di Giancarlo Scarpari
[Questo articolo è stato pubblicato sul numero 5 de Il Ponte – maggio 2014]
Lanciando i «mille club Forza Silvio», a Roma, nel mese di dicembre 2013, l’allora Cavaliere Berlusconi aveva accompagnato l’evento con una narrazione del suo impegno ventennale in difesa della libertà e con la descrizione dei quattro colpi di Stato con cui la sinistra, due presidenti della Repubblica e una magistratura politicizzata l’avevano, per questo, ingiustamente perseguitato. Da allora il canovaccio sarà ripreso più volte, con alcune variazioni interne, ma nell’edizione confezionata per la propaganda (La guerra dei 20 anni. Diagnosi di quattro colpi di Stato) la ricostruzione di questa lunga fase della storia italiana, lungi dal costituire la riflessione politica di colui che, in questo ventennio, più di ogni altro era stato alla guida del paese, si rivela impietosamente come la maldestra memoria difensiva di un imprenditore plurinquisito per numerosi reati, prescritto più volte e condannato alla fine per una colossale frode fiscale.
La narrazione parte da lontano. «Si è cominciato nel ’64 con la costituzione di Magistratura democratica, una corrente della magistratura di sinistra vicina al Pci». Poi, con un rilevante salto temporale, «si è continuato con la cancellazione nel ’93 dell’art. 68 della Costituzione», norma scritta per «evitare che gli eletti dal popolo, e con essi la democrazia e la libertà, fossero senza difesa contro l’uso politico della giustizia»; di qui le rovinose conseguenze: «Tangentopoli fu un golpe in guanti di velluto […] Mani Pulite è stata la prima volta (sic!) in cui la democrazia è stata sospesa nel nostro paese».
Gli altri due «colpi di Stato» avevano visto protagonisti i presidenti della Repubblica, Scalfaro nel ’94 (quando, utilizzando la «falsa accusa» mossa a Berlusconi dai magistrati di Milano per le tangenti alla Guardia di Finanza, aveva «convinto» Bossi a «far cadere il governo eletto dal popolo») e Napolitano nel 2011 (quando il presidente della Repubblica, «che già da giugno organizzava un governo tecnico» aveva, in autunno, a sua volta, «convinto» Berlusconi a rassegnare le dimissioni).
Infine, l’attacco diretto della magistratura: «La quarta azione contro la democrazia è stata completata nel corso dell’ultimo anno (Md + Pd). In primo luogo è stato perfezionato il metodo giudiziario. Visto che i P.M. non bastavano a garantire le condanne, si è pensato di comporre anche i collegi giudicanti con magistrati tutti di sinistra, tre su tre». In particolare nel processo sui diritti Mediaset, persino la Cassazione si è schierata contro l’imputato, sottraendolo al suo giudice naturale, assegnando il suo processo alla «cosiddetta sezione feriale […] composta ad hoc con giudici “giusti”, così da pervenire, in tempi brevi, a una sentenza di condanna».
Questa la diagnosi dei quattro colpi di Stato, formulata in prima persona dallo stesso Berlusconi; nel canovaccio questa volta non compare la Corte costituzionale, quella «composta da 11 giudici di sinistra» e ciò per non richiamare alla memoria le leggi ad personam che l’imputato si era fatto confezionare e che proprio quella Corte aveva annullato; per il resto era la litania di sempre, una lettura meramente giudiziaria delle vicende italiane, fatta da un condannato sedicente vittima di un complotto, che, partito dai P.M. e da Md, aveva coinvolto nel tempo giudici di tribunale, dell’appello, della Cassazione e che, da ultimo, era culminato con la condanna della vittima designata.
In questa sede non interessa sottolineare come si tratti di una versione di comodo, a tratti risibile, completamente avulsa dalla realtà, scandita da ricostruzioni fantasiose e persino contraddittorie (su queste pagine se ne è parlato tante volte e non vale più la pena di tornarci sopra). La diagnosi contenuta nella “guerra dei venti anni” è invece qui rilevante perché evidenzia con quale spirito e con quali comportamenti pratici il condannato abbia accompagnato la richiesta di essere affidato ai servizi sociali per poter estinguere il residuo di pena rimastagli.
