di Valeria Turra
È diventato difficile, nell’Italia del 2021, attraversare una giornata senza imbattersi più volte nella parola “resilienza”, al punto che ormai in molti si sono cimentati nell’esercizio di tracciarne la storia, oltre che di usarla essi stessi applicata alla propria esperienza, o al contrario di deprecarne l’uso. Spesso uso e rifiuto promanano dalla collocazione politica del parlante, rispettivamente (quanto genericamente) “sinistra” e “destra”, probabilmente perché il primo uso “illustre” del termine in contesto economico rimonta a Obama[1], come ci ricorda già Rampini in un suo lavoro del 2013[2]: lavoro in cui l’accoglienza positiva pregiudiziale del termine ostacola allo scrivente il compito di analizzarne criticamente la valenza sociale e culturale.
Può essere utile, allora, tentare un piccolo esercizio di decostruzione, e – successiva perché conseguente – ricollocazione in termini politici più precisi. Intanto: in resilienza, il prefisso re– indica che il salto, lo scatto, è un retrocedere, un battere in ritirata: così ci dice il latino, da cui il termine resilienza deriva. Questo aspetto originario va tenuto ben presente, perché tende a essere diluito nella retorica psicologistica che, a sua volta riferendosi a un concetto della fisica, si concentra sull’aspetto di assorbimento degli urti di cui il soggetto resiliente è capace, trasmettendo anche alla società, quasi per un processo osmotico che però non viene mai chiarito nei suoi meccanismi, questa proprietà di cui è detentore.
Il fatto che si tratti in prima istanza di una fuga differenzia la resilienza dalla resistenza, che è invece una capacità di opporsi mantenendo con fermezza la propria posizione. Poiché l’idea di opposizione – che può essere anche attacco – nel concetto di resilienza non trova posto di necessità, l’uso del termine perimetra subito il proprio ambito in un contesto politico che, se possiamo con qualche generosità definire progressista, certamente non potremo definire socialista, fondandosi sull’accettazione individuale (e di conseguenza sociale[3]) del trauma, e non su di un’opposizione a esso. Quello che è centrale nel concetto di resilienza, infatti, non è il cambiamento della situazione da cui il trauma si è originato ma l’assorbimento, al fine di adattarvisi, del colpo subito: una massa di resilienti equivale a una massa di persone che, assorbendo gli urti, non si curano di produrre alcun cambiamento, dovendosi curare in prima istanza di non soccombere, di restare in piedi e magari sembrare felici per attestare la perfetta riuscita dell’assorbimento stesso (ovvero per non sentirsi dei falliti: il che inizia a spiegare il tipo di comunicabilità/diffusione sociale di cui la resilienza gode).
Non ci sarebbe niente di male in questo invito costantemente ripetuto a non cedere ai colpi della sorte se, ad accompagnare l’uso smodato di questo termine, non fosse una costruzione del discorso pubblico che assimila le ingiustizie sociali alle catastrofi naturali[4] o, attualmente, alla pandemia, sotto l’insegna comune del trauma a cui il soggetto dovrebbe adattarsi assorbendone l’urto senza soccombere, ma anche senza rivoltarsi (che senso avrebbe ribellarsi al terremoto o alla peste?). Che la situazione sociale sia quella che è, immutabile e come inchiodata, quasi si trattasse di un’epidemia che travolge e scardina le vite senza che ci sia rimedio possibile, eccetto il tentativo di sopravvivere a livello singolo o al massimo familiare, è un messaggio silenziosamente veicolato nella retorica della resilienza, nata, come abbiamo accennato, prima del covid e non a caso costruita in particolar modo intorno a una figura specifica della società del capitalismo globalizzato, quella del lavoratore precario nelle sue variegate forme; del lavoratore, cioè, che deve resilire di necessità per non cadere a picco non solo ogni volta che il suo contratto di lavoro non viene rinnovato, ma anche quando il contratto sussiste, nell’attesa previdente del giorno prossimo venturo in cui il rinnovo non ci sarà. Prima che guardarsi intorno e accorgersi di quanti accanto a lui vivano la sua stessa situazione, prima cioè di pensare alla possibilità di elaborare una strategia condivisa con altri per rovesciare il comune scacco, il resiliente deve venire a patti con la propria quotidiana angoscia di vivere senza futuro. E poiché il pensiero, per potersi dispiegare al suo meglio, si deve proiettare di necessità nella terza dimensione temporale[5], ma questa dimensione al precario è stata sottratta, accade che il resiliente non riesca letteralmente ad alzare il capo dal mare in tempesta in cui perennemente si dibatte; e che di necessità la sua resilienza non si traduca mai in resistenza, ovvero in opposizione reale a quell’ingiustizia sociale che lo priva persino del corretto dispiegarsi del suo pensiero.
