hiroshima mon amourdi Mario Pezzella

I corpi di Lei e di Lui si uniscono in membra confuse, all’inizio del film; hanno pelle bagnata, iridescente, granulosa, come quella di un sopravvissuto alla grande esplosione atomica1. La pelle è la metafora centrale del film, pelle ferita o di corpi che si amano, labile, sudata, malata, che indica la fragilità e il desiderio, che espone i corpi alla penetrazione della violenza o dell’amore, alla speranza e alla nostalgia sfiduciata. La pelle è il fragile limes tra noi e il nostro nulla, infima traccia di finitudine, porosa consistenza di identità.

Più volte Lei afferma di aver visto, di conoscere tutto di Hiroshima; più volte Lui le risponde «nulla, tu non hai visto nulla a Hiroshima»; perché Lei osserva i ricordi oggettivati del trauma, i documenti, le fotografie, i diagrammi, i dati storici e sociali, ma è completamente estranea, inizialmente, alla sua esperienza. Solo alla fine del film potrà comprendere quella di Lui, che nell’esplosione di Hiroshima ha perso il padre e la madre. La ripresa del proprio trauma consente l’apertura al dolore dell’altro. Questo è il corso non narrativo del film, il suo filo simbolico.

Lei può riconoscere Lui solo riattualizzando nel vivo della sensazione e del corpo la propria ferita nascosta: non nella passiva e inconscia ripetizione della coazione di morte, ma nella ripresa, come Kierkegaard la intende2. Il ri-presentarsi del passato non esclude lo scarto, sia pure minimo, di una differenza, di una narrazione che muta la prospettiva sui fatti e li sposta verso un diverso orientamento di senso, un possibile complementare. Alcune cose vengono ricordate per la prima volta, altre, per la prima volta, trovano l’oblio.

Lo scioglimento della rimozione e della coazione a ripetere, dissolve anche la definitività del passato, dell’inamovibile già-stato, del destino inciso nel carattere come un influsso astrale. Ricordare il passato come per sempre così-dato significa in realtà dimenticarne l’indecisione e la durata interiore; la ripresa lo riattualizza accanto ai possibili che lo accompagnavano. Per Lei, il fatto invalicabile della morte del suo amato a Nevers non esclude alla fine del film lo sciogliersi del senso di colpa – inconsapevole – che imprigionava la sua anima. Il fatto è ripreso, ma il vettore del significato è in parte cambiato e dunque non si ripete uguale.

Mentre si svolge il primo dialogo tra Lei e Lui, scorrono le immagini di un film di fiction su Hiroshima, piene di un patetismo che sfiora il grottesco, un film per «turisti», come commenta la voce fuori campo3. Esso ha la pretesa di mostrare il trauma nel momento del suo prodursi, le donne disperate, i bambini smarriti. È esattamente l’opposto di ciò che ha voluto fare Resnais. La fiction spettacolarizza l’evento, induce quasi a forza le lacrime e la compassione, ma è totalmente incapace di esprimere il suo nucleo essenziale: l’eccesso impensabile, per cui la perfezione tecnica conduce alla distruzione globale, l’aspettativa di un progresso della storia si capovolge nel suo opposto, il sogno illuminista giunge a una fine radicale.

Lei dice «io so tutto e so che ciò si ripeterà», ma Lui continua a negarle la possibilità di comprendere attraverso documenti oggettivi o effetti speciali di vario ordine e grado, e cioè attraverso la pretesa di una rappresentazione diretta del trauma. La via scelta da Resnais è indiretta, mostra le conseguenze interne di esso, nelle anime di chi l’ha vissuto, a distanza di anni. La ferita personale è l’unica mostrabile ed in grado di segnare una traccia verso quella storica e collettiva. È la comprensione del proprio trauma, che permette a Lei quella della guerra, di cui Hiroshima è la conclusione; e anche di riconoscere cosa significhi per Lui essere un sopravvissuto, ciò che all’inizio le è impossibile, nonostante ogni buona volontà intellettuale. Dovrà ri-prendere il proprio dolore e insieme quello di Lui: solo allora saranno di fronte non come specchi, non in fusione immaginaria, ma riconoscendo il loro tratto comune, entro una invalicabile differenza.