Ma c’è dell’altro: in vista dell’udienza fissata davanti al Tribunale di Sorveglianza, Berlusconi ha innestato l’ennesimo tormentone, pretendendo di continuare ad avere la piena agibilità politica, rivendicando benemerenze passate e soprattutto presenti (il suo nuovo ruolo di Padre costituente) e ottenendo così un incontro con Napolitano; e, sulla sua scia, Rotondi, autoproclamatosi premier di un governo “ombra” (sic!), ha chiesto pubblicamente al presidente della Repubblica di intervenire presso i giudici della Sorveglianza perché fosse concessa «a Berlusconi la libertà di far politica e da protagonista». Peccato, però, che proprio a quei giudici, pochi giorni prima, avesse fatto riferimento lo stesso interessato, quando nel corso di un incontro tenutosi a Palazzo Grazioli con esponenti del suo partito, si era lamentato di «dover dipendere da una mafia di giudici che il 10 aprile mi diranno se devo andare in galera, se mi mettono agli arresti domiciliari o se mi mandano a fare non so che servizio sociale».
Non si trattava di un’esternazione incauta o furtivamente carpita (la registrazione veniva veicolata sui media da un fedelissimo presente alla riunione); per meglio chiarire il suo pensiero, infatti, lo stesso Berlusconi, il 24 marzo, telefonava al Club Forza Silvio di Padova, rilanciava lo slogan dei quattro colpi di Stato e ampliava il concetto: «siamo di fronte a una dittatura giudiziaria»; e pochi giorni dopo, nel confermare l’alleanza con l’estrema destra di Storace, chiudeva il cerchio: «siamo al capitolo finale di quella che è stata definita la guerra dei vent’anni. Ogni regola di giustizia è stata calpestata per eliminare attraverso il braccio giudiziario della sinistra l’avversario che non si è riusciti a battere con i mezzi della democrazia».
Tutte queste esternazioni venivano minimizzate dai media (sono le solite dichiarazioni di Berlusconi che «non fanno notizia»), ignorate dalle altre forze politiche (discutere delle malefatte dell’ex cavaliere fa perdere voti) e accolte da un’opinione pubblica abituata da anni a considerare gli insulti sistematici alla magistratura come una delle modalità del “normale” agire politico del Grande Comunicatore.
La campagna mediatica del condannato conosceva però una sosta il 10 aprile, quando i magistrati del Tribunale di Sorveglianza si riunivano per decidere se applicargli la detenzione domiciliare o affidarlo invece ai servizi sociali; al termine della camera di consiglio sceglievano la seconda soluzione, accogliendo la sua richiesta di scontare il residuo della pena mediante lo svolgimento di attività di tipo vario («si pensa a mansioni di animazione o, nei limiti del possibile e compatibilmente con le sue condizioni di salute, di assistenza») in favore di persone anziane ricoverate presso la Fondazione Sacra Famiglia di Cesano Boscone; il tutto per un impegno complessivo «di circa quattro ore settimanali».
Il compito dei magistrati non era stato facile: si era trattato infatti di «adattare e reinterpretare misure alternative alla detenzione, in origine pensate dal legislatore per soggetti disadattati socialmente» a un soggetto addirittura «iperintegrato» e appartenente a un contesto sociale molto elevato (così infatti l’incipit dell’ordinanza). Situazione resa ancora più delicata dal fatto che il condannato non solo era un «iperintegrato», ma aveva anche ricoperto per quattro volte il ruolo di presidente del Consiglio dei ministri (e così questa macroscopica anomalia della politica era finita ancora una volta per scaricarsi sul tavolo dei magistrati); senza considerare che questa decisione dei giudici cadeva nel bel mezzo di una campagna elettorale e il partito del condannato aveva chiesto a gran voce che la sanzione fosse meramente simbolica.
