Dante mirando Pisa in gran dispittodi Luca Baiada

S’è voluto far tutto nel suo nome, in un bel maggio pisano. Ma del Tosco, in fondo, non s’è parlato abbastanza. E lui, per noi, non l’hanno fatto parlar punto.

Dante prima, con la D di un colore e le altre lettere di un altro. Questo, col gioco d’effetto, il titolo di quattro giorni di cose d’arte e cultura, nella città che lui bollò come vituperio de le genti. Dante, ma in anteprima, perché l’obiettivo era un anticipo delle celebrazioni del 2021: settecento anni dalla morte. Promotori, oltre agli enti locali, i principali istituti culturali pisani, e sono fra i più prestigiosi.

Purtroppo l’insieme è stato deboluccio, e non solo per via del bel tempo che invitava a godersi il tremolar de la marina.

Le lezioni monografiche, va detto, erano dottissime come i relatori. Ma aleggiava un senso di augusta polvere, di canterale, di distanza incolmabile. Via, animo, trasgredire! Il fiorentino osò in volgare quando i dotti scrivevano in latino, e i dodda biascicavano il latinorum. E che volgare: culo, merda, trullare, puttana, bordello. A parlar così, gli accademici che hanno discettato a Palazzo Gambacorti (Dante e la lingua italiana) e a Palazzo Blu (La Chiesa e Dante), splendide sedi sul Lungarno, è difficile figurarseli.

In cattedra con quei toni, si sentirebbe meglio la voce – ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora – di quei pesciai e quelle erbivendole di piazza delle Vettovaglie o piazza Sant’Omobono, dietro Borgo Stretto. Si può ancora ricordarli chiamare dai banchi con «ni garba grosso, ’r gobbo, alla sora sposa…», oppure «ir popone ’ostì, giuraddio se gli c’entra ’n der fagotto ’un gli ci sorte…», con giunte ardite, non trascrivibili, che il direttore dell’«Osservatore romano» non ripeterebbe a Palazzo Blu. Inutile cercare quelle sorgenti di vernacolo schietto: piazza delle Vettovaglie ora sa di birra e spaccio chimico. Però giri Fortuna la sua rota / come le piace, e ’l villan la sua marra.

Nel convegno Impero, tiranni, comuni alla Scuola normale superiore, la statura dei relatori era sopraffina. Ma il realismo dantesco cos’era? la storia, quella che ci fa leggere il presente, dov’era? Dev’essermi sfuggito, a proposito di tirannidi, un cenno a quel Giovanni Gentile, direttore della Normale sotto il fascismo, e a quell’Aldo Capitini, coscienza nitida, antifascista che prima difese Gentile al momento della nomina, perché stimato filosofo, e poi fu ripagato, proprio dal filosofo, con la cacciata dalla Scuola, perché non aveva la tessera del fascio. Dovette tornare a Perugia, Capitini, nella casa del padre campanaro, braccato per i suoi libri dal titolo dinamitardo, tipo Elementi di un’esperienza religiosa. Capitini, lui sì: Libertà va cercando, ch’è sì cara. A Pisa non serbò rancore: «Una città così cara per quell’insieme luminoso di aspetti nobili e toscanamente paesani», scrisse.

L’impero e i tiranni. Ma in Toscana si assaggiano anche le libertà: comunali e dei partigiani fiorentini, che porsero a Gentile un conto preciso, quello che Martin Heidegger non pagò. Su Gentile e i suoi modi d’accademico – certi baronaggi accademici, a Pisa e in Italia, sono eterni: prefascisti, fascisti, postfascisti ed eurounitari – rileggere le parole di Mario Spinella in Memoria della Resistenza. Riprendere anche l’opinione di Gianfranco Sarfatti, sul filosofo: «Non ha diritto di sopravvivere. Si può perdonare a un povero, a un ignorante – ad un intellettuale mai».

Ancora sui tiranni, sui ribelli e su Dante. Nella Firenze occupata, Enzo Enriques Agnoletti vede un gruppo di partigiani: appoggiati al muro della ferrovia, discutono, si accorgono di urlare e vien loro in mente urlar li fa la pioggia come cani. E la mano del popolo, nell’agosto 1944 subito dopo il ritiro tedesco, sceglie proprio il muro sotto la statua di Dante, per scrivere: «In sul passo dell’Arno / i tedeschi hanno lasciato / il ricordo della loro civiltà».

