di Valentina Morotti
Il regista cileno Pablo Larraín sceglie le parole del primo libro della Genesi per aprire il suo penultimo film: «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte». Ma la cifra della storia raccontata da questo film è proprio l’assenza di distinzione tra luce e tenebre, l’incapacità umana di identificare il bene e separarlo dal male.
In questo film Larraín sembra apparentemente abbandonare l’esame della storia nera del suo paese, il Cile della dittatura1. Il Club ci trasporta lontano dai luoghi protagonisti della vita politica del paese, a La Boca, un piccolissimo agglomerato di case dimenticate sulla riva dell’oceano e difficilmente raggiungibile da Santiago. La vita che i personaggi conducono qui è non solo lontana dai grandi eventi della politica, ma appare addirittura sospesa in una dimensione naturale, sottratta alla storia. In questo luogo solitario non accade semplicemente nulla, e solo il movimento delle onde dell’oceano e il sorgere e il calare eterno del sole scandiscono l’atmosfera cupa di una terra dove la foschia è l’elemento caratterizzante del paesaggio.
Confinati in una casa di penitenza di proprietà della Chiesa, quattro preti cattolici rimossi dai loro incarichi trascorrono un’esistenza della quale non si deve sapere nulla. Affidati alle cure di un suora e sottoposti a regole molto rigide, senza poter avere contatti con chi vive fuori dalla casa, i quattro sacerdoti conducono tuttavia un’esistenza tranquilla e non del tutto amara. Essi possiedono un levriero, un campione nella corsa, che permette loro di godere dei proventi delle scommesse, e sperano un giorno di poterlo portare a gareggiare nella capitale e diventare molto ricchi. Un giorno l’arrivo di un nuovo ospite infrange la tranquilla routine del club e dà inizio al dramma. Insieme al nuovo prete arriva infatti un giovane uomo dai capelli nerissimi, che ne ha seguito le tracce durante i suoi ultimi spostamenti fino a La Boca. Il prete più anziano, affetto da demenza, descrive il visitatore come «un angelo, ma nero». E il giovane uomo è, in un certo senso, un angelo, un messaggero che grida alla coscienza dei preti della casa. Il suo messaggio è terribile: egli grida senza reticenze, scendendo nei particolari più crudi, gli abusi sessuali subiti quando era un adolescente a opera del prete appena arrivato a La Boca.
Larraín sceglie di non rappresentare l’evento traumatico avvenuto nell’infanzia e indaga invece nel presente le conseguenze di questo passato terribile nella coscienza delle vittime e dei carnefici. Sandokan – così si chiama l’uomo arrivato seguendo le orme del prete pedofilo – si stabilisce a La Boca come lo spettro vivente del male compiuto, a testimoniare con il proprio corpo violato la realtà del trauma. Sandokan è un personaggio traumatizzato, violato durante l’infanzia e l’adolescenza da un prete che non riesce a dimenticare. Un uomo che tuttavia non riesce a distinguere nemmeno lui il male dal bene, e spesso sembra confondere il suo violentatore con il suo primo innamorato e amante. Nelle sue parole deliranti, ripetute come una litania dannata, l’amore e la violenza, l’educazione e il ricatto, le parole di Dio e le parole del sesso, gli oggetti religiosi e i fluidi corporei sono continuamente sovrapposti e confusi nel tentativo di comporre in una visione organica la propria esperienza devastata.
Come spiega bene Clara Mucci – che a lungo si è occupata di trauma e percezione della sua realtà nelle vittime – chi ha subito una violenza e non viene creduto finisce spesso per introiettare la visione della realtà e i sentimenti del suo aggressore, come sorta di difesa ultima di fronte all’indifferenza e alla mancanza di fiducia della comunità in cui cerca di reintegrarsi2.
