di Rino Genovese
Anzitutto una precisazione: non intendo riferirmi al piccolo partito denominato Sinistra italiana, quanto alla sinistra politica nel suo insieme, in Italia particolarmente frammentata. Quale la caratteristica della congerie di sigle che si agita al di fuori del Pd – considerando che questo sia un partito di centrosinistra, come si autodefinisce, o semplicemente di centro come sarebbe più corretto definirlo? È la mancanza di una caratterizzazione ideologica il tratto dominante, e a suo modo unificante, della sinistra italiana oggi – un’area che pure varrebbe il 10% circa dell’elettorato. Si va da alcuni residui del vecchio Partito socialista craxiano, che da tempo non si capisce più che cosa siano, fino a una manciata di partiti comunisti, tra cui spicca la ormai usurata Rifondazione. In mezzo, naturalmente, i fuoriusciti dal Pd, con il nome piuttosto anodino di “Articolo 1 – Movimento democratico progressista”, e quelli di Sinistra italiana con la maiuscola, che di recente hanno conquistato il record di un congresso costitutivo che ha dato vita a un’immediata scissione.
Nessuno di questi gruppi e movimenti politici sembra avere un’idea di quale sarebbe la sua finalità ultima – se si escludono le sigle comuniste che, da parte loro, hanno la presunzione di essere tutte le meglio piazzate per promuovere l’avvento del comunismo sulla terra. Ci si divide, e ci si logora, sul modo di presentarsi alle prossime elezioni (che, a questo punto si è capito, si terranno nei primi mesi del 2018), con non si sa ancora quale legge elettorale. Se dovesse restare nella sostanza quella uscita dagli interventi della Corte costituzionale, sarebbe sufficiente il 3% dei voti per ottenere una rappresentanza alla Camera; per quella al Senato, ci vorrebbe invece l’8%, che appare un miraggio ai più, ma eventualmente soltanto il 3% se ci si coalizza in un’alleanza elettorale che arrivi almeno al 20%. È sufficiente questa possibilità per far pensare a qualcuno che sia necessario un accordo, magari puramente elettorale, con il Pd di Renzi. Già , ma per fare che cosa? Si potrebbe ipotizzare semplicemente questo: per diventare centrali in parlamento, ottenere un piccolo potere di coalizione, impedendo le “larghe intese” e spostando la situazione a sinistra… Potrebbe anche essere una tattica, se non una strategia, ma poi – ancora – per fare che cosa?
Da tempo l’orizzonte appare sfocato. La situazione generale del resto non incoraggia, sotto questo profilo, alcun ottimismo. Ormai la ripresa economica è arrivata: gli indicatori dei paesi europei segnalano una crescita del Pil e una relativa diminuzione della disoccupazione, ma – se si esclude il Labour di Corbyn, che sta però in una Gran Bretagna ormai fuori dall’Europa – i partiti del socialismo europeo sono in una crisi che si direbbe pressoché irreversibile (si pensi a quello che è accaduto in Francia con le ultime elezioni che vedono il Partito socialista ridotto a trenta seggi, una quarantina se si calcolano gli alleati). D’altronde l’ipotesi di rilanciare una sinistra radicale nello stile di Podemos urta con il fatto storico che una formazione come quella spagnola è nata da un autentico e diffuso movimento sociale di protesta contro la crisi, non certo da una decisione a tavolino. Se si esclude il piccolo Portogallo, dove una coalizione tra socialisti, comunisti, ecologisti e nuova sinistra, è riuscita a formare una maggioranza parlamentare, non si vedono altre situazioni virtuose a sinistra. Perfino Syriza, in Grecia, nata a sua volta come una coalizione tra diversi gruppi, ha deluso molti. Dunque, quale la prospettiva generale entro cui dovrebbe iscriversi una sinistra italiana rinnovata?
Lo dico nel modo più semplice: l’orizzonte sarebbe quello di un graduale superamento del sistema capitalistico in direzione socialista grazie a una ridistribuzione del reddito e del potere a favore di chi, negli scorsi anni, ha pagato più duramente la crisi; ci sarebbe da rimettere al centro la questione del lavoro, oggi sempre più flessibile e precario, considerando che socialismo significa non soltanto emancipazione attraverso il lavoro, ma anche e soprattutto liberazione dal bisogno e dall’insicurezza mediante politiche sociali che riducano, e tendenzialmente aboliscano, la dipendenza del lavoratore dallo stesso reddito da lavoro. Questa prospettiva andrebbe riproposta come loro ragion d’essere a tutte le forze, piccole o grandi, che in Europa si definiscono socialiste o socialdemocratiche, così come a quelle della nuova sinistra.