A Pisa, sul Mito risorgimentale di Dante, la conferenza ci stava tutta. Per assaggiare la questione, rifarsi a un libro di formazione stampato sin dal 1846, il Sommario della storia d’Italia di Cesare Balbo, che raccomanda ai patrioti, appunto, Dante: «Una fatica, ma la più virile, la più sana fra le esercitazioni somministrate dalle lettere nazionali ai molli animi italiani». Giovanni Bovio, a un intervistatore che sul finire del XIX Secolo gli chiede della sua istruzione, racconta la povertà, e poi: «Mi accostai a Dante, che amai sopra a tutti, reputando oscuri quei tempi che si allontanano da lui». Non solo la povertà, costringe a scelte selettive delle letture. Su Dante in situazioni estreme, vanno ricordati gli italiani deportati nei Lager, per esempio Adler Raffaelli, che leggevano la Commedia con tenacia.

Sempre a Pisa, la lettura di poesia in Piazza dei Miracoli ha avuto per sfondo uno dei più superbi battisteri d’Europa, non so in che gara con gli altri toscani e padani, ma certo il più armonico allo sguardo. Peccato che i colori e gli arnesi del palcoscenico, a poca distanza, ci spalmassero sopra un effetto torta e balocchi. Non ho ascoltato tutti i presentatori dei loro versi; sono andato via quando ho inteso un omino, in fondo al prato. Rinsaccato in una giacchetta di fustagno, di quelle da barrocciaio, rimasticava la battuta che si dice aver posto fine a una serata letteraria, su per giù un secolo fa, in Toscana: «O poeta esco-da-me, è finiiito?». Di gusti arcaici, l’omino, certo superati dai tempi. Forse, bria’o, ricordava il poeta futurista Escodamè, al secolo Michele Leskovic.

Da vedere, lo spettacolo Inferno Novecento. In prosa, versi sciolti e terzine incatenate, offriva qualche ibridazione interessante con le storie di Pasolini, Haydée Santamaria e altri. David Riondino alla chitarra, immerso con misurato garbo nei canti danteschi, riscattava una serata che poteva aver più polpa. Rugumar può, ma non ha l’unghie fesse.

La pagina più alta per un poeta l’ha offerta – che cosa triste da ammettere – un giurista: Giovanni Maria Flick. Con Dalla Liberazione alla Costituzione ha confermato di essere quel ministro che nel 1996 impedì la liberazione dell’assassino Priebke e permise un po’ di giustizia sulle Fosse Ardeatine. I collegamenti di Flick tra la Costituzione e Dante erano esili, ma ha ammesso che se la Carta del 1948 la conosce bene, invece la Commedia ha bisogno di rileggerla: dei buoni, si ammira la sincerità. Giudice Nin gentil, quanto mi piacque / quando ti vidi non esser tra ’ rei!

L’intervento di Flick, nella sala degli stemmi della Normale, è stato assai disturbato dalle prove in piazza della Dante Symphonie di Franz Liszt. A proposito, Liszt scrisse sulla musica italiana parole piuttosto sprezzanti. Certo, un legame con Pisa ce l’ha, e non solo perché ci soggiornò con l’amante, ma per un seguito stilistico. Un’allieva di Liszt fu maestra della pisana Velia Gai, che insegnò pianoforte dagli anni venti fino alla seconda metà del Novecento: aveva casa fra San Sisto in Cortevecchia e l’Orto botanico.

Eppure, viene da chiedersi se ci fosse bisogno proprio di Liszt, o se non fosse il caso di servire una pietanza nostrale, al pubblico che, davanti a quel che resta della Torre della Fame, dove morì il Conte Ugolino, sgranocchiava i brigidini. La bocca sollevò dal fiero pasto. Si poteva nutrirli con qualcosa dalla Pia de’ Tolomei di Donizetti, o dal Gianni Schicchi di Puccini. A voler evitare il nazionalismo, una Francesca Da Rimini di Čajkovskij o di Rachmaninov.

