipazione dai vincoli dell’istinto e dell’insocievolezza. La storia comincia dal male per procedere faticosamente e tortuosamente verso la libertà, e in questo cammino sognare la felicità è soltanto un pericoloso diversivo, un intralcio alla ragione.
Anche Hegel è contro il valore della felicità. In linea con Kant, Hegel afferma (Enciclopedia delle scienze filosofìche) che «la felicità ha il contenuto “effermativo” solo negli impulsi, ad essi è affidata la decisione; ed è il sentimento ed il capriccio soggettivo a dover stabilire in ultima istanza dove debba essere riposta la felicità».
La regola della felicità (kantianamente intesa come la totalità immaginata di ogni appagamento (Lineamenti di filosofìa del diritto) è l’arbitrio degli impulsi, cui si sottomette una razionalità puramente strumentale: l’uomo si affranca dalle passioni particolari, selezionando per sé, con un calcolo proiettato in una prospettiva di vita, ciò che ritiene migliore, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo (Propedeutica filosofica). Secondo Hegel, fino alla filosofia kantiana, «ogni morale, dai Greci ai moderni, si è fondata sul primato dell’eudaimonismo, della felicità».
Prima di Kant (Lezioni sulla storia della filosofia), «nel campo morale predominava […] la cosiddetta teoria della felicità: il concetto dell’uomo e il modo con cui egli deve realizzare questo concetto erano intesi nella morale come un appagamento dei suoi impulsi. Kant ha giustamente dimostrato che anche questo modo di vedere è eteronomia, non autonomia della ragione, una determinazione secondo natura, quindi senza libertà».
Se Kant e i giacobini hanno ritenuto di dover sostituire al dominio della felicità quello della virtù, è perché la storia non ha affatto il compito di realizzare la felicità degli individui.
Hegel può dirlo ora dal punto di vista della dialettica dello Spirito. «Felice si dice infatti colui che si trova in armonia con se stesso», colui che realizza la «sua particolarità». In Lezioni sulla filosofìa della storia si legge «Ma non si può pensare la storia dal punto di vista degli individui: la storia non è il terreno della felicità. I periodi di felicità sono in essa pagine vuote. Certo, nella storia del mondo c’è anche soddisfazione; ma questa non è ciò che viene chiamata felicità, perché è soddisfazione di esigenze tali che stanno al di sopra degli interessi particolari».
Giacomo Leopardi risponderà in modo sarcastico a queste affermazioni di Hegel con la sua famosissima affermazione contenuta ne La ginestra, che tutto, e quindi anche la felicità, può essere sacrificato alle magnifìche sorti e progressive dell’umanità. Una cosa è certa e cioè che “felicità” e “lavoro salariato” sono concetti e pratiche l’una opposta all’altra, e di questo alla fine parlano Kant ed Hegel.
Nel 2024 vari convegni si sono svolti sul tema se la felicità sia possibile ai nostri tempi e in quali modi sia dunque possibile raggiungerla. La cosa da sottolineare è che in questi casi non si parla mai del “capitalismo del XXI secolo”, quasi dando per scontato che alla società capitalistica non vi siano alternative possibili. Ma le idee espresse sono piuttosto confuse perché per felicità si intendono di volta in volta cose diverse, fino a parlare di qualcosa che non ha alcun senso, ossia della società felice o addirittura di paese felice. Un esempio rilevante di questo approccio è l’annuale Rapporto sulla felicità redatto dal Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite (Onu), presentato il 20 marzo 2024 in occasione della Giornata Internazionale della Felicità, che analizza il livello di felicità percepito dagli individui di oltre 140 paesi. Questo rapporto rileva, e questo già è sorprendente, come siano sempre i paesi del Nord Europa a primeggiare. Al primo posto troviamo, incredibile ma vero, la Finlandia.
L’Italia continua a perdere posizioni (41° posto), retrocedendo di ben 8 posizioni rispetto all’edizione precedente. L’idea è che la felicità possa essere promossa attraverso le politiche pubbliche e le azioni delle imprese e della società civile. Viene espressa la convinzione che la felicità e il benessere possono essere utilmente misurati in diversi modi, anche attraverso sondaggi sulla soddisfazione delle persone per la propria vita. Nel rapporto viene fatta una classifica dei paesi del mondo in relazione con la loro felicità. La classifica è fondata su un elenco di parametri, a ognuno dei quali viene assegnato un intervallo di valori numerici che poi vengono sommati. La somma 0 corrisponde a un paese infelice (unhappy) mentre la somma 10 corrisponde a un paese felice (happy). Il tema è quindi di grande attualità anche se il modo con cui viene affrontato è piuttosto discutibile per due ragioni principali: la prima è che la felicità si possa misurare attraverso parametri più o meno chiaramente definiti; la seconda è che si possa parlare di “paesi felici” quando ha invece senso parlare semmai di esseri umani e individui felici; dato che la felicità appartiene per ragioni ovvie alla sfera individuale e allo stato psicosomatico di ogni singolo essere umano, non riconducibile a quello degli altri esseri umani anche se a essi connesso.
