di Marco Gatto
Sono trascorsi più di cinquant’anni dall’epoca in cui Adorno, il massimo filosofo della musica del secolo ormai passato, dichiarava guerra al sistema musicale di massa, denunciando l’incapacità degli individui di accedere a un ascolto consapevole della vecchia come della nuova musica. La tentazione di attualizzare in senso aggravante l’idea di un sostanziale imbarbarimento dell’ascolto e di un ormai totalizzato feticismo del mondo sonoro – termini utilizzati in quel libro straordinariamente radicale quanto preveggente che è Dissonanze1 – è forte. A essa dobbiamo resistere con lucidità e senso storico, perché i limiti delle argomentazioni di Adorno sono insiti nella situazione sociale da cui le sue teorie emergono: nella fattispecie, dal risentimento nei confronti di una cultura nascente, massificata e corruttrice, figlia del neocapitalismo, rea di aver soppresso, agli occhi dell’esponente della Scuola di Francoforte, la cultura alta dell’umanesimo occidentale e di averla sostituita con l’americanismo dell’industria culturale, caratterizzato non solo da bassezza e volgarità, ma da un vuoto culturale e semantico che, in modo del tutto pianificato, elide il legame tra arte e società. Si deve resistere a questa visione, si diceva, anzitutto perché il sentire di Adorno è quello, in fondo condivisibile, dell’apocalittico che vive sulla pelle la dissoluzione di un intero paradigma di senso; è quello, in altri termini, dell’uomo borghese che scorge, dopo la catastrofe dei totalitarismi, la crisi dello statuto individuale e l’annichilimento di una possibile prospettiva emancipativa fondata sul rapporto critico tra individuo e totalità2.
Al decoro dell’arte borghese, cui si aggiungeva la considerazione positiva accordata al valore contrastivo e rivoluzionario delle avanguardie, Adorno guardava con spirito di conservazione, vestendo spesso i panni del severo censore, e tuttavia diagnosticando con lungimiranza un fenomeno che di lì a poco, ben oltre le intuizioni del medesimo filosofo, si sarebbe imposto come segnaletico della condizione sociale e culturale: il presentarsi perenne di un “nuovo” falsificato, del tutto alieno rispetto all’idea moderna di novità e di superamento della tradizione. Uno sperimentalismo da laboratorio, gratuito e vuoto, che si è trasformato ben presto in manierismo d’accatto, e che forse descrive – lo vedremo a breve – uno dei caratteri preponderanti della cosiddetta musica seria d’oggi. Ma la resistenza nei confronti di una visione apocalittica sta nelle enormi modificazioni sociali intervenute negli ultimi decenni che ci separano dalle riflessioni estetiche di Adorno: quell’individuo borghese, detentore di un sapere umanistico e antispecialistico, capace di conoscere le letterature più importanti, di ascoltare con acume storico-critico le partiture, di far interagire lo spirito critico con una proposta politica, di costruire gerarchie di senso, di sapersi riconoscere in una totalità sociale, non solo è scomparso, o magari disperso nell’anonimato, ma ha visto mettere in discussione quelle categorie di pensiero e di azione su cui la modernità aveva fondato la sua proposta di rinnovamento sociale e politico. L’individuo moderno è stato assorbito da una rivoluzione paradigmatica epocale, capace di promuovere nuove forme di socializzazione e di coprire tale strategia di dissoluzione del soggetto con l’utopia di una nuova oggettività aggregante, fondata sulle mitologie felici e quietistiche del mercato e del capitale, dietro cui si cela, nella concretezza più materiale, un immaginario sociale disgregato, reificato, privo di possibilità emancipative. E tali racconti mitologici sono stati sostenuti, in modo forse inconsapevole, da poetiche ed estetiche improntante all’eccesso, all’illimitatezza, allo svuotamento di qualsivoglia paradigma storico-materiale, all’oblio della tradizione: non è peregrino affermare, come del resto confermano gli studi più avvertiti, che l’esperienza avanguardistica più recente, ben presto convertitasi in canone, e dunque in logica di potere, si è gettata senza alcun pudore nelle braccia del cosiddetto postmodernismo, ilare nell’accogliere la frammentazione dei linguaggi e ingenuo nel proporsi come nuovo paradigma dell’immaginazione estetica, in realtà del tutto subalterno alle logiche di distruzione dell’umanesimo universalista e di esaltazione delle autonomie particolari, ambedue ancelle del dominio capitalistico.