Nell’insieme, e reso omaggio ai chiarissimi relatori, l’approccio alla Commedia è rimasto scolastico, e questo non è un problema pisano. A distanza di secoli, il cortocircuito del realismo sulle cose e del realismo sui sentimenti, cioè la questione della sincerità dell’intellettuale, sembra l’elemento più indigesto. Quando pensiamo a Dante, al realismo rubano il posto la perfezione stilistica, la suggestione del viaggio oltremondano e soprattutto il castigo (l’attenzione è catturata dall’Inferno). Il nostro senso di colpa è proporzionale alla nostra diserzione dalla vita, all’autocastrazione sentimentale.

Ma lui, nell’incontro con Bonagiunta Orbicciani, chiarisce: I’ mi son un che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’ e’ ditta dentro vo significando. / «O frate, issa vegg’io – diss’elli – il nodo / che ’l Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i’odo». Ecco, quel nodo, che va oltre i pregi del notaio Iacopo da Lentini e di Guittone d’Arezzo, si fatica a scioglierlo. L’idea che un esule scriva per amore, anzi che amore si legga esilio, e quindi che il lascito di un poeta non sia una vetrina delle agenzie di estetizzazione, sembra così fastidiosa, che si fa passare Dante per un santo senza aureola, un enigmista, un moralista, un illustre seccatore, tutto purché stia in una scatola. Come mai? E come si cambia?

S’io avessi le rime aspre e chiocce saprei spiegarlo. So solo che l’amore, il pulsare della vita stessa, anche ai dotti insegna certo delle cose, ma faticano a raccontarcele. Di realismo, più che nei convegni filologici, ce n’è in quella canzone di Riccardo Marasco: «Su’ i’ principio d’i’ Milletrecento / la Beatrice faceva la spesa / a i’ mercato di via dell’Ariento, / e diceva alla sora Teresa: / “L’è una cosa che la ’un si rimedia, / creda a me non si tira più avanti: / tutto i’ giorno mi fa la Commedia, / poi la notte la passa ’n su’ Canti. / Un giorno o l’altro, / te lo saluto, / piglio i’ fottuto / e me ne vooo…”».

Ma anche questo è un alibi, perché non è di toscaneria caricaturale che c’è bisogno, nella regione dove la criminalità organizzata ricicla i soldi in fungaie di appartamentini sfitti o non terminati, o in aziende agricole supertecnologiche, o in vinerie in aperta campagna, tutte uguali dalla Maremma al Chianti, linde come atelier di moda, e magari con hostess russa in tacchi a spillo. Ipocresia, lusinghe e chi affattura / falsità, ladroneccio e simonia / ruffian, baratti e simile lordura.

C’è ancora popolo, in Toscana? È passato qualche annetto, da che Giuseppe Giusti scrisse a Massimo D’Azeglio: «Noi Toscani siamo i più curiosi, i più sgloriati, i più beati pacifici della penisola. Sono trecent’anni che ci cullano: si sarebbe addormentato anco non so chi mi dire; pure quando c’è chi rammenta che tempo fa si vegliava, si sente di volergli bene, e quasi quasi ci stiriamo e ci cominciamo a infilare le calze». Eppure dopo la Liberazione, anche lo scrittore lucchese Guglielmo Petroni, uscendo dalla chiesa di San Frediano, sentiva un problema: «Lasciando dietro a me quella penombra vasta e sonora ero vecchio di tutti i secoli, vecchio come tutti gli uomini della mia terra, avevo le spalle enormi sotto il peso di tutto quel passato laborioso e profondo».

L’occasione del settimo centenario, allora, non va mancata. Ci sono cose da tenere presenti: ché saetta previsa vien più lenta. Qualche idea, facendo dialogare il centro e la periferia.

A Pisanova c’è un ecomostro vuoto da anni: due corpi di fabbrica, alti più o meno come la Torre. Ideale per cornici del Purgatorio, coi personaggi affacciati da quello scheletro, a gridare le miserie del ventunesimo secolo, cominciando con quelle del Valdarno e comprese le fumisterie letterarie d’Italia e politiche d’Europa. Occorre amplificazione.