C’è poi un altro aspetto importante che non viene mai preso in considerazione: il fatto che le moderne società “progredite e democratiche” sono le società nelle quali l’economia è organizzata secondo le regole e i principi del capitalismo finanziario fondato sull’ideologia neoliberista, un capitalismo pervasivo che ha finito per invadere e condizionare ogni aspetto della vita degli esseri umani fino a trasformarli in merce. L’ordine della realtà, i percorsi di vita, le leggi stesse dell’evoluzione dei viventi e dei loro ecosistemi si vorrebbero così sotto il controllo degli interessi economici capitalistici.
Si è fatta molta strada rispetto a quello che è stato, a cominciare da cinque millenni fa, il processo di appropriazione – il passaggio cioè dai commons alle enclosures, che è partito, se vogliamo dirla in altri termini, quando qualcuno ha detto “questo è mio” e “qui c’è mio” e gli altri gli hanno creduto – e accumulazione, in mano a individui o gruppi privati, della ricchezza disponibile, fosse quest’ultima già esistente o prodotta.
Parlare di “felicità” senza considerare questo contesto e quindi senza parlare di “lotta per il socialismo”, come si fa di solito in questi convegni e nei rapporti dell’Onu, è poco più di un interessante esercizio retorico anche se fondato su “rigorosi” metodi di indagine sociologica e statistica.
Non si accenna perciò nemmeno ai postulati su cui si fonda il neoliberismo, e in particolare a quel postulato che riguarda il consumatore. Secondo la teoria neoliberista il consumatore infatti non è mai sazio e con ciò è condannato alla perpetua insoddisfazione e quindi all’infelicità.
Serve ben altro approccio scientifico, sociale e culturale per dare a al termine “felicità” un valore di concretezza, per spogliarlo cioè di ogni significato trascendente e metafisico e per legarlo allo stato psicosomatico di ogni reale essere umano: qualcosa che coinvolge lo stato del nostro corpo come quello della nostra mente (psiche) e che quindi va considerato accessibile ad ogni essere umano nel corso della sua vita terrena, che è poi l’unica vita terrena che si ha a disposizione.
Questa attitudine tutta contemporanea a voler quantificare e magari formalizzare, usando i metodi della matematica e della statistica, ci sembra che poco si addica a un argomento come questo.
Se poi in più vogliamo estendere il tema della felicità dall’essere umano e dall’individuo umano singolo, per il quale essa ha un senso preciso, a tutta la società, e si vuol parlare di società felice, allora la cosa sembra avere ancora meno senso. Infatti, se si leggono attentamente i reports disponibili, si può costatare immediatamente che non vengono mai considerati in questi stessi reports i fattori sociali che rendono arduo il raggiungimento della felicità, i principali dei quali sono e sono sempre stati il desiderio di appropriarsi e di accumulare sempre maggiori ricchezze e potere, il desiderio di imporre la propria volontà e di prevalere sugli altri esseri umani e sulla natura, la paura della morte e di una condanna eterna e una vana aspirazione all’immortalità. Che l’organizzazione “capitalistica” dell’economia e della società possa fornire le condizioni per la felicità dell’essere umano è assolutamente da escludere: basta per questo elencare le condizioni quotidiane di vita e di lavoro che sono all’origine di stress, paure, incertezza e depressione (basta leggere gli annuari relativi alle malattie collegate a questi stati).
La felicità è possibile solo nel caso in cui si riesca ad organizzare la propria vita riducendo o rifiutando gli stili di vita e le modalità di produzione vigenti nella società capitalistica.
L’amore dei gatti
Perché l’amore dei gatti? Il gatto è l’unico animale che divide la sua vita con l’uomo e che non serve a niente. Per lo scrittore triestino Claudio Magris Il gatto non fa nulla, semplicemente è come un re.
La storia che caccia i topi è stata inventata da lui; in realtà il gatto è un buongustaio e il suo pasto preferito sono gli uccellini e le carni di macelleria. Il topo al massimo viene usato dalle gatte per educare i gattini alla caccia. Il gatto è dunque l’animale anticapitalista per antonomasia: niente del gatto può essere trasformato in merce. Infatti non produce niente di utile per l’uomo.
In realtà il gatto non fornisce nessuna materia prima utilizzabile, non fa alcun lavoro utile, né quelli faticosi né quelli che richiedono le sue particolari qualità di sensibilità e di intelligenza. Quindi non può essere sfruttato né addomesticato o meglio, come osserva l’attore americano Bill Dana, «mi era stato detto che l’addomesticamento con i gatti è molto difficile. Non è vero. Il mio mi ha addomesticato in un paio di giorni».
