di Mario Monforte
Manovre politiche: voto subito, voto no per ora, dopo settembre, al termine naturale della legislatura. E Renzi, convinto di quanto Lotti dixit, «40% alle europee, 40% al referendum», mira «al 40%» e punta alle elezioni quanto prima – occultando il colpo delle elezioni amministrative e il disastro del referendum. I suoi lo confermano leader Pd alle elezioni, e, grazie all’attuale composizione della Consulta, ha ricevuto un paio di “aiutini” non da poco: castrato del quesito sul Jobs Act il referendum della Cgil (lo avrebbe senza dubbio cassato) e legittimato il premio di maggioranza (per cui era stato giudicato illegittimo il Porcellum) per la lista che consegua (appunto!) il 40% dei voti validi. Ma pur se “avanti a tutta protervia”, le cose non cambiano: la “botta” del 4 dicembre è devastante per Renzi e “tutto” il Pd, e il prosequio di Renzi con il governo Gentiloni non ne migliora le sorti, anzi le logora ancora. E il Pd è a pezzi: l’opposizione interna, pur sempre à la “re tentenna”, è rafforzata; D’Alema organizza le forze e agita la scissione per un’altra formazione (data dal 10 al 14% di consensi); Emiliano minaccia ricorsi alla magistratura (senza congresso prima delle elezioni), altri affilano le armi. L’idea di Renzi di tenere in pugno il partito con le ravvicinate elezioni, dando a intendere di vincerle, è infondata. Ma Renzi, con i suoi, non è stolido a tal punto: mira (e mirano) a restare in sella nonostante i disastri, con esito elettorale su cui contrattare per il governo.
Il fronte del centrodestra invoca la necessità della propria unità, sempre con il feticcio del 40%, ma è spaccato, su linee profondamente diverse: Berlusconi, con il “grosso” di Forza Italia, disponibile, nonostante le dichiarazioni pre-elettorali, a un rinnovato governo da Grosse Koalition, magari non con Renzi, e perciò tende a procrastinare le elezioni, per avere un Pd piú ridotto e un Renzi piú screditato (oltre ad attendere una sentenza liberatoria per la sua candidatura dalla Corte europea); Salvini, con la Meloni, e anche qualcuno di Forza Italia, è contro ogni accordo con il Pd e piú affine a quanto si muove in Francia (il Front National della Le Pen) e altrove (Germania, Austria, Olanda, la Gran Bretagna con la Brexit e seguenti, per non dire del successo di Trump negli Usa), e perciò richiede elezioni subito, per utilizzare l’ondata anti-Renzi & Pd e le spinte che vengono dall’estero.
Tralasciando, per ora, altri fattori, quali il cosiddetto “centrismo” (dal peso elettorale infimo), le mosse della sinistra a sinistra del Pd (di non rilevanti voti, e divisa fra andare contro e dare sostegni al Pd, contro lo spauracchio: la destra), lo svolgersi degli scontri nel Pd, ebbene, c’è il M5S. I sondaggi, certo screditati – Brexit come perdente, la Clinton vincente, successo renziano al referendum –, però danno i 5S a livello elettorale pari o anche superiore a quello piddiino. E non pare che i ripetuti “problemi” nella gestione del Comune di Roma, né gli “sfrangiamenti” avvenuti (Pizzarotti e altri), né il flop del fallito cambio di gruppo (da con Farange a quello con i liberali) al parlamento Ue (di cui, da noi, non importa granché a nessuno), abbiano inciso sulla massa dei consensi. E i 5S richiedono elezioni subito, per capitalizzare i successi ottenuti dalle amministrative al referendum.
Le manovre politiche avvengono mentre i “nodi” del nostro paese si stringono, né si intravedono vie non diciamo di soluzione, ma nemmeno di qualche operazione per affrontarli: l’agognata «crescita» non esiste (a parte qualche indice da prefisso telefonico sciorinato dall’Istat) e l’occupazione pseudo-stabile del Jobs Act è fallita (com’era previsto); l’inettitudine di fronte a terremoto, terremotati e nevicata (detta) «eccezionale» è acclarata; la farragine dispotica e demenziale del funzionamento degli apparati statali lo è altrettanto; lo sforamento, nonostante tali pochezze, dei parametri Ue di bilancio è stato inevitabile e il governo Gentiloni si sbraccia per almeno rinviare la “manovrina” aggiuntiva «chiesta dall’Europa», ossia altri tagli e tasse (en passant: il bravo Bagnai in tv fa rilevare che è dimostrato in ogni studio econometrico come per un punto di spesa statale tagliata, si abbia un punto e mezzo di Pil in meno, quindi di minore esazione fiscale, per cui si continua a stare in un circolo vizioso: al che … nessuna considerazione); la perdita di pezzi essenziali della capacità produttiva del paese continua (è intaccata o passa in mani altrui); il sistema di istruzione e formazione è in bancarotta fraudolenta (non solo, ma anche grazie alla renziana «Buona scuola»), né vi sono sbocchi significativi per i giovani; il sistema pensionistico, massacrato dal seguito di “riforme” fino a quella sconcia della Fornero (e da attribuzioni assistenziali indebite), è solo indecente; l’enorme flusso di immigrati continua in un’Italia che è chiusa dal blocco degli altri paesi europei (né l’attivismo del ministro dell’Interno, Minniti, con il tour in Africa e l’idea di piccoli Cie in tutte le regioni, pare dare risultati significativi). E, soprattutto, sullo sfondo, avanza il rovesciamento (strutturale, se non si inverte l’andamento) della «società dei due terzi», sempre piú verso solo un terzo di “serviti” e “inseriti”, pur molto stratificati, – sotto una ristretta élite di miliardari, e il meno del 10% della popolazione che ha oltre il 50% delle ricchezze –, e i due terzi di “mal serviti”, “poco inseriti”, fino agli emarginati e infine gli esclusi – secondo statistiche già “accomodanti”, un italiano su quattro è «in povertà» e circa 10 milioni sono «a rischio» (che significa?), e non si dice dei milioni che tirano la cinghia fra cento ristrettezze. Né appaiono prospettive “altre” che lo strascicarsi in questa situazione: continuando cosí, definisce ancora bene il nostro paese quel motto francese che recita le futur n’a pas d’avenir.
