di Valentina Morotti
L’ultimo film di Lanzmann è dedicato alla figura del rabbino Benjamin Murmelstein. Si tratta di una lunga intervista girata da Lanzmann a Roma nel 1975. Il montaggio alterna intensi primi piani del vecchio rabbino mentre racconta il suo passato a scene in cui Lanzmann, più di trent’anni dopo, ritorna sui luoghi evocati dal rabbino, mostrandoceli come sono oggi. Vediamo un ormai vecchio Lanzmann ripercorrere le tracce degli ebrei austriaci che da Vienna vennero trasportati nelle campagne della Repubblica Ceca, diretti verso il campo di concentramento di Theresienstadt.
Il film ruota intorno al vecchio Murmelstein che racconta, rispondendo alle domande di Lanzmann, spesso lasciandosi trascinare dai ricordi. Un Lanzmann non ancora vecchio gli siede accanto: pone domande, a volte dure, vuole sapere la verità sulla figura di questo ebreo che ha collaborato con i nazisti nel tentativo di salvare i suoi correligionari. Ma, soprattutto, Lanzmann ascolta. Il rabbino Murmelstein è sempre stato un uomo pragmatico: ha scelto di collaborare con i nazisti, è sceso a patti, perché era l’unico modo possibile per tentare di salvare gli ebrei della comunità di cui era a capo. Ma quando in nazisti gli chiesero di compilare le liste con i nomi degli ebrei del ghetto di Theresienstadt da destinare al trasporto a Est – e cioè alla deportazione nei campi di sterminio – Murmelstein si rifiutò di fornire lui stesso i nomi.
Lanzmann spiega che ci sono tre personaggi nel film. L’ormai vecchio rabbino Murmelstein, il Lanzmann maturo degli anni settanta, e il Lanzmann degli anni duemila. Sia il giovane Lanzmann che Murmelstein – spiega il regista – hanno taciuto per anni su questa storia. Lanzmann si riferisce al fatto che aveva raccolto il materiale dell’intervista a Murmelstein già nel 1975. Dopo molte ricerche, riuscì a trovare Murmelstein a Roma. Nessuno infatti sapeva se egli fosse ancora vivo: reietto dalla sua stessa comunità, l’ultimo decano del Consiglio degli ebrei di Theresienstadt conduceva, appartato, una vita modestissima. L’intervista a Murmelstein fu tra le prime realizzate per il monumentale progetto di Shoah (1985).
Ma alla fine Lanzmann scartò il materiale in quanto riteneva che meritasse un capitolo a parte, non solo per la particolarità della testimonianza sul campo di Theresienstadt, ma anche per l’eccezionalità della figura di Murmelstein, unico sopravvissuto tra i decani degli ebrei, autorità scelte dai nazisti per sopraintendere l’amministrazione dei ghetti. Il campo di concentramento di Theresienstadt nacque come ghetto modello in una piccola cittadina nelle campagne della Repubblica Ceca. La funzione del ghetto doveva essere duplice: creare un campo di concentramento per gli ebrei del Protettorato di Boemia, e utilizzarlo come ghetto per gli ebrei importanti, i capi delle comunità ebraiche e gli anziani decorati della Wehrmacht. Nel piano di Heydrich, questo ghetto doveva in qualche modo garantire i privilegi di alcune categorie di ebrei, la cui sparizione non poteva passare inosservata. Si voleva far credere che agli ebrei fosse veramente data la possibilità di reinsediarsi a Est, di vivere in pace in una città creata apposta per loro. Successivamente il ghetto venne tenuto in piedi per mascherare la realtà delle deportazioni di massa, ingannando la comunità internazionale e la Croce Rossa.