Il gatto fa solo quello che gli piace. Un modello di libertà? Sì, di nuovo secondo il pensiero di Pepe Mujica: «essere liberi è passare la maggior parte del tempo della nostra vita a fare quello che ci piace».
Molti hanno sottolineato il carattere libertario del gatto. Il poeta anglo-americano Thomas Stearns Eliot ha scritto Old Possum’s book of pratical cats, tradotto in italiano con il titolo di Il libro dei gatti tuttofare; è il libro da cui è stato tratto uno dei più famosi musical del mondo, Cats di A.L. Webber e T. Rice. Due sono le poesie più famose: la prima, che è dedicata da Eliot ai gatti, è Il Nome dei Gatti – The Naming of Cats; e la seconda, Come rivolgersi a un gatto – The addressing of cats. Ruyard Kipling nel suo libro The Cat that Walked by Himself (Il gatto che se ne andava da solo) sottolinea il carattere libertario del gatto e la sua capacità di prendersi cura di sé stesso e insieme di «far ridere il cucciolo dell’uomo». Anche Pablo Neruda scriverà una Ode al gatto: «Il gatto/soltanto il gatto/apparve completo/e orgoglioso:/nacque completamente rifinito/cammina solo e sa quello che vuole».
Su questo aspetto insiste Sir Harry Swanson il quale è convinto che «non è possibile possedere un gatto. Nella migliore delle ipotesi si può essere con loro soci alla pari».
Il gatto è maestro di vita secondo la scrittrice americana Suzy Becker che ha scritto un libro intitolato All I Need to Know I Learned from My Cat tradotto in italiano nel 2009 con il titolo Tutto quello che devo sapere l’ho imparato dal mio gatto. 137 pillole di saggezza felina. La cosa è confermata dal pastore evangelista Robert Stearns che ritiene che «poiché ognuno di noi ha una sola vita, perché non decidere di passarla con un gatto?».
Il gatto è inoltre associato alla felicità. La giornalista televisiva americana Jane Pauley sostiene che «è impossibile guardare un gatto che dorme e sentirsi nervosi». Il rapporto del gatto con la felicità è sottolineato anche dal poeta francese Guillaume Apollinaire in una poesia intitolata Le chat nella raccolta Bestiaire ou Cortège d’Orphée del 1911 il cui testo è: «Je souhaite dans ma maison: /Une femme ayant sa raison,/Un chat passant parmi les livres,/ Des amis en toute saison / Sans les quels je ne peux pas vivre» (Mi auguro di avere in casa mia: / una donnaprovvista di buonsenso, / un gatto che passeggi in mezzo ai libri/ e degli amici per qualsiasi tempo/senza i quali non posso vivere).
L’attrice e scrittrice Chiara Francini in una recente intervista a «Vanity Fair» dichiarava esplicitamente che la felicità consiste per lei nell’essere circondata dai suoi tre gatti mentre scrive i suoi testi, i libri e le pièces che poi rappresenterà in teatro. E queste sono solo alcune delle cose che sono state dette sui gatti. Inoltre il rapporto tra il gatto e l’uomo può essere usato per illustrare un concetto molto importante che gli antichi Greci indicavano con il termine philìa. Infatti il rapporto di philìa si fonda in un primo momento su un principio di utilità reciproca, in quanto il gatto chiede all’uomo poche cose (come cibo, un luogo dove ripararsi e vivere pacificamente e lontano da eventuali pericoli e una lettiera sempre pulita); e l’uomo chiede al gatto compagnia e affetto che il gatto prontamente è in grado di donare con abbondanza di manifestazioni. Non solo ma lo scambio importante avviene sul fatto che il gatto impone all’uomo il rispetto dei bioritmi che naturalmente danno all’uomo una sensazione di forte benessere, riavvicinandolo alla sua prima natura in perenne conflitto con la sua seconda natura, che è un prodotto della sua storia sociale e culturale.
Questo rapporto che inizialmente è utilitaristico si trasforma rapidamente in un rapporto di amicizia e di amore disinteressato, un rapporto per l’appunto di philìa. Detto questo dobbiamo chiederci: che cosa c’entra questo con la felicità e la lotta per il socialismo? Ebbene le due cose, cioè la felicità e la lotta per il socialismo, sono tra loro connesse e intrecciate.
La lotta per il socialismo ha ovviamente come obiettivo e scopo fondamentale quello di creare le condizioni affinché ogni essere umano possa essere felice nel corso della sua vita e non solo dopo che sarà sorto il “Sol dell’Avvenire”. La felicità è del resto questione individuale e non collettiva.
