di Giancarlo Scarpari

All’inizio, per contrastare gli episodi di omofobia sempre più frequenti nel paese, in Parlamento erano stati presentati alcuni disegni di legge, poi unificati sulla base di quello originariamente proposto da Alessandro Zan. Sin dall’inizio, quando il testo ancora si trovava in Commissione Giustizia alla Camera, i vescovi italiani, con nota del 10.06.2020, avevano sottolineato che il provvedimento da un lato era inutile («non si riscontra alcun vuoto normativo»), dall’altro costituiva un attacco alle libertà individuali («rischierebbe di aprire a derive liberticide»). Il fuoco di sbarramento veniva poi completato dal vescovo di Ventimiglia, mons. Antonio Suetta («mi spaventa pensare che articoli stessi del Catechismo possano da un giorno all’altro diventare perseguibili per legge») e da Massimo Gandolfini, presidente del Family Day, che, senza mezzi termini, chiedeva il blocco dei lavori della Camera.

Il testo, tuttavia, il 04.12.2020, veniva approvato in prima lettura, a voto segreto, con 265 sì e 193 no; i deputati di FdI e quelli della Lega davano vita a una sceneggiata in Parlamento, inneggiando alla libertà e imbavagliandosi.

Trasmesso il disegno di legge al Senato, dopo quattro mesi di stallo, il 28.04.2021 il testo veniva infine calendarizzato, ma il presidente leghista della Commissione Giustizia, Andrea Ostellari, autonominatosi relatore, decideva di bloccarlo subito, disponendo l’audizione di 170 “esperti” (da Platinette all’ex magistrato Nordio), perché chiarissero ai senatori l’oggetto del contendere. Contemporaneamente Matteo Salvini e Licia Ronzulli introducevano un diversivo, presentando il 6 maggio, al Senato, un autonomo disegno di legge contro l’omofobia, che introduceva una generica aggravante per coloro che, in occasione di un qualsiasi reato, avessero «agito in ragione (?) dell’origine etnica, credo religioso, sesso, orientamento sessuale, disabilità»; anche per questo disegno di legge erano quindi previste le “necessarie” audizioni.

Il 17 giugno, la Segreteria di Stato vaticana inoltrava una «Nota verbale» all’ambasciata italiana presso la Santa Sede, con la quale sosteneva che «la criminalizzazione delle condotte discriminatorie per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sulla identità di genere avrebbero l’effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente regime concordatario». La Segreteria di Stato si augurava di conseguenza che «la Parte italiana possa […] trovare una diversa modulazione del testo normativo in base agli accordi che regolano i rapporti tra Stato e Chiesa e ai quali la stessa Costituzione repubblicana riserva una speciale menzione».

La Parte italiana – Il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri – per qualche giorno ignorava l’invio della nota; poi, una volta che questa veniva pubblicata dal «Corriere della sera», il presidente del Consiglio Draghi, sollecitato dal solo Fratoianni, evitando di parlare di ingerenza, affermava che il nostro non era uno Stato confessionale e che disponeva di strumenti adeguati per varare leggi che non fossero in contrasto con la Costituzione (consapevoli ovvietà, peraltro, subito condivise da un conciliante cardinale Parolin).

La stampa ha in genere rilevato, senza particolari commenti, l’intervento vaticano nei confronti di un disegno di legge ancora all’esame del Parlamento, mostrando in certi casi stupore per tale iniziativa e sembrando accorgersi, con un certo ritardo, che l’Italia è un paese concordatario.

Certo, la presente ingerenza è poca cosa rispetto a quella praticata nei confronti della nascente Repubblica, quando il Vaticano elaborava, nelle materie religiose, direttamente le norme da attuare in Costituzione, inviando, tramite il cardinal Pacelli, nipote di Pio XII, “un appunto” all’on Ruini, presidente della Commissione dei 75, con i desiderata della Santa Sede; o quando visionava preventivamente gli articoli redatti da Dossetti sullo Stato e gli altri ordinamenti, compreso quello della Chiesa e sulla libertà religiosa, suggerendo modifiche e convocando il deputato quasi settimanalmente presso la Segreteria di Stato; o quando, infine, insoddisfatto della votazione sui «culti ammessi», che per il Pontefice dovevano essere discriminati, la stessa Segreteria, tramite mons. Dell’Acqua, ne chiedeva conto per iscritto all’on. Tupini, con la richiesta di pubblicizzare i nomi dei democristiani assenti perché gli elettori più non li votassero (e il deputato chiamato in causa si doveva giustificare, assicurando l’interlocutore che già il partito aveva provveduto a richiamare i reprobi, anche «con minacce»)[1].

