Mia Madredi Rino Genovese

Che cos’è che non va in Mia madre di Nanni Moretti, film fin troppo commovente, che tuttavia si avvale delle ottime interpretazioni di Giulia Lazzarini, nel ruolo della madre morente, e di Margherita Buy in quello della figlia, alter ego del regista che ha riservato per sé il ruolo un po’ defilato del fratello? La risposta non può non coinvolgere il giudizio complessivo sull’opera di questo autore che, a partire dagli anni settanta e fino almeno ad Aprile del 1998 (passando per i suoi lavori migliori, quelli in collaborazione con Sandro Petraglia, Bianca e La messa è finita), poteva inquadrarsi in un cinema dell’idiosincrasia capace di mescolare – talvolta in maniera immediatamente umoristica, talaltra attraverso una riflessione non banale, soprattutto di tipo metacinematografico – noia e rabbia contro i tic, le frasi fatte, i conformismi da sempre diffusi nel Bel Paese immobile.

C’era, nel Moretti del passato, una carica di rivolta in primis stilistica, nonostante il modo di fare cinema molto semplice di questo regista, che si notava fin dalle sceneggiature orizzontali, prive di tiranti narrativi precisi, che ricordavano le strisce dei fumetti e su cui aleggiava onnipresente la figura dell’attore-regista, personaggio narcisistico e atrabiliare, votato a un malumore estenuante nei confronti di se stesso e degli altri.

Orbene, da quando è entrato nella maturità – con la nascita del figlio reale, già troppo insistitamente descritta in Aprile, e poi con il passaggio dall’autobiografismo vero e proprio a una sorta di autofiction nel film successivo circa il lutto che procura la scomparsa di un figlio –, Moretti ha come perso se stesso: qua e là si intravedono, a tratti, i lampi del passato; ma il tentativo ormai costante di costruire storie dal sapore universale non gli riesce affatto. Perfino il suo lungometraggio più politico, Il caimano, era un film sostanzialmente irrisolto tra passione civile e privati casini familiari, senza contare che la tematica metacinematografica – da vero e proprio motore del suo cinema – scadeva a mero orpello. È in sostanza l’abbandono del personaggio narcisistico idiosincratico che non è riuscito al Moretti autore: lo ha lasciato orfano di se stesso prima ancora che, con la morte della madre, il Moretti reale diventasse orfano a tutti gli effetti.

Nel suo film più recente, quindi, una madre professoressa dalla vocazione indefettibile – che nella vita sembra non abbia mai fatto altro se non del bene, e i cui rapporti con la figlia e il figlio non conoscono neppure un’ombra – è una dolce vecchina insapore cui solo l’interprete riesce a dare qualche spessore. L’alter ego morettiano, la sorella-regista, si perde in ritornelli d’antan, quelli di un brechtismo all’amatriciana, rendendo l’intera parte metacinematografica – anche a causa di un convenzionalissimo personaggio di attore americano recitato da John Turturro – di una piattezza stupefacente se paragonata alla protesta contro il cinema commerciale (in particolare quello della commedia all’italiana) del giovane Moretti metacinematografico.

Alla fine, ciò che resta è un omaggio al mammismo italiano. Ah, queste mamme che, soprattutto nelle relazioni con i figli maschi, sono l’àncora più sicura alle derive nevrotiche dell’idiosincratico!