La cosiddetta postmodernità3 – sinonimo di globalizzazione dei mercati e di acquisito dominio dell’astrazione capitalistica quale principio uniformante di realtà4 – ha promosso, insomma, una nuova forma d’esistenza, fondata sullo svuotamento di tutte le acquisizioni progressive del moderno, in una modalità, tuttavia, che non ha mirato semplicemente a rivoluzionare ciò che già esisteva, come accadrebbe in una sana dialettica tra passato e presente, ma a distruggere completamente la tradizione, mutando quest’ultima in un mausoleo e investendo su forme nuove, apparentemente figlie delle precedenti, eppure deprivate di quei caratteri sociali capaci di stabilire un orientamento condiviso o una verifica pubblica. Si è discusso a lungo di fine delle “grandi narrazioni” e, particolarmente in Italia, ci si è gettati entusiasticamente nel mare aperto del nichilismo e del “debolismo” (sia a destra che a sinistra, con esiti di vacuo populismo), vedendovi una possibilità di emancipazione che non è giunta al traguardo: il mondo è sempre più afflitto da contraddizioni sociali, sempre più diviso tra poveri e ricchi (i primi sempre più numerosi), la frammentazione sociale – cui si è accompagnata, particolarmente nell’Italia clownesca di inizio millennio, una nuova forma di sovversivismo passivo verso le forme della mediazione politica e istituzionale, giocata sull’ipertrofia del narcisismo e del soggettivismo ribelle, sull’esaltazione della rete come nuova sede del decisionismo politico, amorfo e senza responsabilità manifeste – si riverbera in tutti i settori dell’esistenza. E dunque anche nelle manifestazioni della cultura (posto che questo termine, anch’esso spoglio oggi di determinazioni valoriali, e anzi esteso agli ambiti della realtà più diversi, sia ancora degno di considerazione).
L’arte – e in particolare l’arte musicale – riflette da almeno sei decenni le trasformazioni intervenute nella sfera sociale dell’Occidente: la musica dell’individuo moderno, dotata di pienezza espressiva, di dominio del materiale sonoro, di distinzione stilistica, è divenuta priva di cittadinanza in un mondo in cui la forma di individualità egemone si fonda su ben altri criteri. Quella che apparentemente potrebbe essere descritta come un’inflazione dell’Io in tutti gli ambiti della realtà – e che, in tutto e per tutto, corrisponde a una proiezione egoistica sulla scala dei rapporti sociali – è, in vero, il rovescio di un’immagine ulteriore, ossia quella di un soggetto privato del suo spazio emozionale e disorientato nelle maglie di uno spazio estetico indifferenziato, in cui i criteri di scelta vengono elisi a beneficio di quella falsa democratizzazione culturale che assume oggi il volto di nuovo analfabetismo. Forme di sapere tradizionale o modalità di apprendimento canoniche – persino la lettura, l’analisi, l’ascolto – sono lese a tal punto da apparire vetuste e antiquate. In altre parole, è con il sorgere di una nuova figura di soggettività che l’arte – musicale, letteraria, ecc. – è costretta a una modificazione epocale, giacché vengono meno quei parametri di senso fino a qualche tempo fa ritenuti basilari. Il tempo di Adorno, a quest’altezza, è finito: neppure la nostalgia verso momenti storici in cui la condivisione culturale era norma sociale può dirsi gratuita. La battaglia si chiude, per dirla con Italo Calvino, nelle anguste stanze del nostro inferno: se non si accetta che questa sia l’unica realtà possibile, occorre elaborare strategie di resistenza realisticamente orientate a un ricollocamento della soggettività sul piano della cooperazione umana e al riposizionamento dell’arte nella funzione di mediazione pedagogica e di restituzione di un senso condiviso, strappato cioè dalla mera ambizione culturalmente narcisistica e cinica dei nostri tempi.