Erano altri tempi: il Vaticano pensava di poter far sorgere nel paese una costituzione naturaliter cristiana e a tal fine era sceso in campo con tutte le forze delle sue organizzazioni.

Del resto, già nel ’43, Gedda aveva offerto a Badoglio la disponibilità dei suoi militanti per partecipare al nuovo governo e gestire la cosa pubblica; nel ’46, poi, a Liberazione avvenuta, la gerarchia aveva puntato, sia pure con qualche riserva, sul partito dello scudo crociato e, in vista delle elezioni per l’Assemblea costituente, i militanti di Azione cattolica avevano presidiato le liste della Dc; successivamente, a ogni scadenza elettorale, i sacerdoti dal pulpito, violando le leggi dello Stato e la stessa norma concordataria che proibiva loro di fare politica, indirizzavano i fedeli a non votare, pena la scomunica, i partiti di sinistra e a convogliare invece le preferenze sul «partito cristiano».

Erano i tempi in cui Pio XII convocava in apposite udienze gli amministratori cattolici, ricordando loro sulla base di quali principi dovessero gestire Stato, province e comuni; e quelli in cui la gerarchia, dopo aver costituito la “corrente” dei giuristi cattolici, convocava i magistrati prescrivendo loro di non applicare le leggi «ingiuste», cioè contrarie ai valori della Chiesa ( e i vertici dell’Anm, nemici dichiarati dei vincoli derivanti dalla “politica”, si inchinarono devotamente di fronte a quelli provenienti dalla “religione”).

Successivamente, anche quando iniziò a declinare la prospettiva dello Stato cristiano, continuarono in Vaticano i pellegrinaggi di “folte schiere” di parlamentari di Camera e Senato e di funzionari di altri apparati dello Stato (memorabile fu quello dei 900 dipendenti del ministero degli Interni organizzato da Tambroni), episodi di sudditanza culminati simbolicamente con la genuflessione del presidente della Repubblica Gronchi e del liberale Martino dinanzi al Papa.

Con gli anni del centrosinistra e del Concilio queste pratiche pubbliche, proprie di uno Stato confessionale, lentamente cessarono e le prime leggi di uno Stato laico videro la luce, dopo prolungati contrasti in sede parlamentare e malgrado la ferma opposizione delle gerarchie e della stampa che a esse faceva riferimento. Il Vaticano cercò lo scontro aperto nel paese, ma dopo la sconfitta subita nei referendum sulle leggi “ingiuste” sul divorzio e sull’aborto, nel ’74 e nell’81, dovette prendere atto che se a parole la morale cattolica era egemone in vari strati sociali, lo era ormai molto meno nella coscienza e nelle scelte pratiche della ormai maggioranza dei cittadini (e la lenta, ma inarrestabile, desertificazione delle chiese stava lì a dimostrarlo).

Da allora il Vaticano evitò lo scontro nel paese, lasciò che le destre sventolassero le bandiere dei suoi valori più tradizionali (Dio, Patria e Famiglia), contestò ovviamente il sorgere di nuovi diritti (che riguardavano principi “non negoziabili”), ma concentrò, in concreto, l’asse della sua politica sulla tutela dei suoi interessi, continuando a sviluppare su questo terreno proficui rapporti di scambio.

E se Craxi, per ottenere il consenso di parte di quell’elettorato, si spinse a sottoscrivere un nuovo Concordato, che, eliminando alcune foglie secchie del vecchio, apriva le porte a più ampi privilegi per la Chiesa (l’art.7 del nuovo testo ha esteso i benefici fiscali alle attività svolte a fini religiosi e di culto e le intese successive hanno favorito la Chiesa nel riparto delle somme “non destinate” dai contribuenti nell’8 per mille della dichiarazione dei redditi), con Berlusconi la pratica dello scambio si è stabilizzata.

Un Vaticano indebolito, non più in grado di raccogliere attorno alle sue scelte l’intero mondo cattolico e poco incline a misurare la propria forza nell’ennesimo referendum, in occasione di quello appoggiato dalla sinistra sulla procreazione assistita, ha predicato l’astensione dalle urne in appoggio all’analoga decisione presa dalla coalizione di Berlusconi; ha evitato così il confronto sui valori e, giocando di rimessa, si è unito ancora una volta alle destre, per impedire questa volta il raggiungimento del quorum e per vanificare quel voto popolare che l’avrebbe altrimenti visto nuovamente perdente.