Tuttavia, sotto il profilo tecnico, le linee interpretative offerte dalla giurisprudenza in materia erano sufficientemente chiare. «Punto di partenza» doveva essere l’esame della «personalità dell’autore del reato, valutata altresì alla luce della tipologia e della gravità del reato commesso». Ebbene, sul punto, il giudizio già formulato dai giudici della Cassazione, riportato nell’ordinanza, era stato netto e circostanziato: Berlusconi, infatti, nella vicenda in esame, aveva svolto il ruolo «di direzione e di ideatore di un’attività delittuosa tesa a una scientifica e sistematica evasione di portata eccezionale» e aveva rivelato una sua «particolare capacità a delinquere nell’esecuzione del disegno, consistito nell’architettare un complesso meccanismo fraudolento, ramificato in infiniti paradisi fiscali, con miriadi di società satelliti e conti correnti costituiti esclusivamente in funzione del disegno delittuoso».
Il Tribunale della Sorveglianza si limitava ad aggiungere che «le condotte illecite reiterate nel tempo» dimostravano «una insofferenza del colpevole alle regole dello Stato poste a tutela della ordinata e civile convivenza», ma riteneva che l’accertata pericolosità del condannato fosse nel tempo «scemata» e ciò per «la condotta tenuta in libertà dal Berlusconi dopo la condanna».
Quale era stata questa condotta? L’aver versato la provvisionale di 10 milioni di euro liquidata in sentenza a favore dell’Agenzia delle Entrate e pagato le relative spese, da un lato e, dall’altro, la disponibilità dimostrata dal condannato di voler intraprendere un percorso di volontariato. Tutto qui; non molto per la verità, visto che, per un miliardario, si trattava di spiccioli e che le somme evase negli anni, con la frode, riguardavano importi di gran lunga superiori; e la scelta di voler assistere gli anziani, lungi dall’essere un sicuro indice «di volontà di recupero dei valori morali perseguiti dall’ordinamento», costituiva solo il presupposto necessario per poter accedere alla richiesta misura alternativa.
E poi? L’ordinanza, per valutare più complessivamente «la personalità dell’autore del reato», dava conto dei processi che ancora pendevano a suo carico (il c.d. Ruby, per concussione aggravata e per l’utilizzo della prostituzione minorile ex art. 600 bis c.2 c.p. e quello attualmente in corso a Napoli per corruzione, e cioè per la c.d. compravendita dei senatori), nonché del processo di recente conclusosi con l’ennesima dichiarazione di prescrizione, dopo che in primo grado Berlusconi era stato condannato a un anno di reclusione (si trattava dell’abusiva pubblicazione su «Il Giornale» della nota telefonata di Fassino, non trasmessa al titolare dell’inchiesta, ma consegnata direttamente da un collaboratore infedele ai fratelli Berlusconi in vista della campagna elettorale del 2006). Dopo aver elencato questi processi, i giudici, indicate le date dei commessi reati, tutte risalenti nel tempo (dal 2005 al 2010), non avevano però espresso sul punto valutazioni di sorta ed erano subito passati ad altro: eppure, terminato di frodare il fisco nel 2004, il condannato negli anni successivi, lungi dal mostrare “segni di resipiscenza”, aveva posto in essere comportamenti che i magistrati di Milano e Napoli avevano ritenuto gravemente delittuosi; e tutto questo ben doveva essere valutato, se si voleva illuminare ulteriormente «la personalità dell’autore del reato».
Rimaneva il problema più spinoso, quello degli attacchi alla magistratura, questi sì di data recente, reiterati, come si è visto, sino alla vigilia dell’udienza. A tale proposito l’ordinanza riportava alcuni brani della memoria difensiva, soffermandosi su di uno in particolare. «La valutazione della personalità dell’istante […] non dovrà essere influenzata dalle dichiarazioni riportate dai media, estrapolate dai contesti in cui furono rese e spesso frutto di “botta e risposta” più che di riflessioni personali». Una tesi sorprendente: a quali episodi di “botta e risposta” gli avvocati facevano infatti riferimento? Non si sa; è noto invece che gli attacchi insultanti alla magistratura non sono mai stati il frutto di sortite improvvise o estemporanee, bensì la manifestazione concreta di una strategia comunicativa, ribadita ossessivamente negli anni, di cui la lunga “riflessione” sui quattro colpi di Stato è stato solo l’ultimo, ma assai significativo, esempio.