Non esistono le società felici, bensì esistono gli individui felici, almeno per quello che qui si intende per felicità. Possiamo parlare tutt’al più di comunità di esseri umani felici. Si sa però anche che la lotta per il socialismo dovrà essere permanente dato che la società umana è composta da esseri viventi e in quanto tale risponde alle leggi che regolano i sistemi complessi. In altri termini, ciò significa che ogni azione, in tal caso rivoluzionaria o riformatrice, che verrà prodotta dalla e sulla società umana, produrrà dei cambiamenti i cui esiti futuri sono imprevedibili.
La gestione dei cambiamenti non previsti né prevedibili sarà quindi il compito principale della lotta per il socialismo e poiché qualsiasi futuro non si costruisce facendo tabula rasa del passato – il passato non è un palinsesto, cioè non è scritto su una pergamena che si cancella per riscriverci il futuro – sarebbe più appropriato usare la parola metamorfosi anziché quella di rivoluzione. Mao Tze Tung riconosceva questo fatto osservando che i nostri nipoti avrebbero sorriso leggendo i nostri programmi politici, sociali ed economici. In realtà era un po’ ottimista, poiché a ben guardare la realtà come si presenta oggi si ha l’impressione che, nonostante gli enormi cambiamenti e l’enorme livello produttivo della tecnologia e della scienza, i problemi di fondo siano rimasti gli stessi delle invocazioni pronunciate dalle folle medievali durante le processioni; cioè sembra proprio che siano ancora tempi non molto diversi da quelli di allora, dominati da fame, peste (chiamata oggi pandemia) e guerra. Quindi la lotta per il socialismo non può non considerare l’aspetto fondamentale costituito dal raggiungimento delle condizioni per la felicità degli esseri umani, soprattutto in una fase storica in cui sembra che questa possibilità si allontani sempre più dall’orizzonte della vita di ogni essere umano. Non solo, ma ci sembra anche che in prima fila nella lotta per il socialismo dovrebbero esserci donne e uomini felici, coloro cioè che conoscono le ragioni profonde del loro impegno quotidiano.
La libertà e le buone pratiche per la felicità
Wim Wenders, nel suo bellissimo film Perfect Days, ci mostra come si possa essere felici anche in una megalopoli come Tokyo e come un lavoratore dipendente della The Tokyo Toilet, addetta alla pulizia delle toilettes pubbliche della città, possa avere una vita ricca di poesia, di quotidiani momenti di piacere, di molteplici curiosità e interessi e di buone relazioni umane.
Pepe Mujica, che è stato contadino e guerrigliero nelle file marxiste dei Tupamaros, detenuto per 15 anni in isolamento ma uscito senza rancore e con parole di pacificazione per l’Uruguay, che lo ha eletto presidente dal 2010 al 2015, nel primo discorso che ha pronunciato al suo insediamento ha parlato del diritto alla felicità: «Io devo lottare per migliorare la vita delle persone. Non farlo è immorale». E contro il suo nemico assoluto, la società dei consumi, ha detto: «Veniamo al mondo per tentare di essere felici, perché la vita è breve e non torna. Ma se il nostro tempo lo impieghiamo lavorando e lavorando per consumare cose che durano poco, se ne va la vita. Fate attenzione, le cose non le compriamo con i soldi, ma con il tempo della vita, l’unica cosa che non possiamo comprare».
Nello stesso modo si esprimeva, più di due millenni fa, il filosofo greco Epicuro, fondatore ad Atene di una scuola filosofica nel giardino – Képos – della propria casa: «Una sola volta si nasce, né più si rivivrà, e dovremo non essere più in eterno; tu però, che non sei padrone del tuo domani, rimandi la felicità, così la vita nell’indugio vanamente trascorre, ed ognuno di noi muore senza fermarsi mai».
Bisogna in ogni caso fissare un punto fermo relativo agli obiettivi della lotta per il socialismo: gli obiettivi debbono essere sempre commisurati con quanto la loro realizzazione renda più concreto e più facile il raggiungimento della felicità per ogni essere umano. Si può fare un esempio molto concreto. La disponibilità di tempo libero, in primo luogo rispetto a tutte quelle attività indispensabili per procurarci il necessario per vivere, viene vista da chi è vissuto considerando il lavoro come la parte centrale della sua vita, come un salto nel vuoto e la fine di ogni senso positivo della vita stessa. Per questo il riconoscimento dell’importanza del tempo libero e del Diritto all’ozio come scriveva Paul Lafargue, così come la capacità di saperlo usare nella giusta maniera per migliorare la qualità della nostra vita e quindi per la nostra felicità, è un obiettivo della lotta per il socialismo.