Discorrere dunque del sapere musicale – o del “sapere” come categoria che riassume il paradigma umanistico cui prima accennavamo e che è sottoposta oggi a una dura prova di sopravvivenza – significa anzitutto fare i conti con un’epoca in cui, mutati i modi di socializzazione, mutano le abitudini di produzione e consumo dell’arte. Sarebbe piuttosto sbrigativo lamentare che non si sappia più leggere Dostoevskij o ascoltare Beethoven; più produttivo, sul piano della comprensione, è chiedersi se quei nomi rimandano oggi a un qualche valore sociale da spendere sul piano della crescita collettiva o se tale investimento non sia proprio figura di quest’ultimo termine mercantilistico: in fondo, i grandi happening culturali che promuovono la lettura ad alta voce de L’idiota o le grandi sfilate orchestrali in cui si esegue la Nona, assumono ben presto la parvenza di un’occasione cultuale deprivata del suo reale valore simbolico (e dunque della sua funzione sociale di comunicazione del sapere); e non a caso convivono con la musica d’ambiente e con la musica pubblicitaria (Mozart come sottofondo ideale prima dell’imbarco in aeroporto; Prokofiev come sponsor di un marchio di profumi), senza che ciò generi problema o contraddizione. Siamo condannati, per dirla con il vocabolario più alla moda della teoria culturale, ai gadget? Siamo cioè condannati alla perdita del senso estetico, a non saper più distinguere tra il rosso e il nero, tra il vero e il falso? E possiamo guardare alla “cultura” solo come a un gingillo da indossare nel fine settimana, solo come a un simbolo di appartenenza sociale, al pari di tant’altra merce? In un mondo sempre più falsamente laicizzato, la religiosità si è impadronita anche dell’arte, nelle forme di un mantenimento tribale che assicura visibilità e sicurezza a una media borghesia sempre più ignorante. In ciò Adorno è maestro indiscusso di chiaroveggenza: la paralisi della classe sociale borghese, di cui la reificazione espressiva di certe avanguardie è figura, esibisce il frutto di una dissoluzione permanente della capacità simbolica, che al contrario caratterizzerebbe, almeno in via teorica, una società matura e adulta. La nostra, invece – come ha dimostrato la psicoanalisi contemporanea più attenta alle dinamiche sociali –, è una società in tutto e per tutto adolescenziale, incapace di stabilire regole, limiti, modelli.
Ma tale puerizia protratta nel tempo – che forse è il dato meno allarmante, se consideriamo, almeno in Italia, le conseguenze antropologiche di questo collasso culturale: la scuola di base non funziona più, le università sono il ricettacolo di cattedratici chiusi nella torre d’avorio del loro specialismo, la televisione è il solo modello formativo a contare, la classe politica sembra non uscire dalle contraddizioni della sua inefficienza5 – non si spiegherebbe senza ricorrere a una riflessione sul nesso che lega la mutazione culturale e antropologica ai sistemi di potere istituzionale che ne hanno beneficiato. Un ragionamento del genere può apparire in un primo tempo peregrino, ma è un’utile chiave di lettura, a mio parere, per spiegare cosa significhi esercitare un “sapere” nell’era della globalizzazione amministrata.
