prescrizionedi Massimo Jasonni

Il degrado delle istituzioni fornisce la radiografia dai contorni sempre più precisi di un assetto culturale ormai consolidato, entro il quale la politica tanto più grida, quanto più è, in realtà, assente. Svanito è il sogno platonico di una repubblica in cui l’esercizio della politica giochi un ruolo dominante, non subalterno né fittizio, sulle prepotenze militari e finanziarie.

Il pensiero occidentale, principe quello di Leopardi, si avvide, sin dalla prima metà dell’Ottocento, del fenomeno, ma fu poi la filosofia tedesca a cogliere gli effetti etici devastanti, a cui avrebbero condotto dominio tecnocratico e morte delle patrie. Ove, sul punto, una precisazione subito si impone, oggetto anche di un recente intervento del presidente della Repubblica a Trieste in occasione del centenario della conclusione del primo conflitto mondiale: il concetto di patria certo interferisce, ma non si esaurisce in quello di nazione, giacché “patria” introduce a una familiarità nei costumi e a un’abitudine di vita che nel secondo termine sfumano, cedendo a motivazioni etniche e a prospettazioni nazionalistiche, purtroppo note, che afflissero l’Europa nel secolo breve. La globalizzazione ha fatto tabula rasa di quei valori e di quelle ragioni di vita: si pensi, per eccellenza, alla cultura contadina che rappresentava un punto di forza delle politiche tradizionali e, viceversa, è stata completamente dimenticata da Roma e da Bruxelles.

Allora nemmeno più meraviglia che le forze politiche, di governo e di opposizione, mostrino indifferenziatamente una dissociazione patologica rispetto a quel portato della storia che legittimò, in democrazia, la discesa nel campo elettorale.

La Lega. Salvini in un batter di ciglia ha mutato il dna della formazione di appartenenza, trasformandola da federalista a nazionalista. Le leghe fruivano di un retroscena regionalista, opaco, quando non comico fin che si vuole, ma alimentato da tradizioni medievalistiche, che, nell’esaltazione del Comune e delle energie produttive di nuovi ceti sociali, avevano consentito in sede storiografica l’individuazione di una fioritura laica, tanto da potersi parlare di Medioevo borghese. Ora tutto ciò è venuto meno, e si assiste al suo esatto contrario: l’invocazione di uno statalismo di per sé inaffidabile, l’allineamento a spinte nazionalistiche e a chiusure di frontiere che affiancano lo stivale a forze, europee e non, della peggior specie.

Ancor peggio, se mai possibile, il quadro in casa 5 Stelle. Qui lo spaesamento è totale e non pare residuare altro, nella bocca di Di Maio, se non un’antipolitica, che ribalta non le bancarelle dei ricchi banchieri, ma i tavoli di lavoro degli umanisti del bel paese. Tutto pare rimesso, nemmeno più di giorno in giorno ma addirittura di momento in momento, a un’attualità prona all’uso perverso dei social e alla volgarità delle degenerazioni preelettoralistiche. Basti pensare alla proposta in atto sulla cancellazione della prescrizione del reato: ove nemmeno è chiaro quale sia l’idea che muove la pretesa pentastellata di riforma, se non il piegarsi ai più bassi istinti della rivincita sociale. La prescrizione, in realtà, appartiene al novero delle più alte conquiste della civiltà occidentale: essa trascrive quella che Calamandrei stigmatizzava nella dote principale del giudice, l’umiltà, ovvero nella coscienza dell’insufficienza del diritto e nell’opportunità di fissare positivamente termini legislativi al corso della giustizia. L’Etica e la Storia non dimenticano; ma l’esperienza giuridica sa di essere, come la vita dell’uomo, a termine. Dietro una procedura penale privata di confini cronologici opera lo spettro dello Stato assoluto, rivive quel nazionalismo che, non a caso, combatté lo Stato di diritto.

Questa schizofrenia, questa dissociazione tra cultura e politica, tra civiltà e istituzioni giuridiche, è ben presente anche in quella che insiste nel presentarsi come forza di opposizione, ma non lo è più. Il Pd ha perso le sue radici socialiste, ha intrapreso una via berlusconiana in cui, sempre più al passare del tempo, si è accollato le sorti del dominio tecnocratico in atto. Basta pensare al salvataggio delle banche, all’abbandono della scuola pubblica e alla chiusura dei rubinetti del finanziamento delle arti e della ricerca. In Renzi e, se possibile ancor peggio, nei suoi, è palese non solo la collusione, ma anche l’appartenenza alle logiche e la condivisione delle movenze di quel mondo cattolico contro cui Gramsci e Salvemini, Gobetti e i Rosselli combatterono a viso aperto. Nulla in questo Pd anche pallidamente ricorda la lotta di Capitini per l’affermazione di un pensiero religioso lontano anni luce da quello che, nel secondo dopoguerra, portò Giuseppe Dossetti all’abbandono della Dc degasperiana e alle dimissioni da professore universitario. Tutto, viceversa, ricorda un habitat non laico, a fortissima impronta gesuitica.