Nella punizione che Lei subisce a Nevers, il tempo è sospeso, nell’eternità del dolore, nella cantina di pietra, su cui Lei scortica le sue dita per succhiarne il sangue, in cui beve il salnitro che gocciola sulle pareti, riducendosi alla stessa condizione di annullamento di un internato nei campi. È un impietramento dell’anima, e in effetti le inquadrature insistono sull’incombere dei muri ruvidi, nell’isolamento carcerario di Lei: «Il trauma non ha passato, presente o futuro ma è sempre in un non-tempo in cui può essere richiamato continuamente e che rende l’evento eternamente presente»4.

Resnais avrebbe potuto semplificarsi il compito presentando il tedesco amato da Lei come un antinazista5, suscitando una completa ed empatica identificazione dello spettatore con la protagonista: avrebbe così fatto un film sui generici orrori della guerra, più simile alla fiction di cui abbiamo visto alcune scene nella prima parte del film, con una chiara e univoca mozione degli affetti. Ha invece scelto una strada ambivalente e complessa, un tema estremamente difficile, come quello della risposta a un male avvenuto e della sua misura (o al contrario, come nel caso di Hiroshima, della sua dismisura).

Che il soldato tedesco sia dalla parte giusta o da quella sbagliata della storia diviene indifferente di fronte al problema di una violenza di secondo grado, guidata da un incontenibile risentimento mimetico, che annulla le differenze e le responsabilità individuali, l’irriducibilità dei singoli e dei loro comportamenti. Dal desiderio di giustizia si sfrana così in un rituale magico-sacrificale, in cui sommariamente Lei è identificata come capro espiatorio, confusa in una massa indistinta di colpevoli: sinistramente indifferenziati, come le vittime degli aggressori tedeschi. Non è anche la bomba su Hiroshima una vendetta e un’umiliazione mimetica? Non sono forse anche i Giapponesi aggressori originari? Ciò che è stato fatto a Pearl Harbour gli sia restituito in forma centuplicata, così che paghino la loro colpa e il loro debito: «In qualche misura, è possibile che le società ruotino ciclicamente tra vittimizzazione e vendetta»6.

Dopo aver affrontato in Notte e nebbia il male radicale della Shoah, Resnais considera qui la violenza da un’angolatura complementare, in certo senso scandalosa: male di una risposta al male, che resta entro la logica espiatoria ed è incapace di considerare la singolarità di Lei. Per questo, all’inizio oscuramente, poi sempre più consapevolmente, Lei è attratta a identificarsi con Hiroshima e con Lui, entrambi colpiti da un atto di violenza indifferenziata. Una fatalità interiore la conduce a Hiroshima, perché il suo dolore si incrocia con quello della città, si configura nelle sue strade e nei suoi palazzi, esplorati dalla macchina da presa, con movimenti che sono rapidi o improvvisamente rallentati, come l’ansia e la depressione che si alternano nell’animo della protagonista. La materia della città si carica della sua proiezione inconsapevole, in un punto di intersezione inizialmente solo immaginario, che poi si tradurrà in parola, incarnandosi in Lui, nell’amore per Lui. Il loro incontro è un’incarnazione di ciò che fluttuava in un’esistenza spettrale.

Lei e Lui (e la città) sono stati colpiti perché giudicati colpevoli, di un peccato inestinguibile; se la Shoah è il male originario, Hiroshima ne è la ripetizione passiva, che ne perpetua la logica e l’intenzione. Questo fondamento osceno viene occultato nell’ordine democratico del dopoguerra: che lo Stato più democratico del mondo si sia comportato in modo altrettanto disumano dei due totalitarismi del Novecento diviene un fatto inammissibile e quasi indicibile. A meno che, dopo essere stato oggetto di rimozione e di oblio, il trauma non venga spettacolarizzato, perdendo la sua gelida specificità. Con Notte e nebbia e Hiroshima mon amour Resnais ci ha dato una traccia della sua dimensione reale.

Nella sequenza in cui si vede la preparazione del film, che Lei sta girando, il truccatore applica una pellicola di pelle malata sul corpo di un attore. Anche questo film, come già la fiction vista nella prima parte, è agli antipodi di quello di Resnais. È lecito fingere la distruzione arrecata dal trauma? In una tale finzione – e sia pure ben intenzionata – non si tradisce il suo significato? Si può simulare l’attimo stesso del dolore estremo, per rappresentarlo? A queste domande il film di Resnais dà una risposta negativa: egli sceglie di mostrare ciò che dopo e fino a ora è avvenuto nel più profondo dell’animo di Lei e di Lui. Non che nel film di Resnais possa mancare del tutto la simulazione e la rappresentazione, che sono il connotato di qualsiasi forma d’arte: ma le sequenze in cui vengono mostrate le fictions ci spingono alla riflessione e alla consapevolezza. Io – sembra dire Resnais – rinuncio alla pienezza spettacolare dell’illusione, vi indico piuttosto la traccia interiore che può portare anche lo spettatore, entro di sé, a ripetere le proprie ferite.