Che risposte potranno dare le elezioni? Sono importanti: per vedere se si apre o no una conduzione diversa della situazione. Né è secondario vedere i tempi, con la discussione sulla legge elettorale, detta «disomogenea» per Camera e Senato: per quest’ultimo non c’è il premio di maggioranza al 40% – però, data la rilevante proporzionalità della legge disegnata dalla Consulta, il 40% appare improbabile, quindi la questione sembra pretestuosa. A ogni modo, se le forze non di governo pro elezioni subito (entro un paio di mesi: tempi legali) non le possono imporre, lo potrebbe Renzi: basta ritirare i ministri piddiini dal governo. Ma non può, dato il partito a pezzi, al di là delle sue rodomontate. Tuttavia le elezioni comunque vi saranno (con un Renzi e Pd piú o meno ulteriormente screditati). Quale scenario si profila? E la forza che avrà un peso determinante, il M5S?
Becchi, aderente al movimento e poi fuoriuscito, profetizza che i 5S andranno a un accordo di governo con il Pd. Può essere possibile, dati la natura “ancipite” del M5S (che si dichiara «né di destra né di sinistra»), il tentativo di passare dal gruppo «euroscettico» con Farange a quello filo-Ue, le posizioni non proprio decise su euro e Ue, il voto a una serie di misure proposte dal Pd. Possibile, ma ben poco probabile. Non solo perché gli esponenti del movimento ripetono sempre «nessuna alleanza», ossia anche il M5S punta al 40% dei consensi effettivi: il che è possibile, però a sua volta poco probabile, dato il carattere proporzionale delle future elezioni. Dunque, alleanze in parlamento sono inevitabili. Con il Pd? Sarebbe rapida la caduta di consensi di un movimento che, al di là di specifiche convergenze, ha fatto della campagna anti-Pd e anti-Renzi una sua ossatura. Inoltre, significherebbe che il M5S si schiera con la forza piú appiattita sulla fase attuale del capitalismo, detta «globalizzazione», e piú schierata per il suo proseguimento: fase in crisi e in caduta, in tutto l’Occidente. Ed è perlomeno dubbio che il M5S scelga questa opzione. Quindi?
Il M5S ha una forza di fondo: la capacità (dimostrata anche nelle recenti amministrative, nonché nella campagna referendaria) non solo di intercettare dissenso, contraddizioni, istanze, di ampia parte della popolazione, ma anche di situarne le prospettive di soluzione a livello della coscienza diffusa e (finora) radicata nella popolazione stessa. Mi spiego. Quello che risulta l’impianto dei 5S è il seguente: se si conduce la gestione delle “cose” con correttezza, legalità, onestà, contro ogni corruzione e concussione, contro ogni privilegio e cialtroneria, le “cose” andranno bene. Perciò, si affidi questa gestione a noi, che peraltro decidiamo tutto in modalità di «democrazia diretta». Mettiamo da parte questa (presunta) «democrazia diretta» (si tratta dei voti via web su proposte della direzione, in genere approvate a stragrande maggioranza: è un allineamento con il dilagante uso di computer e «rete», mentre la democrazia, senza aggettivi, è tutt’altro, e certo non è nemmeno il sistema vigente della delega a pochi «rappresentanti»). Vediamo, invece, le contraddizioni insite nella linea di fondo: il sistema, se pur usato con la massima correttezza – il che è già arduo, dato che la siepe impaniante dell’oppressiva burocrazia, delle limitazioni legali e dei vincoli di spesa, rende difficile prendere decisioni concrete e non incorrere in “falli” –, non è affatto neutro, ma è stato posto, e si è formato e dispiegato, come funzionale. A che? Al fatto che il politico (lo statuale, nelle sue articolazioni, dal basso al centro) ha il primato decisionale, ma questo primato serve alla priorità dell’economico (capitalistico, al suo modo d’essere e funzionare, alla perpetuazione dei suoi rapporti costitutivi, di potere, di produzione, sociali). Perciò non lo si può usare cosí com’è, ad libitum. Però i 5S vogliono alcune misure specifiche, in sé possibili, fra cui in primo luogo il «reddito di cittadinanza» (da estendere come entità, circa di € 780, anche alle pensioni minime). Ma, a parte le restrizioni piuttosto forti che lo segnano (accettare entro tre anni un’occupazione, pena perdita del reddito, ecc.), come si connette (per non essere solo un sussidio di disoccupazione, già presente in vari altri paesi, come residuo del Welfare) alla situazione economica in affondamento del nostro paese? E