Il campo di Theresienstadt aveva un comando SS e al di sotto una direzione ebraica, che i nazisti chiamarono spregiativamente «Consiglio degli Anziani». Murmelstein, grazie al prestigio che aveva agli occhi delle autorità naziste, venne scelto per farne parte. Il Consiglio degli Anziani venne liquidato interamente nel settembre del 1944, e con esso molti ebrei di Theresienstadt partirono per i campi di sterminio. La vigilia di quella deportazione – scrive Hilberg – Murmelstein assumeva l’incarico di responsabile del Consiglio, l’ultimo degli anziani, con il nome di decano degli ebrei: «Vi rimase fino alla liberazione. Con lui sopravvissero alcune migliaia di ebrei privilegiati per gioire fino alla fine del loro privilegio»1. Prima della messa in atto della «soluzione finale», Murmelstein aveva già avuto relazioni con le autorità naziste. Dal 1938, a Vienna, aveva collaborato strettamente con Adolf Eichmann, che allora era il responsabile dell’Ufficio centrale per l’emigrazione ebraica, un’agenzia del Servizio di sicurezza nazista il cui compito era quello di forzare a emigrare il maggior numero possibile di ebrei austriaci. In questo periodo, il rabbino Murmelstein fu il responsabile della Divisione dell’emigrazione per la comunità ebraica di Vienna. Eichmann si servì della sua collaborazione per ottenere dati, nomi e contatti per organizzare l’emigrazione degli ebrei austriaci. Murmelstein contribuì a compilare le liste degli ebrei selezionati per l’emigrazione e coordinò gli sforzi per raccogliere le somme necessarie a organizzare i viaggi, ma sottostette anche alle clausole dei nazisti su chi doveva essere inserito in queste liste e chi, invece, poteva essere esentato, sulla base di alcuni privilegi. In questo modo, comunque, permise a 120.000 ebrei austriaci di lasciare l’Austria prima dell’avvio della soluzione finale, come Lanzmann tiene a ricordare.
Molti hanno giudicato la figura di Murmelstein in modo estremamente negativo. Dopo la guerra, fu denunciato a un tribunale ceco come collaborazionista. Sebbene prosciolto da ogni accusa, fu esiliato in Italia e lo Stato di Israele si rifiutò sempre di ospitarlo. Morirà a Roma, dove il rabbino capo gli negherà sepoltura in terra consacrata.
Al contrario, Lanzmann non solo tenta di riabilitare la sua memoria, ma ne rimane affascinato. Perché Murmelstein ha visto il male e con esso è sceso a patti. Murmelstein si paragona a Sheherazade: come la principessa di Le mille e una notte ha scampato la morte grazie alla favola che doveva raccontare. I nazisti – sostiene – mi hanno lasciato in vita affinché raccontassi la storia del paradiso degli ebrei, Theresienstadt: «Loro pensavano che avrei raccontato di un ghetto dove gli ebrei vivono come in paradiso, dove sono felici. Mi hanno tenuto in vita per raccontare questa favola». I nazisti hanno tenuto in vita una delle loro vittime affinché raccontasse al mondo la storia dal punto di vista dei persecutori. Dopo la guerra, Murmelstein non ha, naturalmente, raccontato questa storia. Ha però rinunciato anche a raccontare la vera storia di Theresienstadt, vissuta dagli ebrei prigionieri, fino all’intervista con Lanzmann.
A parte un libro sul campo di Theresienstadt, pubblicato in italiano negli anni sessanta, Murmelstein non aveva più rilasciato interviste né espresso opinioni. La sua testimonianza al processo Eichmann venne rifiutata dai giudici di Gerusalemme, nonostante egli avesse intrattenuto rapporti molto stretti con l’ufficiale nazista: la testimonianza di un ebreo che aveva collaborato con i nazisti non poteva essere ritenuta degna di attenzione. Murmelstein spiega il suo silenzio raccontando il mito di Orfeo ed Euridice. Proprio quando sta per lasciare il regno dei morti insieme a Euridice, Orfeo si volta e l’amata è perduta per sempre. «A volte guardarsi indietro non è una buona cosa», commenta. In termini freudiani, il mito suggerisce la negazione del lutto, l’incapacità di Orfeo di rielaborare il fatto traumatico della perdita dell’amata. Ma manifesta anche la presenza latente dell’istinto di morte, la dissociazione di Orfeo che, se da un lato rivuole in vita l’amata, dall’altro si volta, perdendola per sempre. Voltandosi indietro, Orfeo “decide” di rinunciare all’amore, si ritrae dalla vita e sceglie di votarsi anche lui alla morte.
