di Massimo Jasonni
La riflessione platonica è di tale vastità e ricchezza da sconsigliare superficiali approcci o semplificazioni, ma è pur vero che la sua oggettiva grandezza non impedisce, anzi suggerisce, richiami nel nome della sintesi: anche per vincere un dominio culturale, oggi, che nega alla scuola lo studio della storia e, in particolare, la memoria del divenire del pensiero occidentale.
Platone parla della politicità come connotato fondamentale dell’essere dell’uomo, non come virtù astratta. Ne dice in Repubblica e Leggi, chiarendo che si ha a che fare con un profilo concreto della vita, paragonabile a ciò che l’armonia musicale offre nei disagi dell’esistenza. Proprio per questo la dimensione della politicità è in perenne conflitto con forze ambientali ostili che tendono a far prevalere sulla socialità un’individualità, cui non a caso il filosofo assegna il nome dell’idiozia. Noi moderni, e tanto più noi postmoderni, ricorriamo molto spesso a questo termine, ma privatizzandolo e quasi denaturandolo: ovvero esautorandolo della sua innata energia semantica pubblicistica.
La dimenticanza del valore della politicità produce imbarbarimento intellettuale e perdita del senso dell’amicizia tra la gente. Ecco perché quelle origini greche della nostra civiltà sottolineano, nella statura dello statista, i requisiti fondamentali della sapienza e dell’amicizia. Platone è esplicito: sophia e philia1. Aristotele si allineerà a una siffatta impostazione etica, ma insistendo sulla phronesys: dote dell’equilibrio e della propensione al giudizio equitativo2. Nient’altro, in ultima analisi, se non specificazione e ulteriore materializzazione del binomio platonico filosofia e filia. Etica e politica vanno così a fondersi nell’uomo di Stato, che è colui che possiede coscienza del benessere della polis e ne ha cura3.
Queste premesse, colte da Paolo nell’uso spesso della lingua greca, poi acquisite culturalmente in età patristica, sono oggi venute meno. La morte degli dèi, come esperita da Hölderlin, non è tanto scomparsa delle divinità maestose delle tradizioni monoteistiche, quanto oscuramento di un naturalismo e di un eudemonismo classico tutto imperniato sull’intersezione tra metafisica e razionalità.
Gli opinionisti dei nostri giorni non hanno perso tempo nel contestare la particolare “insipienza” e il difetto di philia ad alcuni ministri dell’attuale governo. Ne hanno trovato agile conferma nelle esternazioni di Di Maio, di Bonafede e della Azzolina. E non solo. Carlo Calenda poi, sul punto, è stato tanto perentorio, da conseguirne la sua fuoriuscita dal partito: ha obiettato che mai e poi mai si sarebbe dovuto concedere quei tre dicasteri, determinanti nel consolidamento del blocco storico. Certo è inconcepibile che una formazione di estrazione socialista, quale pretende di definirsi il Pd, consegni Esteri, Giustizia e Pubblica Istruzione nelle mani dell’evanescenza etico-politica del M5S.
Il nome di Platone ritorna allora anche in merito all’idea di democrazia. Esso ripropone tematiche di sempre, perché medesime perplessità troviamo in Salvemini nel parlare, al suo rientro in Italia nel nostro secondo dopoguerra, del concetto di democrazia4. Ci si riferisce alla cautela necessaria nel reclamizzare un regime polivalente e incerto nel suo stesso declinarsi e a perenne rischio di caduta nella palude della demagogia. Era stata la democrazia, nell’Atene del V secolo, a condannare Socrate. Erano stati i clamori di piazza a legittimare, dopo la marcia su Roma, il fascio in Italia, e nel 1933 l’avvento alle urne in Germania del potere di Hitler.
1 G. Colli, Platone politico, Milano, Adelphi, 2007, p. 21 ss.
2 F.G. Gadamer, Introduzione all’Ethica nicomachea, libro VI, Genova, Il Melangolo, 2002, p. 25 ss.
3 Ivi, p. 21.
4 G. Salvemini, Il concetto di democrazia, in «Il Ponte», n. 1, gennaio 1946, ora in Il nostro Salvemini. Scritti di Gaetano Salvemini su «Il Ponte», Firenze, Il Ponte Editore, 2012, p. 65 ss.