Il favore reso a quelle forze politiche è stato poi ricambiato, quando il governo Berlusconi, nello stesso 2005, con una circolare, estendeva, «per via interpretativa», le esenzioni fiscali agli enti religiosi anche per le connesse attività di ristorazione e accoglienza; e quando, dopo che il cardinale Barragon, ministro pontificio della Salute, aveva dichiarato che interrompere la nutrizione e la disidratazione a Eluana Englaro, ormai in stato vegetativo, costituiva un assassinio, al Senato la destra presentava il 06.02.2009 un disegno di legge in tal senso e si precipitava a votarlo tre giorni dopo (!), non riuscendo nell’intento solo per la sopravvenuta morte della Englaro. Questo “nuovo corso” veniva poi suggellato dal presidente del Consiglio in persona, che, rovistando nel passato, ha riesumato, con Ratzinger, anche la tradizione del bacio dell’anello papale, ovviamente molto pubblicizzato.

Di fase in fase, la parabola dei rapporti Stato-Chiesa si è così modificata, visto che un tempo il Vaticano manovrava nel partito di governo per imporre i propri principi religiosi alla comunità intera, mentre ora può solo negoziarli con gli esponenti del centrodestra che a quei principi si richiamano pubblicamente: la carta “cattolica” è ancora spendibile nel mercato della politica e poco importa la buona o la mala fede con cui quei principi vengano invocati dai politici devoti, che quasi mai li osservano in pratica.

In questa temperie culturale, sedimentatasi nel tempo, dal lessico politico sono spariti, infatti, sia la parola sia la nozione stessa di “ingerenza”; il fatto che uno Stato religioso straniero, caduta la possibilità di ottenere la spontanea e generalizzata adesione ai suoi principi da parte dei fedeli, continui invece a pretendere di imporli a tutti i consociati per via legislativa, non provoca più reazioni significative. E si tratta di principi che regolano non solo la vita, ma anche la morte delle persone, come ci ricordano i casi di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro.

La cosa è tanto più grave perché le argomentazioni usate nell’occasione dalla Segreteria di Stato vaticana, per lanciare l’allarme sulle libertà della Chiesa violate, sono frutto di una lettura volutamente deformata delle norme in discussione.

Non vi è infatti alcun pericolo che  le «espressioni della Sacra Scrittura e delle tradizioni ecclesiastiche del magistero autentico del Papa e dei vescovi» in materia di «differenza sessuale» possano essere criminalizzate, come invece si sostiene nella «Nota» in questione, visto che la proposta di legge, all’art. 4, appositamente esclude da qualsiasi sanzione tutte «le libere espressioni di convincimento ed opinioni, nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee»; e questo dopo aver limitato l’estensione dell’art. 604 bis c.p. (che già punisce la istigazione a commettere  violenza o atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi) solo a coloro che compiono atti di istigazione basati «sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sulla identità di genere e sulla disabilità», ma non invece a chi, su questi temi, svolga invece solo attività di “propaganda”. Confondere la libertà di espressione con la “libertà di istigazione”, come si contrabbanda nella nota, non è certo un buon servizio reso, innanzitutto, alla “battaglia delle idee”.

Il fatto è che oggi non tanto rileva la correttezza dell’argomentazione, quanto piuttosto l’efficacia del messaggio, la cui tempistica è stata scelta con cura, data l’imminenza del voto al Senato: questo messaggio, del resto, viene indirizzato a un ceto politico, che, per tradizione consolidata, si dimostra ben disposto a riceverlo, poiché, tra chi ha studiato dai gesuiti, chi è devoto a Padre Pio, chi è nato democristiano, chi va in giro a baciare rosari e chi accorre ai convegni dei cattolici “tradizionalisti”, non si vede, tra maggioranza e opposizione, il politico o meglio la forza politica che sia dotata dei necessari anticorpi e sia in grado di far valere un’autentica laicità dello Stato.

Tanto più che il messaggio è calibrato in modo tale (si richiede solo una «diversa modulazione del testo normativo» della legge in discussione) da apparire moderato e accomodante, visto che non chiede di bloccare la legge, ma solo di modificarla in pochi punti; ma, si è aggiunto nella Nota, ciò dovrà avvenire «in base agli accordi che regolano i rapporti Stato-Chiesa»: una frase impegnativa, questa, che alludeva a una “trattativa” da condurre tra i due Stati; una frase poco calibrata, peraltro, visto che una simile ipotesi è stata subito cancellata dal cardinale Parolin non appena la nota, che doveva rimanere riservata, è stata invece resa di pubblico dominio («nessun tavolo, non è una materia che dobbiamo trattare insieme», ha detto a questo punto il prelato, assai irritato per questa divulgazione).

