di Massimo Jasonni
Ci sono parole che il mondo moderno ha escluso dal vocabolario corrente, o, comunque, ha assunto in termini vieppiù negativi. Il Postmoderno, l’attualità sono venuti al seguito e hanno così finito per rimuovere, in via definitiva, tali parole. Censura ne è un esempio tipico.
Oggi una mera proposta di censura, o anche solo una pallida idea del censurare è, se è consentito un gioco di parole, di per sé censurabile: il verbo evoca non una critica costruttiva, ma una biasimevole repressione intellettuale, in sostanza si traduce in un’intollerabile violazione della libertà.
Ma forse è il caso di ripensarci su, raccogliendo alcune indicazioni della filologia e della storia.
Censura, da censeo – censēre, indica una catalogazione, che nella Roma antica fu iscrizione di popolo nei registri: attività talmente significativa sul piano civile, da indurre all’instaurazione di un’apposita magistratura. Più nel dettaglio, census ricorre sin dalle origini regie, poi consolari del mondo latino: Livio ne dice con riferimento ad alti giureconsulti, dediti all’arte militare, quindi in età matura degni delle mansioni complesse della classificazione demografica1. Parliamo di un ufficio pubblico non a caso a termine2, in genere non ripetibile e con connesse competenze amministrative e finanziarie. Semanticamente la nobiltà istituzionale è iscritta nello stesso censēre: ove traspare un giudizio maturo, un opinamento razionale e responsabile, per conseguenza l’espressione di una proficua discrezionalità operativa.
L’attenzione romanistica al problema si innestava, in realtà, su tradizioni filosofiche risalenti: perché già Platone nella Repubblica e nelle Leggi aveva ricondotto il controllo politico di tipo censorio al principio di sovranità3. Non è questa la sede per entrare nel merito del fervore della riflessione platonica; basti qui rilevare che la censura proclamata, nei dialoghi, da Socrate giunge sino all’affermazione dell’intollerabilità di manifestazioni del pensiero e di forme di comunicazione offensive dell’educazione dei giovani e preclusive di un sano sviluppo della vita sociale4.
Altri problemi insorgono con l’avvento delle religioni monoteistiche e, più in particolare, con l’instaurazione di un cristianesimo costantiniano, divenuto instrumentum regni. Il depauperamento dell’ottica naturalistica classica e l’ingresso in campo di una teologia dogmatica offrono, anche in forza di reminiscenze bibliche5, nuovi equilibri al rapporto tra autorità pubblica e vita dei cittadini. Con censura non si tratta più di mera catalogazione amministrativa, e nemmeno di generico apprezzamento disciplinare di condotte soggettive, ma di vera e propria vigilanza sulle scelte religiose, morali e sociali. De fide vel moribus, detterà il Concilio di Trento6. L’ufficio cui è demandato il controllo non è più una magistratura “laica”, ma il vescovo, o altra autorità ecclesiastica dal vescovo delegata. Epí scopos: colui che guarda dall’alto e al fondo delle cose: il supervisore, il controllore della fede.
Con Graziano e la decretistica l’ordinamento canonico non dimentica il retroscena romanistico, ma ne muta profondamente il volto. Anche l’istituto in parola modifica i suoi tratti essenziali: assume una veste doppia, da un lato di controllo pastorale, ovvero preventivo della devianza, d’altro lato di sanzione giuridica, ovvero di effetto penale discendente dall’accertamento di fatti riprovevoli. Nascono congregazioni: prima la Congregazione dell’Indice, poi Santo Uffizio, fattosi oggi Dottrina della Fede. Vanno all’indice i libri proibiti, tra i quali, non ultimi, quelli di Niccolò Machiavelli.
Ecco il profilo odioso della censura: la ragione per cui il mondo moderno reagisce al dogmatismo religioso medievale e alla conseguente, tanto più grave quanto più diffusa repressione delle eresie. Le filosofie illuministiche e il pensiero liberale lottano contro queste forme di intolleranza per affermare uno spazio volterriano del pensiero, entro cui le scienze positive, per un verso, e la coscienza personale, per altro verso, siano libere di esprimersi. Detta alla maniera del Candide, ciascuno sia signore e padrone nel giardino della propria anima. Nessuno si permetta di censurare le meravigliose sorti, e progressive della conoscenza e dell’interiorità.