Anche su questo potete imparare dal vostro gatto. Infatti in qualunque situazione data il vostro gatto si organizzerà per rendere ogni momento della sua giornata il migliore possibile, costringendo anche voi a godere dei momenti di relax in sua compagnia, magari stando accovacciato sulle vostre gambe seduto in poltrona.
La moderna psicanalisi ha fatto proprio un modello dell’essere umano simile a quello che abbiamo definito in questo scritto e fondato sulla teoria dei sistemi aperti. Si è cominciato a parlare infatti di Scienza del bendessere come di una serie di pratiche fisiche e psichiche che possono condurre l’essere umano in uno stato psicofisico nel quale si sente pienamente riconciliato con il proprio essere e con la propria vita.
La parola bendessere non è quindi un errore di stampa bensì un neologismo inventato da Vittorino Andreoli, psichiatra e componente della New York Academy of Sciences, per indicare una nuova disciplina che «analizza, produce e promuove il benessere» inteso come percezione mentale del proprio essere e tale da porsi in contrasto con il dominio dei sintomi, delle malattie e della medicina. È questo l’argomento del suo volume La nuova disciplina del bendessere. Vivere il meglio possibile. La nuova disciplina vuole infatti costruire una vita positiva dove il bene si relaziona con il buono e persino con il bello e non mira alla rimozione di un danno ma promuove qualità. Infatti egli puntualizza: «La salute può essere una precondizione favorevole al raggiungimento del benessere, ma, paradossalmente, non è necessaria, poiché si può raggiungerlo anche se persiste un disturbo».
Andreoli non si limita a una trattazione teorica di una condizione esistenziale che coinvolge il corpo, la mente e la società, ma fornisce per ciascuno di tali ambiti gli strumenti per vivere meglio. In relazione alla “mente” si citano aspetti che possono avere valenza positiva o negativa, a seconda se siano provati in eccesso o in misura adeguata: desideri, preoccupazioni, speranze, autoironia, humour, autostima, equilibrio, senso di colpa, capacità di resistere alle frustrazioni, fiducia. Riguardo alla “dimensione sociale”, la trattazione riguarda gli aspetti della relazione (e della socialità), il conflitto (presupposto della diversità e, quindi, anche dell’amore), il bilancio frustrazioni- giustificazioni, la maschera (ognuno di noi ha un volto e alcune maschere) e la determinazione (l’agire nel mondo).
Circa il “corpo” Andreoli esamina i concetti di presenza e assenza (maggiore o minore attenzione alla propria corporeità), l’esercizio (e la sedentarietà), il riposo, la sessualità, la vivacità (o voglia di vivere).
Nel complesso il bendessere comporta il sentirsi accettati, l’avere un senso ed è fortemente correlato ad altre due grandi tematiche: l’alimentazione e la bellezza.
Noi preferiamo seguire un’altra strada per integrare la definizione di felicità partendo da Epicuro. Epicuro è vissuto in un periodo molto simile al nostro, un’epoca convulsa e di transizione. Il sistema delle polis era stato definitivamente distrutto dall’azione di Alessandro Magno e della monarchia macedone, il mondo ellenistico era sconvolto da guerre continue tra le monarchie dei diadochi tra i quali fu suddiviso l’impero alessandrino. Bisognava ricostruire allora dalle fondamenta una visione dell’essere umano e della società che fossero capaci di indicare una prospettiva di vita felice nel nuovo contesto cosmopolita dell’oikoumene. L’interesse centrale della filosofia di Epicuro è dunque per la condizione umana così come si è evoluta nel corso della storia del mondo.
«Principio e bene supremo è l’intelligenza delle cose, perciò tale genere di intelligenza è anche più apprezzabile della stessa filosofia».
Viene abbandonata nel suo pensiero la visione di una polis rispetto alla quale soltanto ogni essere umano poteva trovare il senso della sua vita e del suo essere, per cui si era esseri umani solo in quanto cittadini della polis. L’essere umano di Epicuro assomiglia più a quello definito da Edgar Morin di quanto non somigli a quelli definiti da Platone e Aristotele.
Per Epicuro l’importante è infatti partire dalle certezze che abbiamo riguardo alla realtà fisica ultima del mondo circostante, fatto di atomi e di vuoto. Queste certezze si basano sulla percezione complessiva che abbiamo come esseri viventi (e non come coscienza astratta), della realtà, essa stessa vivente, di cui siamo parte integrante. Esse sono il risultato dell’evoluzione del genere umano e della società e si trovano espresse nel linguaggio che dell’evoluzione è il prodotto “naturale”. Il materialismo di Epicuro può essere visto allora come un materialismo pratico e una filosofia della “prassi”: il nostro rapporto vivo con il mondo ci apre alla sua comprensione e noi lo comprendiamo solo nella misura in cui siamo attivi in esso, guidati dal nostro interesse vitale, dal bisogno intenso della nostra “natura” (physis) e garanti della densità della realtà.