come si pone rispetto al dominio delle modalità capitalistiche che la determinano? Senza un piano produttivo altro, la proposta non appare avere il carattere salvifico a essa attribuito. Certo, nel movimento si è parlato di «decrescita», ma non sembra essersi tradotta in qualche progetto operativo. Di piú: un’operazione che miri a risollevare davvero le sorti del paese e della sua popolazione, non può prescindere dalla modifica profonda degli apparati statali, dal “fare i conti” con Ue-euro (e Nato), con i trattati e rapporti internazionali (in primo luogo rispetto al Mediterraneo, verso il Vicino e Medio Oriente, il Nordafrica e l’Africa, per non dire dei rapporti con la Russia), e con il problema dell’immigrazione. Certo, soprattutto Grillo si è espresso contro la Nato, per il referendum sull’euro, per accelerare le espulsioni e contro lo ius soli, a favore di Putin e dell’elezione di Trump, ma tutto ciò costituisce solo punti sparsi: non una teoria, non un progetto, non un programma.
E appunto qui è la forza: prendere consensi da tutte le parti, senza approfondire, com’è per la gran parte della “gente”, spoliticizzata in maniera massiccia (dalla professionalizzazione della politica). Ma questa forza implica anche il suo opposto, la sua debolezza: se le promesse di soluzione effettiva di “nodi” e “problemi” di fondo non procedono (come succede in diverse gestioni comunali, che scivolano al piú su una dignitosa amministrazione corrente) – e non lo può, se non si punta a «prendere il toro per le corna» –, la disillusione, il discredito e il distacco si vengono traducendo in una frana. Questo il destino – a meno di piú decisi e convincenti mutamenti (con penetrazione e assimilazione nel movimento stesso) di analisi, progetto e programma – che incombe sul M5S.
In tali condizioni, che farà il M5S per, e post, le prossime elezioni? Escludendo un accordo con il Pd, rimettendo a un da vedere le fratture del Pd, mettendo in conto la sicura spaccatura del centrodestra in caso di profferta berlusconiana di cogestione al Pd stesso (o ciò che ne restasse), in caso di successo “grillino” e mettendo da parte le ipotesi fantasiose (pur dette da Di Battista) di un governo che cerchi la maggioranza in parlamento, le possibilità sono solo due: o il M5S sta all’opposizione, con la Lega e FdI, e (forse) i pezzi di sinistra extra Pd, e attende ancora «tempi migliori» (il che comporta un altro scenario, in cui non è escluso un logoramento anche dei 5S, accusati di “non concludere” infine mai); o il M5S accetta una convergenza (diretta – oppure indiretta, come maggioranza parlamentare, però allora piú debole e incerta) con la Lega (rispetto alla quale non mancano una serie di similarità, almeno su un insieme di punti espressi da Grillo), ma ciò richiederebbe una maggiore precisazione, almeno nel senso di collocarsi nella fase (già estesa in Occidente) del superamento della fase attuale del capitalismo (quindi di un pur parziale anti-liberalismo-scatenato), nel e da parte del movimento (a sua volta con rischi di altri distacchi di suoi esponenti e componenti).
Altro non si può dire, allo status attuale – se non ri-dire che manca ciò che occorre: un movimento di democrazia (senza aggettivi, e non rimessa al web) dal basso al centro, che porti una massa crescente della popolazione a fuoriuscire dalla spoliticizzazione e occuparsi (a rotazione) degli affari e interessi comuni, mutando la struttura dello Stato come comando altro e sopra la società, riacquistando la sovranità del nostro paese, e i settori produttivi vitali, bilanciandosi con accordi con la Russia rispetto agli Usa (e facendola finita con l’Unione anti-europea e il suo euro, nonché con la Nato), nella prospettiva di un’Europa mediterranea, mettendo sotto controllo le grandi imprese e incastonando il tessuto delle medie, piccole, piccolissime, procedendo al recupero e salvaguardia di agro-alimentare, ambiente, territorio, spazi urbani, in ciò rivitalizzando (solo qui sta l’unico modo) il sistema dell’istruzione e formazione. Ed è questa la via per il socialismo possibile (che ha niente a che fare con il «socialismo di Stato» o «reale»). Ma questa possibilità è già ardua a essere esposta e spiegata, e ancor piú a venire recepita – benché sarebbe bene cominciare a rifletterci e ad assumerla. E dunque, per il momento, non resta che seguire lo svolgersi degli eventi.