Nella sequenza del corteo pacifista, il volto di Lei inquadrato in primo piano è sempre più scavato dalla sofferenza che le procura la richiesta di un legame affettivo da parte di Lui, dal crescente terrore che con l’amore si ripresenti la primitiva intensità del trauma subito. La violenza e l’amore si sono fusi in un sentimento unico e indicibile, Lei è terrorizzata dalle relazioni affettive. Per sopravvivere deve sterilizzare i propri sentimenti, costruire una barriera di anaffettività, «tutte operazioni che sono sentite necessarie per evitare la minaccia della devastazione (il ritorno allo stato traumatico)»7.

In una inquadratura, Lei e Lui appaiono insieme, ma sono come barrati dalla comparsa truccata da sopravvissuto, in primo piano: è un segno che il loro incontro non può dimenticare la costellazione del trauma e solo divenendone consapevoli possono riconoscersi. In questa sequenza, in cui rischiano di essere travolti dalla folla, i due si perdono e si ritrovano, con un montaggio a salti discontinui, che esprime la loro lotta interiore fra l’amore e la coazione a ripetere passivamente il già-stato.

Per Lei Nevers è il nome di una linea nodale, il segno che divide il regno dei possibili da quello della morte, la speranza dalla fissità del destino. Lui è capace di leggere il significato di questa iscrizione – Nevers – nell’anima di Lei8. I fiumi di Nevers e di Hiroshima si alternano in montaggio parallelo, a sottolineare la connessione tra le due situazioni, il ripresentarsi a specchio dell’una nell’altra. Lui accetta di identificarsi col soldato tedesco morto, di resuscitarlo, di riattualizzarlo vivente di fronte a Lei, in un transfert vissuto in una zona intermedia tra la consapevolezza e il sogno, immersione comunque voluta, accettata da entrambi. È questa riattualizzazione a permettere la memoria, la ri-presa rammemorante del passato, che affiora nel contesto mutato di un riconoscimento, protetto dall’amore. Perfino lo schiaffo di Lui è un gesto d’amore, che interrompe la pur necessaria regressione allucinatoria nel tempo perduto.

Nevers e Hiroshima non sono soltanto due luoghi, sono faglie di tempo che nel divenire del film cancellano la propria differenza cronologica e si affermano come simultanee nell’anima dei protagonisti, «gli eventi non si succedono soltanto, non hanno solo un corso cronologico, sono continuamente rielaborati, secondo la loro appartenenza all’una o all’altra falda di passato, all’uno o all’altro continuum d’epoca, tutti coesistenti»9. In una sequenza in montaggio alternato, si seguono le immagini delle due città e delle loro strade, affermando la loro compresenza e affinità ritrovata. Il tempo psichico prevale su quello oggettivo, creando una durata unica delle due faglie temporali, una rammemorazione che presentifica, invece di separare il passato dal presente, simile a una correspondance di Proust. Questa avviene nel dolore della perdita, ma anche in una ripresa che permette il compimento e la comprensione di ciò che era rimasto frammentario e incompiuto. Alla fine del film, Lei non può certo mutare l’evento accaduto o la morte del suo soldato tedesco e quel che ne è seguito; ma non è più la stessa e come soggetto si ritrova su un piano più profondo di conoscenza di sé e riconoscimento dell’altro. Il muro difensivo del suo narcisismo si è aperto. Nevers, Hiroshima: ora non sono solo nomi della morte, ma di tutto ciò che nella vita di Lei e di Lui è avvenuto grazie al loro incontro, alla ripresa. Non sappiamo del futuro, né di un “lieto fine”: ma Resnais ci mostra il loro riconoscimento reciproco e possibile. Non fonde i Due in Uno, ma connette infinitamente, anche se solo per un istante, le loro differenze.