Da almeno un sessantennio assistiamo a un’estensione della nozione di cultura a tutti gli ambiti della vita umana: qualcuno, evocando Hegel, ha parlato di naturalizzazione della Cultura, nel senso che quest’ultima sarebbe divenuta una seconda Natura, con inevitabile perdita della vera, prima condizione naturale. Che tra l’individuo e la società si sia introdotto un terzo elemento dotato di astrazione è fuor di dubbio – si tratta, ovviamente, dell’insieme pervasivo di simboli, segni, informazioni, che rappresentano l’epifania immateriale di un soggetto non-antropomorfo totalizzante, come Marx definiva il capitale. Tale accumulazione di simboli e di immagini ha profondamente mutato la percezione e le abitudini sociali: lo stesso individuo, per esistere, ha dovuto dotarsi di simbolicità, al prezzo di uno svuotamento banalizzante che ha premiato l’esposizione, l’ostensione, la superficializzazione dell’essere-sociale. È proprio attraverso questo doppio movimento – svuotamento del concreto e dissimulazione dei nessi sociali entro il simulacro dell’apparenza – che categorie del moderno come “alienazione”, “contraddizione”, “rivoluzione” risultano desuete: il soggetto, niente più che un simulacro di se stesso (Baudrillard) si è perso in un’attività fantasmatica che ormai assume i contorni della “familiarità” (Anders) – ognuno è chiamato a esporsi, a divenire simbolo – e concepisce tale sprofondamento nella cortina della rappresentazione come reale possibilità di legarsi al mondo sociale. Di fronte a questo intimo bisogno dell’individuo postmoderno di collocarsi entro un orizzonte simbolico-cultuale, la pratica della demistificazione e l’insistenza su forme di socializzazione diverse rischia di apparire anacronistica, per quanto sia l’unica possibilità filosofica di continuare sulla strada di una teoria critica della società.
Ora, l’ipertrofia della cultura – il fatto, detto in soldoni, che ognuno per esistere sia chiamato oggi a esprimersi, secondo un neodannunzianesimo tutt’altro che innocente – produce sostanzialmente un uso controllato e amministrato della cultura stessa, e il conseguente svuotamento di quei valori che tradizionalmente la modernità ha attribuito al sapere. Anche di fronte a prodotti culturali carichi di potenziale critico, l’egemonia totalizzante acquisita dal dogma dell’espressività – a cui potremmo associare il diritto all’estetizzazione – agisce in modo corrosivo: non permette al senso critico di fuoriuscire dall’opera, cosicché le merci culturali, anche quando esibiscono il loro potenziale antagonistico, si muovono come confermative rispetto all’esistente. È la scomparsa della critica; è la scomparsa della dialettica. In un mondo orizzontalmente simbolizzato, in cui la Legge – intesa, anche in senso psichico, come modello fondativo o regolamentazione sociale – viene continuamente aggirata, se non ostacolata, c’è spazio solo per un narcisismo espressivo privo di spirito critico. Ma è proprio nella storia della musica che si rende esplicita la necessaria alleanza che questo nichilismo artistico ha intrapreso con un sistema sociale e istituzionale: se è vero, come ha scritto Dufourt, che ci troviamo di fronte a «una classe dominante ormai improduttiva sul piano simbolico»6 – cioè capace di restituirci una narrazione possibilmente condivisa del nostro tempo –, è vero allo stesso modo che tale improduttività ha beneficiato dello spalleggiamento di istituzioni, centri di ricerca, sistemi di controllo del consenso, occupazione di cattedre, chiusure autoreferenziali ed elitaristiche di gruppo. In una sola parola: del potere.
Il risvolto è la cesura, fortissima, tra una produzione musicale ritenuta sempre più incomprensibile e il pubblico (non solo la massa, anche quello degli ascoltatori specializzati). In senso davvero gramsciano, abbiamo assistito negli ultimi anni al consolidamento di un dominio culturale interno a quella fase regressiva e postmoderna di cui ho tracciato, in modo certo riduttivo, i contorni, e tale dominio, per trasformarsi in “discorso” condiviso, si è sedimentato in strutture di potere ben definite che hanno finito per mantenere quello scollamento tra arte e società che forse ritenevano, almeno in primis, di combattere. Mi riferisco a un fenomeno tutto musicale che ha contraddistinto gli ultimi decenni: quello che chiamo, con una definizione ossimorica, “eterno avanguardismo” e che, nella vulgata, sempre semplificativa, abbiamo imparato a riconoscere come “musica contemporanea”. Sappiamo bene che l’avanguardia ha un senso se calata in una dimensione storica progressiva: rappresenta il sano momento di rottura nei confronti di una tradizione che si è incancrenita e stabilizzata in forme costrittive. Lo aveva compreso con arguzia Enrico Fubini in un saggio dei primi anni settanta del secolo scorso, quando avvertiva che «Chiedersi [cosa] significhi oggi la musica e la poetica dell’avanguardia nel contatto della nostra civiltà musicale è già una domanda che ci pone fuori dall’avanguardia stessa, quesito palesemente “storicistico” per un musicista d’avanguardia il quale persegue l’ideale di una musica assoluta, destoricizzata». E concludeva: «la disperata battaglia dell’avanguardia contro il formalismo che essa identifica con la tradizione, si risolve in un formalismo ancor più esasperato e radicale e come ogni formalismo ha il suo risvolto mistico e reazionario»7. Affermazione, quest’ultima, davvero preveggente (una vera lezione per i falsi marxisti che associano la rivoluzione allo sviluppo tecnico), perché, collocata quarant’anni dopo, spiega come l’eterna avanguardia si sia perfettamente integrata nelle logiche dell’industria culturale, e soprattutto nelle logiche di una borghesia riformista, salottiera e televisiva che ha inglobato in sé i peggiori vizi del berlusconismo.