Questi bisogni trovano in noi espressione sotto la forma del linguaggio e costituiscono la forma elementare di prenozioni che ci permettono di cogliere la realtà, compresa la nostra realtà, in modo sempre più concreto. Epicuro intende le prenozioni come le certezze sulla realtà di ciò che è (il tutto è / è composto da corpi e vuoto / i corpi sono a loro volta composti da atomi); mentre una volta stabilite queste certezze, le sensazioni (aisthesis) e le affezioni (pathos) si pronunciano successivamente sulla verità di ciò che viene percepito. Epicuro fonderà questa nuova visione sulla filosofia atomistica (non una fisica) fondata sull’idea di certezza, in sostituzione a quella di verità assoluta e rinnovata da un principio indeterministico per il quale l’aggregarsi degli atomi in corpi e il loro disgregarsi non risponde a nessuna legge universale ed eterna ma dipende solo dal caso.
Troviamo in questa visione espressa in forma elementare la trilogia disordine, ordine, organizzazione/aggregazione/formazione di aggregati di atomi e vuoto che governa la realtà dei mondi. Gli infiniti mondi possono essere simili o diversi dal nostro. Conseguenza di questa visione è il nostro libero arbitrio, la nostra possibilità di scegliere la vita che vogliamo. Dobbiamo comunque essere consapevoli che insieme al libero arbitrio sono presenti nella nostra vita la necessità e il fato. In altre parole, pur in condizioni storiche e sociali segnate da eventi e situazioni tragiche, rimane sempre aperta la possibilità – (le possibilità sono sempre molteplici) – di essere felici.
Non esistono leggi assolute ed eterne che determinano la vita dell’universo e la nostra. Ancora Epicuro: «Questo genere d’uomo sa anche che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode. Dobbiamo inoltre ricordarci che il futuro non è interamente nelle nostre mani, ma in qualche modo lo è, anche se in parte. Quindi non dobbiamo aspettarci che si avveri del tutto, ma non dobbiamo neppure disperare che esso non si avveri affatto».
E anche in questo caso Epicuro parte da una certezza e da quello che viene chiamato argomento della culla. In cosa consisteva questo argomento? È molto semplice, intuitivo ed elementare. L’argomento è fondato sulla “certezza” che noi fuggiamo il dolore e cerchiamo il piacere fino dalla culla cioè dal momento in cui siamo nati. E consideriamo rispettivamente il dolore come il male e il piacere come il bene.
Infatti Epicuro concludeva allora che il piacere è il fondamento (arché) e lo scopo ultimo (télos) della vita felice. Infatti nella Lettera a Meneceo, nella quale Epicuro tratta della “felicità”, il concetto è spiegato dettagliatamente: «E per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto come bene primo a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere e del dolore. È bene primario e naturale per noi, per questo non scegliamo ogni piacere. Ci sono casi in cui conviene tralasciare alcuni piaceri, quando da questi può venirci più male che bene; e giudicare alcuni dolori preferibili ai piaceri stessi, se un piacere più grande possiamo provare dopo aver sopportato i dolori per molto tempo. Ogni piacere, per sua intima natura, è dunque un bene; ciò non di meno, noi non li scegliamo tutti alla stessa stregua. Allo stesso modo ogni dolore è un male, ma non tutti sono sempre da evitare. Bisogna valutare gli uni e gli altri. Ciò in base alla commisurazione e alla considerazione di quello che giova e di quello che non giova. Infatti certe volte sperimentiamo che il bene si rivela per noi un male, invece il male un bene».
Il piacere però in cosa consiste? Epicuro distingue il piacere che dura, come stato psicosomatico permanente, dai piaceri e le gioie della vita il cui godimento è di breve durata.
Naturalmente i due piaceri sono strettamente collegati. Si tratta nel primo caso del piacere di vivere, della felicità di vivere, in una condizione del nostro essere psicosomatico che consiste nell’avere la mente, l’anima (psyche) libera da paure, da angosce e dal senso di insicurezza (ataraxia) e il corpo (soma) libero dal dolore (aponia).
I due termini ataraxia e aponia vengono di solito tradotti come “assenza di angosce, di paure nella mente (psyche)” il primo e come “assenza di dolore nel corpo (soma)” il secondo.
I due termini starebbero a indicare due processi riguardanti la mente e il corpo in modo completamente individualistico e passivo. E così sono stati interpretati da chi pure aveva un’alta considerazione del pensiero di Epicuro, come Arthur Shopenauer e Karl Marx, per il quale il discorso epicureo sull’ataraxia finisce con l’isolare l’uomo da quel mondo nel quale l’uomo è chiamato a integrarsi in tutto e per tutto.