«Nota sulla ripresa». Il termine danese usato da Kierkegaard (Gjentagelsen) può essere tradotto anche con «ripetizione». Preferisco la prima traduzione, perché permette di distinguere la ripetizione sempre uguale di un trauma del passato, dalla ripresa che invece attualizza, rielabora, riapre i possibili soffocati nel già-stato: «Ripresa e reminiscenza rappresentano lo stesso movimento ma in direzione opposta, perché ciò che si ricorda, è stato, ossia si riprende retrocedendo, mentre la vera ripresa è un ricordare procedendo»10. Il ricordo guarda al passato come a un già-stato inalterabile; la speranza guarda al futuro come un mai-stato indecidibile; la ripresa attualizza un possibile incompiuto nel passato e ne fa una anticipazione del futuro. Anche a prescindere dalla concezione religiosa che ne ha Kierkegaard, la ripresa è allo stesso tempo il ripresentarsi nell’attuale di un evento passato e un salto rispetto all’immagine che finora ne potevamo avere. Riproponendo per intero la tonalità affettiva del passato, in tutte le ambivalenze del suo darsi, essa implica nel caso del trauma un rischio mortale: ma anche la possibilità di uscire dall’impietramento emotivo che esso aveva determinato, purché questa discesa agli inferi sia soccorsa da un altro e da un noi. La ripresa ripresenta il passato nel contesto di un riconoscimento di sé e dell’altro – e di sé da parte dell’altro – che allora mancò. Certo, non è pensabile una riparazione integrale del passato (e Kierkegaard la riservava infatti alla dimensione religiosa ed escatologica); il soldato tedesco di Lei è morto e nulla può riportarlo in vita, così come morti sono i figli di Giobbe e nessun altro potrà sostituirli. Però la ripresa permette di mettere in dubbio la necessità di ciò che è stato e della costituzione dell’Io, come si è definita in base ad essa. Non elimina il lutto, ma lo rende possibile, oltre l’impietramento. E così in parte cerca di sospendere la catena infinita e puramente ripetitiva della violenza, la sua coazione a ripetere di generazione in generazione, il ciclo delle vittime e dei carnefici. La ripresa – consentendo di leggere il passato nella dimensione di noi ora– tende a interrompere la forza mimetica mortale della storia della volontà di potenza. La volontà di potenza è incremento continuo, la ripresa è sospensione e arresto nell’attimo, e il suo approfondimento.

1 Di lì a poco verrà inquadrata effettivamente la fotografia di un superstite, conservata nel Museo di Hiroshima, con la sua pelle malata.

2 Vedi la «Nota conclusiva».

3 Così nel testo della Duras: «L’illusione, molto semplicemente, è talmente perfetta, che i turisti piangono. Si può fare dell’ironia su di loro, ma che può fare d’altro un turista, se non – appunto – piangere?».

4 C. Mucci, Trauma e perdono, Milano, Cortina, 2014, p. 49.

5 È una possibilità che ha considerato e rifiutato: «Non abbiamo indicato che il soldato tedesco era un antinazista; per noi era implicito, ma abbiamo rifiutato di dirlo, per non sdoganare troppo visibilmente l’eroina, per non rendere la simpatia troppo facile, non favorire un’identificazione, che il pubblico ricerca fin troppo», da un’intervista a Resnais cit. in Alain Resnais, a cura di M. Regosa, Biblioteca di Bianco&Nero, Venezia, Marsilio, 2002, p. 172. In realtà è una scelta decisiva che cambia il senso del film, perché – da quel che vediamo – sappiamo unicamente che il soldato fa parte di un esercito di occupazione.

6 B.A. Van der Kolk, A.C. Mac Farlane, L. Weisaeth, Stress traumatico, Roma, Ma.Gi, 2004, p.55.

7 «Nei sopravvissuti l’oggetto primario è così incompatibile con la sopravvivenza del sé, che viene distrutto. Si forma come un buco, un vuoto. Questo buco è pericoloso […] perché può causare ritraumatizzazione e quindi intorno a esso vengono costruite difese narcisistiche. […] Sono queste difese che portano a sfuggire a intere relazioni, a evitamento di realtà e manipolazione di altre relazioni, tutte operazioni che sono sentite necessarie per evitare la minaccia della devastazione (il ritorno allo stato traumatico)», in C. Mucci, Trauma e perdono cit., p. 155.

8 Che ricorda l’inglese Never, mai.

9 G. Deleuze, L’image-temps, Paris, Minuit, 1985, p. 157.

10 S. Kierkegaard, La ripresa, Milano, SE, 2013, p. 11.