In sostanza il Vaticano indica le modifiche da attuare; queste sono fatte proprie dalla destra tradizionale, da Berlusconi a Salvini, alla Meloni, i quali, con questo avallo, possono continuare a  presentarsi come gli interpreti autentici del sentimento religioso degli italiani; ma questo, ecco l’effetto dell’ingerenza, lo chiede ora anche la pattuglia dei cattolici di Renzi, che si erano invece intestati quel testo di legge alla Camera con la Annibali e Scalfarotto e che, improvvisamente, si accorgono che, proprio sui punti segnalati dalla Chiesa, ciò che avevano introdotto ora non va più bene.

Di qui l’ennesima capriola del senatore di Scandicci, che a gennaio era riuscito a riportare al governo e a rilanciare, sotto l’ala di Draghi, l’intera destra allora confinata in una sterile opposizione, e che ora, forte di questi nuovi alleati, ricatta il suo vecchio partito – l’unica politica che gli riesce bene – prospettando a Letta la mancanza di voti al Senato (soprattutto quella dei “suoi”), qualora non accetti il “compromesso” voluto da questa destra allargata e benedetta dall’alto.

Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale italiana e ora consigliere generale della Pontificia commissione dello Stato della Città del Vaticano, ritiene che il Parlamento dovrebbe tenere in considerazione le osservazioni della Santa Sede; Salvini si dice pronto a raccogliere l’appello della Chiesa, Ignazio La Russa straparla di un attentato alla Costituzione, Lega e Fd’l chiedono la sospensione dell’iter parlamentare.

Pd, LeU e M5S ottengono la calendarizzazione del provvedimento al Senato per il 13 luglio. A questo punto interviene nuovamente il cardinale Bassetti, presidente della Cei, che, dalle pagine di «la Repubblica», escludendo qualsiasi ingerenza (!), chiede nuovamente che il testo sia modificato; Renzi si dice pronto a introdurre le varianti suggerite dal Vaticano («meglio un compromesso che nessuna legge») e Salvini, interpretando il messaggio, subito rilancia («vado a Roma per bloccarlo»).

Si tratta in realtà della stessa, comune, strategia: accordarsi, cioè modificare anche un solo articolo, significa infatti bloccare la legge a tempo indeterminato, per poi affossarla o snaturarla; solo le forme sono diverse: Renzi fa leva sul Pd e la sua anima cattolica, ricattando in tal modo il suo vecchio partito (e già le votazioni sulle pregiudiziali, in cui la maggioranza si è assottigliata progressivamente, costituiscono un minaccioso avvertimento, in vista dei futuri voti segreti); Salvini, indossati i panni del dialogante, può recitare la sua parte in commedia con toni imploranti («Letta, accordiamoci, non te lo dico io, te lo chiede il Santo Padre»).E per dimostrare l volontà di trattare presenta, per una legge di 10 articoli, 700 emendamenti come merce di scambio.

A questo punto la tutela degli omosessuali, dei trans e dei disabili cessa di interessare i contendenti, diventando mero oggetto di propaganda in questa eterna campagna elettorale, nonché occasione per un regolamento di conti (Renzi contro Letta) o per il consolidamento della nuova alleanza (Renzi con Salvini), siglata, questa, dall’adesione del primo ai referendum sulla giustizia promossi dal secondo; i contenuti veri della legge Zan rimangono sconosciuti ai più, la disinformazione può dilagare («la strada è aperta per l’utero in affitto», ecc.) e, quando la confusione è massima, con un ostruzionismo dopo l’altro, la legge finisce in coda ai provvedimenti che devono essere approvati con priorità assoluta (il Recovery, il Sostegni bis, il Cybersecurity).

Tutto si impantana, in attesa che una qualche votazione segreta affossi il provvedimento per sempre.

Il Vaticano, compiuta l’opera e fattosi ora da parte, silenziosamente ringrazia.

 

[1] Giovanni Sale, Il Vaticano e la Costituzione, Milano, Jaca Book, 2008, pp. 19, 40, 147, 162-163. Secondo lo storico cattolico, la Santa Sede aveva predisposto addirittura tre schemi di Costituzione sulla libertà religiosa, uno “desiderabile”, uno “accettabile” e uno “non accettabile”, ma sul quale, previa autorizzazione della suprema autorità ecclesiastica, i cattolici avrebbero potuto collaborare con le altre forze politiche.