Ho scelto di evidenziare questo passo del racconto di Murmelstein perché non solo getta una luce che illumina tutta la sua memoria, ma permette di comprendere la psicologia dell’individuo che è sopravvissuto al trauma. Come Orfeo, anche Murmelstein ha assistito alla morte di quelli che amava, i suoi amici, il suo popolo. A differenza di altri milioni di persone, però, Murmelstein è sopravvissuto. E potrebbe raccontare. Ma il racconto, ci avverte, sarebbe come compiere il viaggio di Orfeo, ritornare agli inferi, assistere di nuovo alla morte. Ne I sommersi e i salvati, Levi parla del senso di colpa dei sopravvissuti: come possiamo noi arrogarci il diritto di testimoniare, se i veri testimoni delle camere a gas sono quelli che vi hanno perso la vita? Noi non abbiamo vissuto fino in fondo la verità dei campi di sterminio. Levi scelse comunque di consegnare al mondo la propria testimonianza.
Murmelstein ha subito un duplice trauma. Non solo ha vissuto la realtà dei campi di concentramento, ma la sua testimonianza non è stata creduta, dopo la guerra. Murmelstein sarebbe stato complice dei nazisti, e con questo finiva il suo diritto di testimoniare la verità. Egli stesso si assimila ai persecutori: si dichiara «l’ultimo degli ingiusti», introiettando il giudizio dei terzi sulla sua condotta, quelli che lo vedono complice del crimine, e non egli stesso una vittima di un sistema tremendo che costrinse gli stessi ebrei a contribuire all’organizzazione della vita nei campi. È la condizione che la psicanalista Clara Mucci definisce «traumatizzazione vicaria»2. Oltre al trauma primario, la prigionia nel campo con la disumanizzazione cui i nazisti consapevolmente tentavano di ridurre le loro vittime, Murmelstein subisce, dopo la guerra, il trauma di non essere ascoltato. Quando venne organizzato il processo Eichmann a Gerusalemme, la sua richiesta di testimoniare fu ignorata.
Murmelstein racconta che, quando venne fermato dalle autorità ceche, gli venne posta l’assurda domanda: «perché lei è vivo?». Il fatto di essere ancora vivo, mentre i compagni di prigionia sono morti, si traduce immediatamente in un’accusa di colpevolezza. In questo modo, Murmelstein subisce la condanna al silenzio. Egli però in qualche modo accetta questa condanna, e lascia che prevalga l’opinione che altri si sono fatti della sua condotta. Spesso la persona traumatizzata – spiega la psicanalisi – si percepisce come complice del proprio carnefice. Questo si spiega sia con il fatto che la brutalità ha distrutto nella vittima ogni fiducia nel bene, e in una possibilità di relazione positiva con il mondo, sia perché la consapevolezza di aver subito del male diventa meno dolorosa se ci si sente in qualche modo colpevoli, e non vittime innocenti. La coscienza della vittima non sopravvive integra all’idea che, nonostante la propria innocenza, le sia stato fatto del male, e che gli altri siano restati a guardare, senza intervenire. Il senso di colpevolezza aiuta a integrarsi in una spiegazione – in un tentativo di dare senso a quello che è accaduto: ero colpevole, perciò ho subito il male. Il trauma storico collettivo della Shoah ha in comune con altri eventi traumatici la matrice umana, ed è perciò registrato dalla mente come un attacco deliberato e determinato all’integrità di un altro essere umano, che va a compromettere l’intero sistema di valori della persona traumatizzata, le sue modalità di relazione con gli altri esseri umani e la fiducia di poter ricevere supporto e aiuto3. Il soggetto traumatizzato si consegna al silenzio, sia per i meccanismi di difesa che il Sé mette in moto, sia perché il trauma offusca i confini tra realtà e immaginazione. Il trauma interrompe bruscamente la relazione dell’io con la realtà esterna, da cui è scaturita la violenza. L’altro, il non-io, la realtà, viene respinto, e in questo modo viene compressa la stessa intelaiatura della vita psichica. L’io non può parlare della propria esperienza traumatica, perché questa esperienza, che appartiene alla realtà, è scissa da lui, si erge come qualcosa di estraneo con il quale la coscienza non può fare i conti. Il soggetto traumatizzato manifesta la condizione distruttiva di un soggetto che non riesce a integrare il ricordo dell’esperienza dolorosa. Il trauma viene dimenticato e taciuto; tuttavia, esso continua a compromettere l’esistenza, inducendo il soggetto a difendersi e a scegliere determinate strategie di vita4.
