Isisdi Lanfranco Binni

Delle origini in Iraq e in Siria dello «Stato islamico», finanziato e armato dagli Stati Uniti, e sottotraccia da Israele, per disgregare lo Stato siriano con l’obiettivo strategico di attaccare l’Iran ed eliminare due importanti retrovie di sostegno al popolo palestinese, ormai sappiamo tutto. È lo stesso Obama, nella recente intervista del 19 marzo, a riconoscere il ruolo statunitense nella nascita dell’Isis, sia pure attribuendola alle conseguenze della guerra irachena di Bush e sottraendosi alle responsabilità della sua presidenza. Sappiamo anche che l’Isis, strumento del capitalismo senile occidentale e delle sue strategie geopolitiche, svolge oggi un ruolo di attrazione di soggettività radicali nei paesi arabi e nei paesi occidentali, innestando sul disegno eterodiretto dinamiche diverse e più complesse le cui radici affondano nei processi di esclusione sociale nei paesi arabi e di islamofobia e razzismo nei paesi occidentali: contro il neocolonialismo l’odio per l’Occidente, contro lo «Stato ebraico» lo «Stato islamico», contro i simboli del «moderno» integralismo occidentale i simboli di un integralismo islamico delle origini, contro le tute arancione dei prigionieri di Guantanamo le tute arancione dei prigionieri dell’Isis, contro le tecniche e i mezzi della comunicazione occidentale il loro impiego con contenuti opposti e speculari. Ma l’aspetto principale dell’Isis, nonostante l’attrazione di giovani guerriglieri in parte estranei a motivazioni di ordine religioso, resta la sua funzione di disgregazione terroristica degli assetti geopolitici nelle sue aree di intervento, al servizio delle strategie occidentali di creazione del caos che giustifichino gli interventi successivi delle potenze «democratiche».

Insomma, l’Isis è stato un ottimo investimento produttivo. Come ha detto lo storico israeliano Ilan Pappé in una recente intervista a «il manifesto» (18 febbraio), «Lo Stato islamico è la miglior cosa che potesse capitare a Israele. Con il califfato si risolleva la voce di coloro per i quali esiste un solo Stato illuminato in Medio Oriente, Israele, baluardo contro l’avanzata dell’estremismo islamico. Spero che in occidente la gente non cada nel trucco: non si tratta di uno scontro di civiltà, ma di giustizia sociale e modelli democratici di integrazione. Basta guardare a come l’Isis attira giovani musulmani europei andando a pescare tra i gruppi più oppressi e marginalizzati. Non stiamo parlando di una questione culturale e religiosa, ma sociale ed economica: se in Europa si assistesse a una trasformazione democratica, se si impedisse a ideologie razziste e pratiche capitaliste di determinare l’esistenza della gente, gruppi come l’Isis non troverebbero spazio».

In realtà lo Stato islamico non è «capitato» a Israele, che fin dall’inizio ne sfrutta le opportunità, e la galassia delle formazioni «radicali» è notoriamente infiltrata, da sempre, dal Mossad. Il risultato delle recenti elezioni, con il rafforzamento della destra oltranzista di Netanyahu, accentuerà la politica di guerra del governo israeliano, contro ogni prospettiva di Stato palestinese, contro l’Iran, per la destabilizzazione dell’intera area araba.

Apparentemente l’Isis e la galassia delle formazioni terroristiche conducono la loro guerra contro l’Occidente e il sionismo, ma in realtà i bersagli degli attentati sono tutti all’interno del mondo arabo e musulmano, dalla Siria allo Yemen, dalla Libia alla Nigeria, in nome di una presunta ortodossia da difendere dall’Occidente; gli attentati di Parigi e di Tunisi hanno altre dinamiche, sono conseguenze della propaganda della «guerra santa» nei settori sociali emarginati delle metropoli, nella tradizione della controviolenza anticoloniale, della guerra da portare in casa al nemico; fu questa la risposta del Fronte di liberazione nazionale algerino, negli anni sessanta del Novecento, al terrorismo dell’Oas. Ma anche su questo piano di violenza e controviolenza (e a questo proposito bisogna rileggere Frantz Fanon, I dannati della terra) la didattica del terrorismo dell’Isis non ha rivolto le sue campagne militari al principale fattore di instabilità nell’intero mondo arabo, la fortezza israeliana. Quando lo farà, se lo farà, sarà per lo «Stato ebraico» un ottimo pretesto per attaccare i suoi nemici, i palestinesi e l’Iran.