I magistrati del collegio accolgono, nella sostanza, il suggerimento dei difensori. Ritengono sì di «dover accennare […] alle recenti esternazioni pubbliche fatte dal condannato nei confronti della Magistratura»; le qualificano esattamente come «dichiarazioni offensive e notorie che manifestano spregio nei confronti di questo ordine, ivi compreso questo Collegio, dichiarazioni contestate in aula dal Procuratore Generale»; le inquadrano correttamente «nell’ambito della strategia politica di un uomo che di tali esternazioni ha sempre fatto uno dei suoi cavalli di battaglia»; e tuttavia, giunti al momento di decidere, sospendono ogni giudizio di merito e rapidamente concludono: «Il Tribunale non reputa, allo stato, di dover ritenere oggetto di apprezzamento [questa strategia], proprio per le sue connotazioni avulse dal contesto strettamente giudiziario e risultanti da fonti aperte, estranee agli atti oggetto della presente valutazione»; e dispone, di conseguenza, l’affidamento in prova, escludendo la detenzione domiciliare, poiché la sua «valenza meramente afflittiva» impedisce al condannato di potersi «attivare per la sua rieducazione».
I conti non tornano. Se le offese ai giudici sono notorie, se sono il cavallo di battaglia della strategia politica del condannato e se, come riconosce il Tribunale, «potrebbero inficiare quegli indici di resipiscenza» indicati all’inizio, perché, per il momento (?), il collegio si astiene dal valutarle? Quella strategia non è «avulsa dal contesto strettamente giudiziario», come ritengono i giudici, ma, al contrario, ai processi di Berlusconi è indissolubilmente legata, essendone anzi una reazione e una diretta conseguenza; e comunque, una volta sospeso il giudizio sulla strategia, non si vede perché non considerare almeno le ultime dichiarazioni insultanti rese dal condannato in prossimità dell’udienza («La mafia dei giudici che il 10 aprile mi diranno, ecc.»), visto che queste, lungi dall’essere “avulse”o derivanti “da fonti aperte”, si riferiscono proprio al procedimento in corso e sono state anzi contestate in aula.
Ma tant’è: il giudizio viene sospeso e, sulle eventuali trasgressioni – il condannato, una volta iniziata l’esecuzione con l’affidamento ai servizi sociali, dovrà «mantenersi nell’ambito delle regole della civile convivenza, del decoro e del rispetto delle istituzioni» – il Tribunale prenderà poi le sue valutazioni e solo se lo richiederà il Giudice di Sorveglianza. Staremo a vedere.
Nel frattempo Berlusconi è stato restituito ai suoi fedeli. È incandidabile, ma il suo cognome compare con evidenza nel simbolo di Forza Italia; una settimana dopo l’udienza è tornato a parlare dei quattro colpi di Stato e di «sentenza mostruosa»; le sue invettive contro i presidenti della Repubblica e contro la magistratura contenute nella Guerra dei vent’anni continuano ad apparire sul sito del partito; i direttori di rete si contendono la sua presenza per la rituale invasione televisiva in vista delle elezioni. Dunque tutto come prima, o quasi.
D’altra parte, per la destra l’ex Cavaliere è, per il momento, insostituibile; che a condurre una campagna contro il governo delle tasse sia l’autore riconosciuto di una «scientifica e sistematica evasione di portata eccezionale» incoraggia lo zoccolo duro dei suoi elettori e non disturba i candidati degli altri partiti, che, come sempre, si guardano bene dal far notare la singolare situazione.
Del resto, dei tre soci fondatori, non rimaneva che lui: Previti, dopo la condanna, è stato il primo a essere “rieducato” dai servizi sociali e si è allontanato dalla politica attiva; Dell’Utri, ideatore dei circoli del partito, si è allontanato invece dall’Italia e attende, da latitante, una decisione della Cassazione che lo riguarda; Berlusconi, ormai anziano tra gli anziani, si appresta dunque ad affrontare Grillo e il giovane Renzi, prepara monologhi televisivi e telefonate ai club Forza Silvio e solo spera che qualche fidato collaboratore, come l’agente Betulla, che con Brunetta anima il mattinale del partito, una settimana prima del voto estragga dal cappello un qualche coniglio che sia in grado di farlo risalire nei sondaggi.