Suona, così, grottesco e beffardo che il titolo di quell’impegno-capestro europeo nel quale i due ultimi esecutivi ci hanno collocato, il Recovery plan, sia di Piano nazionale di ripresa e resilienza, e che esso venga al contempo esaltato come la panacea di ogni italico male presente e passato, quasi si pensasse, stilando il piano e il titolo, che gli italiani non conoscano la loro stessa lingua e il significato delle parole che usano.
C’è forse una spiegazione, seppure deprimente, ed è che chi ci governa sappia che la propaganda funziona bene, e senza il rischio di doversi scontrare con la realtà, quando un popolo è da anni resiliente senza saperlo, accetta cioè ogni forma di deprivazione di quei diritti che erano stati acquisiti con decenni di lotte politiche (cioè opponendo resistenza allo strapotere dei padroni) dalle generazioni precedenti; e la accetta non solo senza opporre resistenza alcuna, ma anche convincendosi della superiorità assiologica della propria condizione rispetto a quella dei suoi maggiori, solo perché rispetto a essi gode di maggiore strumentazione tecnologica e di maggiore libertà generica, ovvero libertà (virtuale) di movimento e libertà (virtuale) di trasgressione in campo sessuale. Concentriamoci un istante su quest’ultima: tutta la bagarre anche televisiva e social sul ddl Zan – esaltato al concerto del primo maggio da un vip con tanto di logo di brand multinazionale impresso sul cappellino, per fare pubblicità insieme alla libertà di scegliersi il genere cui si appartiene[6] e a un marchio celebre per lo sfruttamento del lavoro anche minorile – altro che questo scambio non attesta.
E se scrivo che diversamente che virtuale questa libertà non può definirsi, è perché, pur ammantata di universalismo, solo in forme degradate è alla portata di tutti, dato che la sua fruibilità reale cresce in misura direttamente proporzionale alla crescita del reddito pro capite, e che per la sua realizzazione piena ha un bisogno strutturale di nugoli di servi, per i quali la libertà consiste solo nell’ammirazione per quella di cui godono i loro padroni. Di questo aspetto, il fenomeno social degli influencer che, nell’ostentazione del lusso più sfrenato, girano video insieme alla servitù che ride, tutta felice di poter apparire, è un emblema grottesco; ma è facile virare al tragico, se pensiamo che la libertà di avere figli anche senza avere la capacità biologica di procrearne, per quanto sembri umanitaria in teoria, dipende in realtà solo dall’uso, previo contratto, di parti del corpo delle donne, che devono anche fingere di essere libere donatrici per non violare le leggi (in queste forme, il transumanesimo non è l’umanesimo del Duemila, anche se così si ammanta, consistendo piuttosto di una reificazione totale dell’umano, di matrice capitalistica e al capitalismo totalmente funzionale).
Ebbene, è a questa libertà che sembra moderna e allegra ma, dietro i lustrini, è solo oscena, che i resilienti sacrificano ogni rivolta e spesso perfino ogni uso della ragione, contentandosi sistematicamente (dato che i ricchissimi sono sempre meno e non sono certo i resilienti) delle sue degradazioni, anche se sono spesso meno appariscenti di quelle da me rapidamente schizzate.
Ne abbiamo avuto riprova in questi quindici mesi di pandemia, durante i quali la maggioranza delle persone ha dato attestazione ampia di come la resilienza singola sia soprattutto utile al potere costituito, ovvero all’ordine economico dominante. In Italia, a tutt’oggi, le persone decedute per il covid sono più di 124.000: un numero spaventoso, che dovrebbe spingere ciascuno alla rivolta se solo pensasse a quanta parte di queste vittime non risalga nemmeno ai primi periodi dell’epidemia (per i quali si potrebbe invocare l’inesperienza, la realtà dei fatti non fosse invece macchiata subito dal dolo), ma siano frutto delle successive e progressive riaperture delle attività non necessarie, a fini economici. Di fronte allo scandalo delle vite innumerevoli sacrificate scientemente al Pil, la massa non solo non si è rivoltata, ma, “assorbendo l’urto” di tutti quei morti, si è fatta strumento docile degli esecutivi regionali e nazionale, cioè dell’ordine economico da cui questi dipendono direttamente, manifestando il bisogno esacerbato di una vita sociale prima mai così fortemente desiderata (chi mai prima proclamava il desiderio di abbracciare perfino gli sconosciuti?), e che si lega indissolubilmente a una pulsione a consumare di cui non si ricordano i precedenti: fornendo così persino l’alibi a chi ci governa, che può sostenere senza mentire che la gente vuole tornare alla vita e, piuttosto di rinunciare, preferisce gli ospedali pieni.