Marx perviene alla conclusione che «l’assolutezza e libertà dell’autocoscienza è il principio della filosofia epicurea, anche se l’autocoscienza è concepita solo sotto l’aspetto dell’individuale».
In realtà, l’ataraxia è possibile solo in quanto l’essere umano è membro di una comunità di esseri umani il cui legame sociale, fondato sulla philìa, garantisce un aiuto e una cooperazione certa per la soddisfazione dei bisogni naturali e necessari, per la liberazione della mente da angosce e paure attraverso lo studio della filosofia: del resto questo è anche l’ambito sociale in cui si generano le “certezze” che sono a fondamento della nostra vita. Ciò implica un’altra dimensione essenziale delle “certezze”, poiché presuppone non una percezione personale e intima della realtà basata sulla ripetizione di un’evidenza sensibile immediata, ma al contrario uno scambio sociale sulla realtà stessa a cui si riferiscono le parole della lingua condivisa. Ciò non esclude la ripetizione di un’esperienza ma include questa ripetizione nello scambio di esperienze. La stessa tesi negativa su Epicuro viene sostenuta da chi dava un giudizio negativo di questo pensiero come per esempio Hanna Arendt. Se questa fosse la corretta traduzione il problema della felicità sarebbe facilmente risolto con psicofarmaci, droghe e antidolorifici, così che la vita felice coinciderebbe con uno stato psicosomatico, anestetizzato, di assenza di ogni sensazione e percezione della realtà interna ed esterna in ogni essere umano. Il senso profondo quindi non può essere questo. Infatti la natura dell’essere umano per Epicuro è fondata sui sensi, in quanto l’essere umano sente, l’essere umano è sensibilità. L’ataraxia epicurea quindi non è l’insensibilità bensì è la sensibilità felice, lo stato di sensibilità senza dolore. Non solo – e la cosa non viene mai sufficientemente sottolineata – ma l’ataraxia epicurea è resa possibile dall’esistenza di una comunità di esseri umani il cui legame sociale è fondato sulla phylia. Su questo Epicuro scrive: «Di tutti i mezzi che la saggezza ci procura per vivere felici, il più importante è la philìa».
È attraverso la comunità epicurea, un modello di società alternativo alla società della polis, che l’essere umano acquisisce certezze e sicurezze e si libera dalle paure e dalle angosce. Si tratta del resto di una nuova utopia concreta già realizzata in epoche precedenti della storia dell’Homo Sapiens, e che è pensata per essere estesa a tutto il genere umano. E la conferma è in questa altra frase: «La philìa percorre danzando la terra, recando a noi tutti l’appello di aprire gli occhi sulla felicità».
La parola felicità in greco è indicata con la parola eudaimonia composta dei due termini eu, che vuol dire “bene” e daimon che vuol dire “demone”: essere felici significa perciò essere guidati da un demone buono. L’infelicità, kakodaimonia, è quindi legata a cattivi – kakos – demoni che Epicuro individua principalmente nel demone del dolore fisico, in quello della paura che genera odio e infine nel demone dell’insicurezza, prodotti dai conflitti, dalla violenza e dalla guerra che distruggono ogni certezza e producono dolore e sofferenza; nel demone dei desideri e bisogni “ vani, tra i quali quello più pericoloso è il demone dell’appropriazione e dell’accumulazione della ricchezza e del potere.
Non si può essere più chiari di quanto Epicuro scrive: «la ricchezza secondo natura ha dei limiti ben precisi e beni facilmente procacciabili, ma quella secondo le vane opinioni (i bisogni vani) non ha alcun limite».
Pepe Mujica parlava e operava contro un mondo che cresce nell’ingiustizia, nella diseguaglianza, nei conflitti, imprigionato dalla religione del denaro che distorce tutto moltiplicando il numero degli esclusi: «Viviamo in un mondo nel quale si crede che chi trionfa debba possedere tanto denaro, avere privilegi, una casa grande, tanti servitori. Mentre io penso che questo modello vincente sia solo un modo idiota di complicarsi la vita. Penso che chi la passa ad accumulare ricchezze, sia malato come un tossicodipendente, andrebbe curato».
Il piacere duraturo (catastematico), che consiste nel sommarsi dei due stati di ataraxia e di aponia, è dunque il risultato di un processo di liberazione, attraverso l’esercizio del nostro libero arbitrio individuale ma anche attraverso l’azione sociale, dai demoni elencati del dolore fisico e psichico, dalle paure e dall’insicurezza. Il risultato di questa nostra azione individuale e sociale conduce a uno stato duraturo di felicità di vivere, a uno stato psicosomatico attraverso cui ogni essere umano percepisce la sua vita scorrere in armonia con se stesso, con la natura e con la comunità degli altri esseri umani; infatti rappresenta uno stato di massima intensificazione e potenziamento dei nostri sensi e della nostra affettività e insieme a un forte senso di meraviglia verso il mondo e la vita. Il termine aponia potrebbe essere tradotto più modernamente con il concetto di benessere metabolico.
