di Massimo Jasonni

Le attenzioni del momento, pur inevitabilmente rivolte alla salute pubblica e ai tempi della ripresa industriale, non crediamo possano esimersi dal ripensare alle basi etico-politiche che valgano a portare a un cambiamento. La débâcle istituzionale ed economica del paese sollecita una riflessione sulla formazione di una classe politica dirigente altra, rispetto a quella a cui da troppo tempo siamo abituati. Solo una nuova classe dirigente potrà cogliere i segnali profondi del disagio, che le più recenti elezioni confermano, prospettando aggregazioni politiche e coaguli culturali capaci di fronteggiare o, almeno, di contenere la globalizzazione selvaggia che ha provocato la devastazione del pianeta.

L’ultimo dopoguerra offre spunti importanti. Si parla di un’avventura diversa da quanto è oggi sotto i nostri occhi, ma negli effetti rapportabile alla pandemia di ora per il cordoglio, la reclusione e la paralisi lavorativa in cui le vite dei cittadini sono gettate. Il capolavoro che consentì di riprenderci dalla sciagura bellica fu la Costituzione della Repubblica. Da cosa nacque questo documento tradotto e studiato in tutte le lingue, per nulla miracolistico, ma anzi frutto di una laboriosa sintesi ideologica? Nacque da un accordo tra formazioni anche tra di loro contrapposte, tuttavia accomunate dalla coscienza dell’ignominia del fascismo e della insopportabilità delle collusioni mussoliniane con il razzismo e il bellicismo hitleriano. Alla base di tutto, il sogno di riportare il paese alle tradizioni e alle bellezze che ne avevano fatto, in passato, il giardino non solo naturale, ma anche intellettuale d’Europa. Ricordo, al proposito, le lezioni in cui Calamandrei spiegava agli studenti milanesi il portato della Carta repubblicana, riscontrandovi «grandi voci lontane»: quelle di Cattaneo, di Beccaria, di Cavour, di Garibaldi e di Mazzini.

Il sodalizio fra laici, socialisti e liberali, e cattolici giunse in porto, pur tra oscillazioni e intime contraddizioni; ma troppo presto volse a una crisi felicemente stigmatizzata nella formula del «tradimento della Resistenza». Alla frattura dell’unità concorsero ritorni di fiamma di un fascismo mai domo, vera e propria autobiografia della nazione, ma anche motivazioni endogene. La Democrazia cristiana assunse la rappresentanza del voto cattolico, forte della bandiera del pericolo rosso e dello spegnimento dei residui di guerra civile; i partiti di ispirazione liberaldemocratica si allinearono a un capitalismo che si sarebbe rivelato sempre più rapace, incompatibile con il programma costituzionale; il Partito comunista, già con Togliatti e vieppiù nel suo seguito, si ispirò alla logica fallimentare di una collusione di vertici con il cattolicismo romano, immemore della grande lezione gramsciana.

Ripensare ad Antonio Gramsci, sul fronte socialcomunista, e a Giuseppe Dossetti, sul fronte cattolico democratico, crediamo apra a un parallelo apparentemente impossibile, in realtà fecondo. Ne vengono tracce indelebili di un sentiero da cui oggi ripartire, pur nella diversità dei contesti storici. Gramsci rinvia al materialismo storico; Dossetti a un cattolicesimo intransigentemente tradizionalista. Come avvicinare le due figure? Come prospettare un dialogo così ideologicamente problematico e che investe fasce di elettorato tanto eterogenee?

Per il vero, entrambe le figure condividono una rinascenza in qualche modo rapportabile alle lettere che non a caso Pasolini avrebbe intitolato «luterane». In entrambe l’obiettivo è essenziale, la vita si spende con un coraggio che rimanda alle scelte dei Rosselli: Gramsci muore in carcere, Dossetti abbandona tutto, privilegi di carriera politica e lussi universitari, per non concedere alcunché a quanto veniva alla ribalta con la Prima repubblica. Comune è la consapevolezza della necessità di prefigurazione di un «uomo nuovo» e della necessità del controllo di un’economia mondiale neoliberistica caratterizzata dalla prepotenza degli assetti finanziari internazionali. Al proposito basti pensare – per Dossetti – all’astensione dal voto unanime democristiano di adesione all’alleanza atlantica, nella seduta del 30 novembre 1948 alla Camera dei Deputati.

Il ribaltamento istituzionale non potrà avvenire con il mero uso delle armi (che a Dossetti è precluso dal dogma pacifistico cristiano e a Gramsci risulta inattuabile in Occidente); ma dovrà guadagnare forza da una rinascita culturale dei ceti subalterni o, comunque, economicamente sofferenti. I Quaderni gramsciani, in questo senso, sono un capolavoro: perché quello scavo intellettuale mira, per l’appunto, a una riforma morale dei costumi che impegna non solo scuole e università, ma più in genere luoghi d’arte, giornali e manifestazioni pubbliche del pensiero. In Dossetti l’acuto, pure entro una chiara diversità di retroscena fideistico, è analogo: egli pensa a un risveglio di civiltà talmente profondo, da riuscire nell’obiettivo capitiniano di ribaltare la logica consolidata secondo cui «il pesce grande mangia il pesce piccolo».