È logico, quindi, che “censura” ci venga oggi come sinonimo di perversione. Non solo perché essa costringe, limitando lo sviluppo delle dissonanze e, in particolare, delle esperienze artistiche, ma anche perché una censura ci appare foriera, in ogni caso, di insindacabilità, di cieca, acritica riprovazione. La psicoanalisi porterà acqua a questo mulino: confinerà ogni clericalismo e ogni paternalismo autoritario nella germinazione patologica di disturbi mentali.
Quanto accade ora, entro quel fenomeno complesso e non privo di inquietudini ambientali planetarie che è il Postmoderno, suggerisce una rilettura della dimensione semantica profonda dell’antico verbo. Le televisioni propongono – ormai non più in qualche occasione, ma di continuo – modelli esasperatamente diseducativi. Basti pensare a Beautiful o a Grey’s Anatomy, e ancor prima a uno sterminio di cartoni animati, reality show, talk show, o affini volgarità più o meno tutte in onda in orario di massima audience, senza alcun riguardo per gli universi adolescenti. Basti pensare alla pubblicità, e in particolare alla reclamizzazione di giocattoli per bambini, nell’ora della cena, o di medicinali, rispetto ai quali il consulto medico non è ormai nemmeno più clausola di stile. Il discorso si allarga anche ai dibattiti sedicenti politici, mistificati quanto a “democrazia” per la presenza di pluralità di voci, in realtà non a caso futili e artatamente chiassose.
Bisogna ritornare alla censura? No, certamente, se per censura si intende ciò che essa rappresentò per l’Inquisizione e per l’assolutismo statale che ne corse parallelo. Sì, certamente, se si torna a far studiare sui banchi di scuola cosa censura poté rappresentare nella paganitas. La cultura greco-latina è ancor oggi viva, e ci insegna che l’antidoto socratico alle prepotenze economiche e militari viene da una paideia che educhi al controllo: ovvero alla capacità e all’energia del giudizio etico. Censura, da tradursi sul piano legislativo non solo in prevenzione, ma anche in effettiva vigilanza giuridica, penale e civile, contro la corruzione dei costumi e contro l’annichilimento del pensiero.
Chi sarà mai il censore? A chi potrà mai essere affidata, ai giorni nostri, la magistratura censoria?
L’interrogativo appare a prima vista imbarazzante, giacché è chiaro che non si potrà ricorrere a nomine politiche, né ci si potrà avvalere di recenti novelle, quali quelle adottate in tema di Csm. In realtà, la risposta è semplice: nel nostro paese il documento censorio c’è già: è la Carta costituzionale. E i magistrati censori ci sono già, al volgersi delle vicende politiche: sono Corte costituzionale, Corte dei conti e Consiglio di Stato, ciascuno nel campo delle proprie specifiche competenze.
La Costituzione esige il rispetto di un parametro, da un lato, di «capacità» e di «meritevolezza» e, d’altro lato, di economicità e di proporzionalità nell’attribuzione delle cariche pubbliche. Quei parametri valgono anche, e tanto più, per i direttori delle reti e per i conduttori dei programmi televisivi pubblici o, comunque, indirizzati al pubblico. Né è un caso che il dettato costituzionale preveda la nomina di 1/3 dei membri della Corte da parte di quel supremo garante che è il presidente della Repubblica.
L’oscuramento del Grande Fratello (vip o de noantri), o dell’Isola dei famosi, per fare due esempi oltre quelli citati e tra i molti altri possibili, non sarà oscurantismo, ma luce per i nostri occhi.
1 IV, 8.
2 Così si passò dai primitivi cinque anni a una Lex Aemilia del 435 a.C., riducente il periodo a 18 mesi. All’inizio il censore fu uno, poi si giunse alla instaurazione di un collegio di più censori. Anche l’iterazione della censura fu rara e, comunque, vista con sospetto.
3 Rep., 376 ss., 595a ss., 605a ss.; Leg., 801c ss.
4 Rep. 398a.
5 In effetti, un primo caso di censura è rinvenibile già in Ger., 36, 1-26.
6 Recepito e formalizzato dalla Costituzione dogmatica di Pio IX Pastor aeternus, IV.