La mente di Sandokan è confusa: profondamente intaccato dal trauma subito, egli non ha sviluppato una personalità integra e adulta, e soffre di un grave disagio psichico. Non è chiaro se già da bambino soffrisse di problemi psichici o se essi sono la conseguenza delle violenze. Quello che vediamo nel film è un giovane uomo escluso dalla comunità, un reietto senza casa e senza un futuro. L’incapacità di affrontare il trauma lo condanna alla passiva ripetizione della coazione di morte, spingendolo a ricercare il suo molestatore – e dopo di lui tutti i preti pedofili che la Chiesa cilena ha nascosto – e impedendogli di costruirsi un’identità adulta nuova e finalmente integrata.
In un intreccio che assume sempre più le forme del noir, la Curia di Santiago invia a La Boca un giovane gesuita laureato in psicologia, Padre Garcia, per indagare sui vecchi ospiti del club. Ciascuno di loro ha alle spalle un passato nero. Scopriamo che, anni prima, la Chiesa cilena ha istituito comunità come questa per sottrarre alle loro parrocchie – e alle indagini – i preti accusati di comportamenti immorali o criminali. In questo modo Larraín allarga il discorso dal trauma individuale – analizzato con la figura di Sandokan – al dramma storico e collettivo dei cattolici cileni. La Chiesa ufficiale – in questo non diversa dal regime – ha macchinato per nascondere i propri membri che si sono macchiati di crimini e impedire che fosse resa giustizia alle vittime. La Chiesa stessa viene qui accusata nei suoi meccanismi di potere, nelle sue omertà complici, nel dispiego dei suoi mezzi per sottrarre i colpevoli alla giustizia terrena.
Uno degli ospiti della casa è stato cappellano militare durante la dittatura, e conosce i segreti ricevuti in confessione dai capi dell’esercito: «Trentacinque anni nell’esercito, cappellano militare. Ho annotato in un taccuino le confessioni dei militari. Fosse segrete, luoghi segreti di tortura, omicidi. […] Poi l’ho bruciato. I civili di sinistra volevano portarmi in tribunale». Diversamente dai civili di sinistra, la Chiesa ha la propria idea su come trattare i sacerdoti criminali, che vengono sottratti alla giustizia civile e al giudizio della comunità e nascosti in “case di penitenza” come quella di La Boca. Di fatto, è una storia di impunità e di silenzi complici delle autorità ecclesiastiche quella che ha confinato gli ospiti del club ai margini geografici e civili del paese. Un luogo in cui le idee di bene e giustizia, di pentimento e di colpa assumono contorni indistinti, offuscati dalla foschia marina. È questo un aspetto su cui il film visivamente insiste molto, anche grazie all’uso di lenti che esaltano i colori cupi e sfumano sulle distanze. Larraín sceglie per Il club una luce invernale e crepuscolare, che non rischiara mai i volti e rende indefiniti i contorni: nelle scene girate all’interno della casa domina una luce naturale fioca e lattiginosa, mentre le scene di esterni sono ambientate quasi sempre prima dell’alba o al tramonto. Il film si astiene da giudizi morali netti sui singoli uomini: i quattro sacerdoti ci appaiono nella loro fragile umanità, non tanto malvagia, quanto meschina e amorale, ciascuno portatore di una visione molto limitata della vita, del peccato e dell’espiazione. Larraín non presenta i sacerdoti protagonisti come dei demoni, né il padre Garcia, il giovane gesuita che dovrebbe finalmente portare luce su vicende occultate per troppi anni, come un eroe buono. Padre Garcia assume invece i tratti dell’inquisitore freddo, incapace di comprendere il cuore dell’uomo e del peccatore, il suo bisogno di affetto e di normalità. C’è in lui la convinzione cieca e presuntuosa di essere stato mandato a punire i soli uomini colpevoli, ristabilire in questo modo l’ordine in nome di una Chiesa immacolata e santa. In un’intervista, Pablo Larraín ha spiegato il vero problema che il film vuole denunciare: «Credo che oggi la chiesa si comporti un po’ come una grande impresa che tiene a cuore la propria clientela […] sembra avere questa preoccupazione incessante, una paranoia per i mezzi di informazione e quello che può essere detto su di lei»3.