In un’epoca dominata dalla manutenzione dello scandalo e dall’ideologia nichilistica della finis historiae, in un’epoca che ha rinunciato a intraprendere un rapporto dialettico con il passato, qualsiasi pretesa avanguardistica rischia di essere facilmente neutralizzata da quell’inflazione della “novità” che rappresenta la regola aurea del mercato capitalistico: produrre sempre nuova merce. Così, nella storia della musica, almeno a partire dalla data segnaletica del 1945, assistiamo a un rinvigorirsi delle pretese avanguardistiche, unite dall’obiettivo di compiere una battaglia senza quartiere verso l’idea istituzionalizzata di Musica, che di fatto produce, sotto il dogma del neoserialismo post-weberniano, il costituirsi di una consorteria, di un gruppo chiuso e autoreferenziale che sposa la causa della non-comunicazione sociale. Ciò che distingue questa neoavanguardia europea figlia di Darmstadt (con i dovuti “distinguo” per chi, come Nono, Henze e altri da quell’esperienza presero lentamente le distanze), e del tutto speculare ai tentativi anarchici di Cage e altri di elidere il momento decisionale a favore del caso nell’atto compositivo, dall’avanguardia storica primo-novecentesca (di cui non fa parte solo la scuola viennese di Schoenberg e Berg, ma anche la rivoluzionaria carica timbrica di Debussy e Ravel, che non poco sconvolge un’armonia fondata sui legami intervallari) è il matrimonio con la razionalità tecnologica e con un anti-umanesimo di matrice strutturalistica. Avviene, cioè, un’integrazione perfetta all’interno dei meccanismi produttivi del tardo capitalismo e un’adesione incondizionata a quella svolta postmoderna che fa della feticizzazione culturale uno dei suoi portati sostanziali. Nasce così, in virtù della lacerante cesura con il pubblico, una musica amministrata, controllata da apparati di potere sedotti dall’elitarismo: una sorta di accademismo astorico e permanente8. I rivoluzionari si sono trasformati, così, nei più gretti conservatori.
Si potrebbe obiettare, come molti fanno, che tale destino era insito nella storia del trattamento sonoro. In realtà, non è esistita un’unica via alla musica contemporanea. Lo sapeva bene Schoenberg, quando sottolineava che la dodecafonia è una metodologia tra le tante. Non è esistito solo il neo-serialismo o lo strutturalismo integrale di Boulez (uno degli ultimi uomini di potere della musica contemporanea): un’intera tradizione – non vogliamo dire se peggiore o migliore – è stata dimenticata, esclusa dai canali istituzionali, vittima di un conservatorismo che ha voluto assumere le sembianze del progressismo (come spesso accade, la carica utopistica della rottura rivoluzionaria è pronta a tramutarsi infantilmente in becera reazione…). Anche Adorno – divenuto, non se ne conosce il motivo, il padre putativo dell’avanguardia, secondo un volgarizzamento di cui dev’essere ancora scritta la storia – è stato responsabile di qualche grave dimenticanza: accanto a Stockhausen, Posseur, Cage, Varèse e altri, esiste un affluente altrettanto radicale che ha i nomi di Stravinskij, Bartòk, Hindemith, Shostakovich, che però, per varie ragioni, non ha saputo conquistare egemonia e consenso. Non si tratta, come potrebbe apparire, di una questione di revanscismo storiografico: il consolidamento di un apparato produttivo musicale consolidato ha tutti i caratteri di un sistema di potere. Le conseguenze di tale potere fanno il paio con l’analfabetismo musicale di massa dei nostri tempi: non a caso, speculari all’iper-artificiosità dell’incomprensibile avanguardia