Ascoltiamo ancora Obama, nella sua intervista del 19 marzo: «Se l’Isis venisse sconfitto, il problema di fondo dei sunniti resterebbe. Quando un giovane cresce senza prospettive per il futuro, l’unico modo che ha per ottenere potere e rispetto è diventare un combattente. Non possiamo affrontare tutto ciò con l’antiterrorismo e la sicurezza, separandoli da diplomazia, sviluppo ed educazione». È una clamorosa inversione della strategia statunitense, dalla liquidazione del governo iracheno di Al Maliki (alla vigilia di accordi economici e non solo con la Cina e con la Russia) in poi, probabilmente da collocare nel quadro della politica interna in previsione delle elezioni presidenziali, ma anche dovuta al fallimento dell’intervento contro la Siria e alla perdita di controllo dell’Isis e di tante altre formazioni qaediste e jihaidiste, peraltro in difficoltà nel principale terreno di scontro tra Iraq e Siria, grazie soprattutto al nuovo protagonismo iraniano. La strategia statunitense del caos è ingovernabile e produce conseguenze sociali e culturali molto più pericolose delle azioni militari del «califfato» e dei suoi concorrenti. Commenta Ramzi Baroud, direttore di «Palestine Chronicle»: «L’Isis va visto non solo come un movimento alieno al più vasto mondo politico del Medio Oriente, ma anche come un fenomeno in parte occidentale, il ripugnante riflesso delle avventure neocolonialiste nella regione, accompagnate dalla demonizzazione delle comunità musulmane nelle società occidentali». E questo è il punto.

La strategia del caos, avviata il 19 marzo 2011 con i bombardamenti aereonavali Usa/Nato sulla Libia, e con il sostegno (documentato da una nota inchiesta del «New York Times») ai gruppi armati islamici combattuti dal governo di Gheddafi, anche in quest’area ha prodotto una situazione fuori controllo che mette in pericolo gli interessi neocoloniali occidentali. Un intervento militare sul campo, sia pure appoggiato su uno dei due governi in lotta tra loro, in un proliferare di bande armate «islamiste» o semplicemente anticolonialiste, non avrebbe altro risultato che rafforzare il fronte antioccidentale; a poco servirebbe ancorare l’intervento al «governo di Tobruk» e al suo Esercito nazionale libico diretto da un agente della Cia, il generale Khalifa Haftar, rinviato in Libia dalla Virginia. Le farneticazioni militariste del governo italiano, lo schieramento aereonavale al largo delle coste libiche, le dichiarazioni velleitarie e irresponsabili di intervento diretto con uomini e mezzi, è soltanto un corollario del caos, determinato dalla ridicola volontà di potenza di un sistema politico in crisi di legittimazione che spera di farla franca anche grazie a un’avventura militare al buio; un nemico esterno, un fattore di paura, è sempre utile (pensano i nostri strateghi) sia sul piano internazionale (il «prestigio dell’Italia») sia, soprattutto, interno. E questo è un altro punto.

Banda stretta, miccia corta. Concentrare il potere decisionale in un’area sociale ristretta (ne parlava già Leopardi) presenta certamente dei vantaggi: le complicità tra consorterie economiche, decisori politici e gestori amministrativi si fanno più stringenti; gli strumenti della comunicazione sociale unidirezionale dall’alto in basso trovano un’efficace coerenza in campagne mirate di asservimento dei sudditi consumatori; la normale dinamica di esercizio del «biopotere», la gestione e il controllo delle vite dei singoli, si militarizza chiamando in causa nemici interni ed esterni, mette a frutto le reti attive, corruttive e criminali, di consenso sociale, e coinvolge un intero paese negli scenari geopolitici. Sono i vantaggi di un’oligarchia storicamente debole e stracciona. In assenza di strategie anticapitaliste (perché sempre e soltanto di questo si tratta) tutto appare possibile, in una corsa malthusiana al rafforzamento del regime oligarchico e delle sue reti di potere. Quando poi, come accade nel nostro paese, la tradizione profonda del fascismo si coniuga con la retorica della «modernità» (anche questa un’eredità del fascismo) su un terreno di programmata ignoranza delle classi subalterne (distruggendo la scuola pubblica, devastando i diritti costituzionali), le magnifiche sorti e regressive di una banda di gerarchi possono apparire irrefrenabili. Naturalmente è la farsa che segue la tragedia. L’estrazione di classe dei nuovi gerarchi è medio-bassa, piccolo-borghese (anche questo nella tradizione del «sovversivismo» dei gruppi dirigenti fascisti), l’ignoranza è una virtù, contano solo il potere e i soldi (quasi sempre coincidono), l’importante è vincere («Vincere!») e rimuovere con maschia e giovanile determinazione («Giovinezza, giovinezza!») ogni ostacolo alla «modernizzazione», alle «riforme». È una corsa contro il tempo, bisogna «fare» in fretta, per due ragioni principali. La prima: l’assetto democratico disegnato dalla Costituzione inattuata del 1948, la «costituzione formale» inattuale rispetto alla «costituzione reale» contrabbandata dal teppismo berlusconiano e poi «democratico», deve essere «riformato» secondo le modalità e i tempi stretti imposti dall’Unione europea a direzione tedesca e dal Fondo monetario internazionale; per tutti i paesi del Sud Europa il modello strategico di riferimento è il paesaggio sociale devastato della Grecia. La seconda ragione della fretta è strettamente legata alla prima: nel conflitto geopolitico che oppone l’area atlantica Europa-Stati Uniti all’asse Russia-Cina in una corsa al posizionamento rispetto al dominio delle aree strategiche, all’Italia è riservato un ruolo di intervento attivo nel Nord Africa, in particolare in Libia, e in Medio Oriente a sostegno di Israele. Naturalmente il quadro è complesso e contraddittorio, tutt’altro che lineare: la campagna di cooptazione dell’Ucraina condotta dall’Unione europea e dalla Nato è sostanzialmente fallita, rafforzando la Russia; la guerra contro l’Isis, testa di ponte statunitense per disgregare la Siria e attaccare l’Iran, sta rafforzando proprio l’Iran in prima linea nei combattimenti contro l’Isis, mentre resiste il governo siriano; in Libia, la prospettiva di un intervento occidentale sta suscitando nuove dinamiche anticoloniali tra i gruppi del disgregato Stato libico, accentuate dall’intervento militare del governo filo-occidentale dell’Egitto.