Non sono tanto i singoli uomini a essere condannati, quanto la Chiesa come istituzione di potere. Larraín non mostra i meccanismi e i protagonisti di questo potere, che resta lontano, a Santiago, e sullo sfondo, evocato solo dalle telefonate del padre Garcia ad alti prelati di cui nulla ci viene detto e dalle parole di un suora che minaccia di coinvolgere protezioni importanti. È un potere che, però, determina le esistenze degli uomini, che siano essi le vittime dei criminali o i criminali stessi. Uomini che appaiono, carnefici e vittime, in fondo solo come pedine di un potere immensamente più grande che crea le premesse per la violenza, abbandona le vittime, nasconde i colpevoli e cancella per sempre la memoria del male.
I sacerdoti della casa sono certamente dei criminali, ma Larraín accusa in primo luogo chi ha reso possibile che essi compissero questi crimini. Il Club accusa una Chiesa che non sa comprendere la solitudine fisica e affettiva e il disagio dei suoi sacerdoti, una Chiesa che affida la cura dei bambini e delle comunità di fedeli a persone disturbate e deboli, ed è incapace di sorvegliare e di fare giustizia. «Io sono il re della repressione», afferma il sacerdote che ha il volto di Alfredo Castro, l’attore prediletto di Larraín, lasciando intravedere la dimensione interiore del trauma e della solitudine di un uomo allontanato dalla sua comunità perché omosessuale.
Il Club accusa una Chiesa che non ha saputo o voluto fare i conti con coloro che al suo interno hanno collaborato con il regime militare. Il Club accusa infine una Chiesa che, in nome dell’opportunità politica, ha difeso le differenze sociali e legittimato la povertà degli ultimi.
Padre Garcia, investigatore e inquisitore, afferma di volere una Chiesa nuova. Sceglierà tuttavia il silenzio e non denuncerà alla giustizia i criminali nascosti nella casa di penitenza. Tace per amore della Chiesa, afferma, per impedire lo scandalo, per evitare che i giornalisti sappiano di questi preti pedofili, corrotti o complici del regime militare e magari gettino discredito sugli alti prelati che li hanno nascosti e protetti, creando un danno d’immagine alla sua Chiesa: «Amo la Chiesa e non voglio creare problemi. Se accoglierete quest’uomo mi dimenticherò di voi per sempre». L’espiazione cristiana che padre Garcia propone agli abitanti della casa, imponendo loro di accogliere Sandokan, coincide tuttavia con il silenzio complice della Chiesa.
Il rimosso rievocato prepotentemente dalle grida scandalose di Sandokan all’inizio del film deve restare tale. Non sappiamo molto, in fondo, della vita di Sandokan, a parte il trauma subito. Tuttavia nessun altro dovrà mai sapere nemmeno della sua esistenza né ascoltare la sua testimonianza di bambino violato. I preti della casa, che hanno commesso crimini altrettanto odiosi, dovranno prendersi cura di Sandokan e nascondere la colpa che egli incarna– senza tuttavia affrontare le proprie responsabilità in maniera cosciente. Vale anche per essi l’invito a nascondere e tacere, a rinchiudere la colpa in quella casa separata dal resto della società affinché nulla all’esterno venga rivelato. La rimozione del ricordo del trauma – incarnato dal corpo devastato di Sandokan – e ogni sua testimonianza è la soluzione proposta dall’emissario della Curia di Santiago, gesuita psicologo e inquisitore. Larraín non vede all’interno della Chiesa le premesse per la presa di coscienza e il superamento degli eventi traumatici che hanno coinvolto i suoi membri e le loro vittime. Né per le vittime né per i colpevoli si prospetta la salvezza terrena e il ristabilimento dell’integrità psichica e umana. Nell’occultamento della memoria delle vittime e dei colpevoli si insinuano invece le premesse inquietanti della ripetizione del male: così sembra concludere Pablo Larraín in questo ulteriore tassello della sua personalissima indagine nella coscienza del Cile.
2 Clara Mucci, Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale, Milano, Raffaello Cortina 2014.