Entrambi, si noti, affondano lo sguardo nel passato: Dossetti insegna il diritto, premettendo che del diritto, senza la conoscenza della storia, non si capisce niente; Gramsci fa suo l’universo marxista, ma senza mai cedere al dogmatismo, senza mai perdere di vista la premessa crociana del valore della storia come «storia della libertà». Entrambe le pagine, quelle di Gramsci dal carcere e quelle di Dossetti da un Parlamento in cui si sente sempre più estraneo, celano un retroscena classico: nel primo come affermazione agonistica di una Politica che sa tenere alta la testa nei confronti delle sopraffazioni militari e mercenarie; nel secondo come pulsante memoria del ruolo della lingua greca nella diffusione delle lettere paoline, poi dell’importanza del pensiero classico nella patristica e in Tommaso. Per questa ragione il Diritto canonico, di cui egli presta magistrale docenza, va studiato nelle università di Stato, non solo in quelle confessionali: perché gli studenti, tutti gli studenti, non solo quelli avviati al seminario o già avvezzi alla palude scudocrociata, avvertano quale nesso inscindibile corre tra il lógos antico e la parola evangelica. E quale preziosa simbiosi, tra il primo e la seconda, abbia dato corpo in Europa al Diritto comune.

Il motivo della laicità apparentemente distingue Gramsci da Dossetti: il primo ne sarebbe un indiscusso alfiere, il secondo un detrattore agguerrito. Tuttavia, le cose non stanno propriamente così, a meno che non si voglia procedere al lume della «lanterna assai poco magica dei giornalisti», per dirla con Gramsci: se per laicità si intende un mero, anticlericale rimando al Candide, Dossetti non può che risultarne estraneo; ma laicità è altro e crediamo anche molto di più. Essa risale al laóslaikós ellenico, ovvero a una concezione “nazionale” del popolo, differenziata da quella massa indistinta di gente che è espressa con démos. Laicità guadagna così dimensione più ampia rispetto al significato assunto con le rivoluzioni industriali e con l’individualismo borghese; ed entra a pieno titolo nel patrimonio religioso di un credente in una fede incarnata, per definizione a tendenza secolarizzante.

Il nome di un illustre padre liberale aiuta nell’approfondimento: parliamo di Francesco Ruffini. Gramsci è studente delle lezioni torinesi di Ruffini, seduto al fianco di altro scolaro di eccellenza, Piero Gobetti: i due ragazzi capiscono bene cosa il Maestro intenda per eguaglianza «sostanziale» («non matematica») e per «svilimento» della libertà, ove essa trascuri la giustizia sociale. Anche Dossetti ha a che fare con questo protagonista dell’antifascismo liberale italiano: legge Ruffini approfonditamente, lo tiene in debito conto scientifico nelle attenzioni prestate al giansenismo, trasmesse anche all’allievo Arturo Carlo Jemolo. È uno dei suoi fari, a fianco di Maritain e di Mounier.

Nulla a che fare, in tutto quanto sopra, con il placet di Togliatti, nel 1946, all’approvazione dell’articolo 7. Nulla a che fare con la revisione concordataria del 1984. Nulla a che fare con una Sinistra che ne porta la responsabilità politica.

Sia nei Patti del Laterano, sciaguratamente inseriti nella fondazione della Repubblica, sia negli Accordi di Villa Madama, sciaguratamente stipulati tra Bettino Craxi e Agostino Casaroli, è chiaro l’allineamento a una historia dolorum che nei secoli ha contrastato la sovranità dello Stato moderno e, d’altro lato, ha avvilito il dogma cristiano della separazione delle «cose di Cesare» dalle «cose di Dio».

La costituzionalizzazione del principio concordatario ripropone assetti clericofascisti su cui era espressamente incentrata la stretta di mano fra Mussolini e Gasparri. Gli Accordi del 1984, in apparenza di revisione, in realtà confermano e anzi dilatano la concertazione a Regioni e Comuni, per un verso, e, per altro verso, al potere religioso locale. Gli abbracci fraterni tra conventicole politiche e sagrestie, che nel Seicento infiammavano le sublimi invettive di Pascal, si mantengono ben stabili in Italia. E tanto più all’interno di un «compromesso storico» lontano anni luce sia dal pensiero gramsciano circa la formazione del blocco storico, sia dal contributo offerto da Dossetti al Concilio Vaticano II per una riforma delle istituzioni della sua Chiesa.