I marciapiedi delle città sono ormai invasi dai plateatici dei locali di ristorazione; e, poiché i soldi scarseggiano, la qualità della merce che si può mediamente consumare è assai discutibile. Si accetta di correre il rischio di ammalarsi solo per poter dire di essere andati al bar e postare la foto del piattino di bisunte patatine, riciclate ovviamente, sul proprio profilo sociale. Anche questa è resilienza: soffocare la legittima paura, pur di non rinunciare alla socialità certificata dalla seduta al bar, e amen se qualche parente pagherà con la vita la nostra devozione alla causa dei baristi, anch’essi resilienti ovviamente, costretti, come sono stati per mesi, a una vita di stenti solo per le fisime delle autorità sanitarie; sul Mottarone l’esercizio di resilienza alle conseguenze delle chiusure operate dalla “dittatura sanitaria” ha provocato quattordici vittime, perché, se si vuole ripartire, non si può mica farsi bloccare da un freno che rallenta i viaggi delle funivie! Mi si opporrà forse che il caso del Mottarone è di tutt’altra gravità e tenore: ma la differenza è solo ed esclusivamente di gradazione.
Se vogliamo renderci conto della portata delle implicazioni morali di cui la situazione in cui siamo immersi ci carica, io credo che la domanda che dobbiamo porci sia: dato che abbiamo espulso l’idea di cambiamento, quindi di rivolta, dal nostro orizzonte, cosa siamo disposti a sacrificare, pur di resilire, cioè pur di assorbire l’urto senza modificare il quadro: solo la salute nostra? O anche quella di un nostro parente, più o meno stretto, più o meno caro? E anche: di quanti clienti abbiamo lo stomaco di mettere a rischio l’incolumità, quando, data la durezza dei tempi, non li facciamo rimanere distanziati per potere collocare un numero maggiore di sedie, o somministriamo loro cibarie riciclate da un altro tavolino, per non fare inutili sprechi? Se un esercente ha bisogno di denaro dopo mesi e mesi di chiusure pandemiche, può mettere a rischio oppure no la vita di un numero imprecisato di turisti che salgono sulle sue funivie, se non ha la certezza che moriranno davvero (finché non sono morti)? Cosa ne pensano, i suoi dipendenti? E le vite di centinaia di migliaia di persone – vite già fragili spesso, anche se non proprio sempre – sono sacrificabili o no, non tutte insieme ma diluite a centinaia al giorno, se occorre che non muti l’ordine sociale, se è indispensabile che l’economia così come è stata finora possa resilire, tanto più che sono i cittadini stessi a volerlo, che le cose rimangano esattamente, o il più possibile, quelle che sono? Quale alibi migliore per il potere, che l’esercizio di resilienza delle masse, che vogliono che nulla cambi perché desiderano solo restare a galla, e che si sappia, che non sono dei falliti?
Potremo concludere, per ora, che di tutte queste forme di resilienza la capacità distruttiva è direttamente proporzionale al potere sulle vite altrui (sulla salute altrui) che viene di volta in volta detenuto. Eppure, prima, dobbiamo chiederci ancora: fino a quando accetteremo che l’orizzonte della nostra esistenza sia ridotto a questo, ad assorbire il male invece di resistervi, quindi a rischiare di esserne assorbiti a nostra volta, magari senza saperlo?
[1] «Nell’uscire dalla grande crisi abbiamo dimostrato la nostra resilienza»: discorso della seconda inaugurazione di Obama, 21 gennaio 2013.
[2] Nel volume mondadoriano Banchieri. Storie dal nuovo banditismo globale (2013): un estratto dal titolo Resilienza è uscito due anni dopo su «FuturoClassico», n. 1, 2015, pp. 36-41.
[3] Pur negli incerti termini di cui si è accennato: che poi tuttavia preciseremo.
[4] Non a caso, l’ecologia è un altro ambito in cui il termine viene crescentemente utilizzato.
[5] Come ci insegna la psichiatria fenomenologica.
[6] Libertà che le cosiddette femministe radicali correttamente demistificano, considerandola 1) una negazione mascherata del femminile; 2) prodromica allo sdoganamento dell’utero in affitto, recentemente rinominato «gravidanza solidale»: definizione che credo possa a buon titolo ricondursi alla galassia della resilienza nel suo attribuire a una scelta quella che è di solito una forma vera e propria di schiavitù per indigenza.