Secondo una leggenda corrente al tempo di Dante, Maometto era un cardinale scismatico (per questo, lo fa parlare di Fra Dolcino). Visione datata, eppure la questione dell’Islam è aperta. Chi sarebbe in grado di parlarne, a Pisa? Provare, ma non al chiuso: dall’alto del Duomo, fuori, dove sul tetto c’è un grifo di arte fatimide, forse la più grande scultura zoomorfa dell’arte islamica, per di più con un buco di fucilata. È una copia, ma va bene lo stesso. Ecco un bel pulpito per una conferenza su Oriente, Occidente, nazionalismo, colonialismo, osservanza, eresia. Occorre servizio d’ordine.

Del viaggio di Odisseo, invece, fatti non foste a viver come bruti, si può parlare vicino alla porta del Duomo, quella di fronte alla Torre. Nelle ante bronzee ci sono una Fuga in Egitto e una cavalcata dei Magi tra le più struggenti dell’arte plastica cristiana, ma a pochi metri è murato un rilievo: due navi, una torre col fuoco in cima. È il faro di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo ellenistico, e non c’è un turista che lo guardi. Ma minareto, nell’etimo arabo, significa faro. Chissà perché. Ci sarebbe da ragionarci, a Pisa: basterebbe uscire dai palazzi dove la cultura è nelle mani del potere politico.

Dalle mura decrepite della città fortificata, da quelle pietre squadrate, muffite o riarse dal sole, si può parlare di nazione, cittadinanza, popolo. C’è un tratto della cinta muraria fra la Porta a Lucca e San Zeno: lì vicino, nel 1924 fu gettato il corpo di Ugo Rindi, ucciso dai fascisti, e vent’anni dopo ci fu un rifugio antiaereo, insufficiente a difendere dalle bombe. Così s’osserva in me lo contrapasso. Dall’alto di quelle mura, ricordare Sapia, la senese che esultò per la sconfitta dei suoi concittadini, e nel purgatorio, con gli occhi cuciti, vede meglio le forme dell’anima: O frate mio, ciascuna è cittadina / d’una vera città; ma tu vuo’ dire / che vivesse in Italia peregrina. Giovarono, a lei di famiglia nobile, le preghiere di un pettinaio (e poi dice che dal parrucchiere si perde tempo). Occorre un regista senza pregiudizi.

La Cittadella è una magra ricostruzione, dopo le distruzioni belliche, delle fortificazioni fluviali a valle. Vicino, aveva sede il reparto di artiglieria che nel 1870 aprì la breccia per la presa di Roma. Per coincidenze da valorizzare, da un lato c’è il vecchio Macello pubblico, di là d’Arno si va alla casa dove Mazzini morì sotto falso nome. Qui, nello spiazzo fra ciò che resta degli arsenali della repubblica marinara, ragionare sull’Unità d’Italia. S’elli han quell’arte – disse – male appresa, / ciò mi tormenta più che questo letto. Evitare i fuochi d’artificio.

Nella parte smessa degli stabilimenti della Saint-Gobain, a Porta a Mare, prima che l’area diventi appartamenti robotizzati e servizi commerciali da sballo, riprendere il Paradiso. Ma rivisitarlo attraverso Peter Weiss per parlare del Novecento, dei suoi sogni e incubi, del processo Eichmann e di quello di Francoforte. E anche del bombardamento di Pisa del 1943, che sfigurò il quartiere: migliaia di morti, una ferita atroce nella memoria cittadina. Industria, sviluppo, guerra, consumismo, centri commerciali, gentrificazione, domotica, tecnologia. E poi, dall’alto di un serbatoio o di una ciminiera, Weiss: «Per me si va nella città / che non è affatto dolente / per me si va dove tutto si raggiunge / per me si va tra la gente che sempre / è vincente. […] Dante: Questo ora so / che esiste un solo castigo / e questo castigo si chiama oblio / e il suo ultimo stadio / si chiama perdita del proprio nome». Occorre uno scatto in avanti della cultura. Per correr miglior acque alza le vele.