contemporanea sono quei fenomeni di semplificazione e banalizzazione del sapere musicale, probabilmente più vicini al mercato, ma non tanto dissimili dalla corazzata elitaristica di cui si parlava, per ragioni di autoreferenzialità e malafede culturale. Mi riferisco a certe banalizzazioni linguistiche provenienti da compositori, persino rispettabilissimi, come Pärt, o a un certo incancrenirsi del minimal, fino ad arrivare agli esempi di furbizia italica che non vale la pena neppure citare. Accanto a ciò, tuttavia, finanche deplorevoli possono apparire certi repentini cambi di opinione di chi ha fatto del dogmatismo avanguardista una ragione di vita e di potere: mi riferisco agli inviti a dilettarsi nell’offerta molteplice di gusti ed espressioni nella nostra postmodernità senza regole. E tuttavia esiste oggi, anche in Italia, una musica che con la tradizione del Novecento, con un senso cioè storico e condiviso delle radici, del percorso da compiere, intrattiene ancora un legame sincero e fertile: si tratta di compositori di periferia, ostacolati dal centro, di cui – anche in questo caso – deve essere ancora scritta la storia.
Insomma, l’attuale sapere musicale sconta le difficoltà che sono proprie dell’umanesimo in un periodo di sfilacciamento del tessuto culturale e sociale. Alla disintegrazione della collettività, al privatismo di questi decenni, allo snobismo gratuito degli intellettuali di casta, occorre offrire una risposta che riabiliti una tensione universalistica, una carica civile, una rinnovata coesione e una rinata cooperazione. A partire dall’educazione estetica, che ha bisogno, specie nel caso della musica, di una trasformazione politico-istituzionale evidente, prima che – per fare un esempio – i nostri conservatori si mutino in accademie delle spettacolo o in avamposti della televisione. È un percorso difficile: allo sguardo dell’apocalittico bisogna ancorare la vista lunga di chi costruisce, opera, si spende per l’alternativa.
1 Theodor W. Adorno, Dissonanze [1958], a cura di Giacomo Manzoni, Milano, Feltrinelli, 19902.
2 Si veda su quest’aspetto Idem, La crisi dell’individuo, a cura di Italo Testa, Reggio Emilia, Diabasis, 2010: «L’individuo sembra ormai condannato a potersi mantenere in vita soltanto a patto di abdicare alla sua individualità, di cancellare i confini dell’ambiente, di rinunciare a una parte consistente della propria autonomia e indipendenza». Le conseguenze sul piano socio-culturale sono presto dette: «Dal momento che l’intera cultura tradizionale nella quale l’educatore vuole integrare gli uomini presuppone l’io e si appella ad esso, la possibilità dell’educazione culturale diviene per ciò stesso estremamente problematica in partenza» (p. 57).
3 Per un quadro orientativo si ricorra almeno a Fredric Jameson, Postmodernismo. Ovvero, la logica culturale del tardo capitalismo [1991], Roma, Fazi, 2007 e a David Harvey, La crisi della modernità [1990], Milano, il Saggiatore, 1993.
4 Cfr. Roberto Finelli, Tra moderno e postmoderno. Saggi di filosofia sociale e di etica del riconoscimento, Lecce, Pensa Multimedia, 2005.
5 Cfr. Raffaele Simone, La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Roma-Bari, Laterza, 2000.
6 Hugues Dufourt, Musica, potere, scrittura [1987], Lucca, LIM, 1997, p. 141.
7 Si è variamente citato dal saggio «Intedeterminazione e struttura nell’avanguardia musicale», contenuto in Enrico Fubini, Musica e linguaggio nell’estetica contemporanea, Torino, Einaudi, 1973, pp.130-131 e 132.
8 Hugues Dufourt, Musica, potere, scrittura cit., p. 157.