È quello che è accaduto a Murmelstein, respinto dalla comunità in cui aveva cercato di reinserirsi dopo l’evento traumatico, accusato di collaborazionismo e dimenticato. Lanzmann ha rivelato in un’intervista5 di aver sentito la spinta a realizzare finalmente L’ultimo degli ingiusti quando, durante la proiezione di un documentario sulla Shoah a Vienna, vide proiettato il materiale che aveva filmato nel 1975 a Roma, e che aveva poi depositato nell’archivio dell’Holocaust Memorial Museum di Washington. Fu un lampo – dice – una rivelazione vedere me stesso giovane, un Lanzmann che non c’è più, che intervistavo Murmelstein, ormai scomparso: sentii di non avere il diritto di tenere quella storia per me, che dovevo testimoniare al mondo la realtà raccontata da Murmelstein.
Possiamo allora vedere l’intervista di Lanzmann come una seduta di terapia. Murmelstein dapprima è diffidente (dice a Lanzmann: «potrebbe essere rischioso parlare»). Il trauma ha infranto il legame fondamentale di fiducia tra il sé e l’altro. Ma solo nella ricostruzione di questo legame si possono recuperare quei significati che l’evento traumatico ha spezzato, e insieme recuperare i legami con gli altri esseri umani. Il soggetto traumatizzato non deve semplicemente rivivere gli eventi passati, ma ricostruirli in un nuovo pattern, come una nuova esperienza di cui questa volta saprà ricostruire i legami razionali, senza subire l’incomprensibile. In questo senso, l’analista lavora come un testimone di questa ricostruzione: la sua presenza e la sua attitudine benevola permettono al paziente di ricostruire il passato, di ricomporre i pezzi. Nel suo libro sul trauma storico, Clara Mucci spiega che il terapeuta deve assumere seriamente il ruolo dell’osservatore benevolente e portarsi con il paziente in quel passato che ha originato il trauma. In questo modo il soggetto traumatizzato può credere alla realtà di quello che ha subito, perché la ricostruisce ora in presenza di un testimone ben disposto ad ascoltare e a recepire la sua verità. Ed è esattamente questo che Lanzmann fa ne L’ultimo degli ingiusti. Mentre Murmelstein racconta, Lanzmann trasporta se stesso nei luoghi del racconto, mostrandoceli come sono oggi. Alla fine dell’intervista, Lanzmann posa, empatico, una mano sulla spalla del vecchio rabbino, mentre si allontanano. La realtà del trauma è riportata alla luce,salvata e testimoniata all’io e al mondo. La verità che Murmelstein aveva da raccontare, sul suo coraggioso e astuto gioco con la morte per tentare di sottrarre il maggior numero di ebrei alla morte, è finalmente riabilitata.
1 La distruzione degli Ebrei d’Europa, Torino, Einaudi, 1999, p. 474.
2 C. Mucci, Beyond Individual and Collective Trauma: Intergenerational Transmission, Psychoanalytic Treatment, and the Dynamics of Forgiveness, Karnac Books, 2013, p.173.
3 C. Mucci, op. cit., p. 56.
4 C. Mucci, op. cit., p. 71.
5 Intervista a «Le Figaro», 17 maggio 2013.