E come ci spiega la patologa Antonella Viola nel suo ultimo libro Il tempo del corpo, la regola numero uno per raggiungere e mantenere lo stato di benessere metabolico è dormire almeno otto ore per notte. Quindi se nel XX secolo la lotta per le otto ore di lavoro al giorno ha significato un grande risultato nel miglioramento della qualità della vita dei lavoratori, nel XXI secolo la conquista del diritto a almeno otto ore di sonno a notte rappresenterà un nuovo passo nella conquista di una qualità della vita sempre migliore per tutti e deve costituire uno degli obiettivi concreti della “lotta per il socialismo”. Anche in questo il gatto, che può dormire fino a sedici ore al giorno, è lì a dimostrare la giustezza e correttezza del suo approccio alla vita.
E il bisogno di otto ore di sonno per notte appartiene a quelli che Epicuro chiama bisogni naturali e necessari per la vita, come lo sono il bisogno di dissetarsi, di nutrirsi, di vestirsi, di avere un riparo confortevole, una casa dove rifugiarsi e così via. Bisogni questi che sono facili da soddisfare e per i quali serve poco; e il poco, come si sa, è sempre abbondante. A questo proposito Pepe Mojica ha sempre sostenuto che «non sono povero, sono austero perché voglio la mia libertà e voglio avere il tempo per godermela. Non mi piace la povertà, mi piace la sobrietà e mi piace avere un bagaglio leggero. Vivere meglio non significa avere tanto, ma essere più felici».
Di nuovo anche per Epicuro: «la povertà commisurata al limite della natura – ossia al piacere della sazietà – è una grande ricchezza, mentre la ricchezza che non trova confini è enorme povertà».
Una vita “frugale” mette così in discussione la logica perversa della produzione capitalistica che sfrutta l’ambiente per produrre cibo e oggetti di sempre più bassa qualità e sviluppa agglomerati urbani e megalopoli dove la vita è sempre più difficile e travagliata; e in più, crea continuamente insoddisfazione promuovendo stili di vita che si possono mantenere con enorme spreco di energia e di tempo. Una vita “frugale”, specie se unita a una dieta mediterranea o addirittura vegetariana accresce, come sostiene l’oncologo Umberto Veronesi nel suo libro La cucina vegetariana, le nostre potenzialità mentali e fisiche. Provare per credere.
Infatti la condizione di conquista del piacere catastematico costituisce la base necessaria per godere pienamente delle gioie e dei piaceri passeggeri di cui è piena la vita. Per esprimere questo concetto lo scrittore Andrea Camilleri aveva usato un’espressione molto efficace. L’oste Enzo, al cui ristorante va sempre a mangiare il commissario Montalbano, un giorno lo vede che non sembra avere molto appetito e gli chiede le ragioni di questa insolita disappetenza. Montalbano spiega allora che è preoccupato per un’inchiesta che si trova in un vicolo cieco. Alla qual cosa, Enzo risponde: «Panza e minchia non vogliono pensieri».
Questo discorso è stato ampiamente frainteso in una società come l’attuale, abituata alla mortificazione dei sensi e alla repressione dell’affettività. Se, come dice Freud, si deve pagare un prezzo non modesto per rendere possibile la “civiltà”, si deve altresì confessare che la condizione umana sembra ben misera. Se poi si comincia a elencare tutto quello che di disastroso ha prodotto la “civiltà occidentale”, allora è lecito cominciare a dubitare che tale sacrificio abbia semplicemente un senso. Per Epicuro «non aver fame, non aver sete, non aver freddo è la voce della carne: infatti, chi ha queste cose e chi si aspetta di conservarle in futuro gareggia persino con Zeus in felicità».
Dal canto suo, anche l’ “epicureo” Pepe Mujica aveva perfettamente capito cosa fosse necessario fare per rendere possibile la felicità di ogni singolo essere umano e aveva dedicato il suo tempo per coltivare fino all’ultimo la proposta di legge su misura del suo mondo capovolto, che prevedeva le cinque libertà e cioè la libertà dalla fame, dalla sete, dal dolore, dalla paura, dalla costrizione. La “lotta per il socialismo” potrà, e anzi dovrà, ispirarsi a questi principi e in quanto tale verrà e verrebbe associata sempre più alla realizzazione della “felicità” per ogni essere umano nel corso della sua vita. E potrà allora scegliere come bandiera una bandiera rossa che rechi al centro l’immagine di un gatto nero che fa le fusa: la bandiera del gattocomunismo.





