di Rino Genovese
Il problema con cui la politica nostrana dovrà misurarsi nel 2018, dopo le elezioni, sarà probabilmente una volta di più quello di una “dinamica conservazione politica”, come la chiamerebbe Gianfranco Borrelli stando al suo ultimo libro (Machiavelli, ragion di Stato, polizia cristiana: genealogie 1, Napoli, Cronopio, 2017). In altre parole: come mettere insieme una maggioranza “creativa” berlusconiano-renziana attraverso una delle solite operazioni di trasformismo parlamentare compiute in nome della stabilità? La prima soluzione consisterebbe nell’attingere al ventre molle grillino, convincendo o comprando (tra le due cose non c’è affatto di mezzo il mare) un po’ dei numerosi eletti e neoeletti di quella parte politica. Una seconda soluzione – dipenderà dalla concreta distribuzione dei seggi, ovviamente – potrebbe consistere nell’imbarcare i postfascisti di Giorgia Meloni in un governo magari presieduto dall’attuale ministro degli interni, Minniti, che di quelli è diventato il beniamino, specie da quando si è saputo che per un periodo ha lavorato su una scrivania che era stata di Mussolini. Un’altra starebbe nel cercare di racimolare una maggioranza a sinistra con una parte dei pur sparuti gruppi parlamentari che sortiranno dal cartello elettorale formato da Mdp, Sinistra italiana e Possibile. In ciascuna di queste tre prospettive, decisivo sarà comunque il blocco centrale berlusconiano-renziano che – al netto degli accenti leaderistici e populistici oggi in voga – si profilerà come una nuova Democrazia cristiana. Un approdo pressoché scontato di conservazione dinamica.
Da tempo, in fondo (sia pure in una situazione di bassa conflittualità sociale, assolutamente non paragonabile a quella degli anni sessanta del Novecento), la politica italiana è alla ricerca dei suoi Fanfani e dei suoi Moro. Quest’ultimo, in modo particolare, fu il grande addormentatore a livello governativo delle spinte di movimento. Il principio informatore della sua politica, al di là della facile agiografia oggi corrente, fu sempre quello della conservazione dinamica e della centralità della “balena bianca”, come si chiamava quel grande partito moderato che fu la Dc. La stessa proposta berlingueriana del “compromesso storico”, accettata da Moro, era da lui riletta come una forma d’immobilismo politico – e pour cause, visto che di quegli “elementi di socialismo” che Berlinguer avrebbe preteso vederci non recava nemmeno l’ombra: piuttosto era una maniera per riaffermare la centralità democristiana entro cui, in precedenza, era stato bollito il Partito socialista.
Oggi non c’è un Moro, e la situazione generale, in primis quella internazionale, certamente non è più la stessa. Ma la conservazione dinamica italiana è comunque al lavoro: già il governo delle “piccole intese” alfaniano-verdiniano-renziane ne è stata un’espressione abbastanza riuscita. Non c’è alcuna ragione per cambiare lo schema di gioco. È questa la convinzione profonda dell’attuale gruppo dirigente del Pd, che è alla ricerca di una copertura a sinistra (forse con l’amletico Pisapia) mentre non è per nulla interessato alla riedizione di un centrosinistra aperto e plurale. L’epoca della opposizione al berlusconismo è terminata. E si è conclusa con la sostanziale berlusconizzazione del Pd che punta (come traspare anche dalla recente legge elettorale approvata dal parlamento) alle larghissime intese.