L’Italia, grazie alla «banda stretta» di un governo liberista, espressione di una forte minoranza degli elettori nonostante le fandonie comunicazionali di un Pd al 41% (in realtà poco più del 20% degli aventi diritto al voto) che si presenta come «Partito della Nazione» senza alcuna alternativa possibile, è oggi coinvolta in questo pericoloso quadro strategico; le politiche di destra (in economia, nel sociale, sulla questione dell’immigrazione) di un partito nato con un elettorato di centrosinistra favoriscono lo sviluppo delle culture xenofobe e razziste, dell’islamofobia, della subalternità servile ai piani atlantici ed europei. La «banda stretta» è profondamente corrotta, insofferente a ogni controllo, in conflitto permanente con il potere costituzionale della magistratura: all’Expo 2015 potrà esporre i mandati di cattura. È la nostra casba in cui si aggirano furfanti di ogni risma, di ogni classe e di ogni età, la piramide interclassista del malaffare, delle complicità tra truffatori e truffati, tra politicanti e miracolati, tra ricchi e poveri. È la solita vecchia Italia del fascismo, tra futurismo (ah, la modernità!), culto del capo, servilismo, sopraffazione, propaganda, sovversivismo delle classi dirigenti, oggi «democratiche» e neodemocristiane. Il morbo assicura l’esercizio del potere e il controllo di un paese privo di rappresentanza politica, costretto all’astensionismo elettorale.

Ma la «banda stretta», la concentrazione del potere in un’area ristretta di malaffare sostanzialmente delegittimata, comporta anche il suo isolamento: i suoi figuranti sono pienamente visibili, i suoi comportamenti sempre meglio riconoscibili e perseguibili politicamente. In parlamento, gli eletti del Movimento 5 Stelle hanno imparato a svolgere un ruolo attivo di opposizione puntuale e di controinformazione all’esterno. Nella società, l’opposizione sociale comincia a cercare un terreno di «coalizione» dal basso delle diverse e diffuse esperienze di movimento, per avviare processi di ricomposizione di un mondo del lavoro frantumato dal liberismo e dalla distribuzione del reddito dalle classi popolari e dal ceto medio verso l’«alto» (si fa per dire) dei potentati economici, le questioni della «democrazia», della «legalità», dell’«eguaglianza», dei «beni comuni», dell’unità di lotta tra «italiani» e «stranieri», si stanno ponendo come le questioni fondamentali su cui ricostruire dal basso processi politici e culturali nella prospettiva del superamento dell’arcaico modo di produzione capitalistico e delle sue derive finanziarie. L’«altra Europa» della Grecia e della Spagna (ma i movimenti si stanno sviluppando nella stessa Germania) è vicina, il terreno di lotta e di collegamenti è questo. Quanto alla guerra, come insegnò Brecht, «Al momento di marciare molti non sanno / che alla loro testa marcia il nemico. / La voce che li comanda / è la voce del loro nemico. / E chi parla del nemico / è lui stesso il nemico». Sappiamo che cosa dobbiamo fare. E lo sanno le centinaia di rappresentanti di tutto il mondo riuniti a Tunisi nel «Forum sociale mondiale» alla fine di marzo, un altro passo avanti sulla strada di un’altra storia.