di Luca Michelini
Le cronache internazionali rimandano l’eco delle drammatiche conseguenze sociali delle politiche liberiste. Sia là dove è più radicata (come in Cile, dal 1973), sia dove gradualmente ma sistematicamente sta smantellando le conquiste dello Stato sociale (in Europa), l’utopia liberista produce ineguaglianze economiche e sociali così stridenti, che addirittura prendono vita forme pre-politiche di jacqueries e risorgono dalle ceneri della storia forze autoritarie, come in Cile, e neonazionaliste, come in Europa. Nazionaliste e non sovraniste, come si usa dire oggi per edulcorare la realtà dei fatti: perché l’idea di nazione che propongono non è di tipo egualitario né sul piano giuridico, né su quello politico, sociale e internazionale, come invece è tipico della tradizione patriottica che prende corpo con la Rivoluzione francese. Si tratta, infatti, di una idea di nazione fondata su politiche di discriminazione, che possono assumere diverse sembianze, da quelle religiose e di “razza”, a quelle di lingua, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Politiche di discriminazione che sono l’anticamera dell’autoritarismo, fondato sull’idea che il potere della maggioranza non debba e non possa avere alcun limite né in altri poteri né nei diritti individuali fondamentali.
Ai tempi del colpo di Stato militare attuato dal colonello Pinochet nel Cile del marxista Allende, fece scalpore la vicinanza che i maestri del neoliberismo novecentesco dimostrarono nei confronti della dittatura. F. Hayek e M. Friedman, infatti, guardarono con simpatia all’esperimento sociale e politico cileno: che può essere considerato un laboratorio di quelle politiche economiche neoliberiste che vennero attuate in tutto il mondo, soprattutto a partire dal crollo del Muro di Berlino. Per l’Italia il caso cileno fu paradigmatico, perché il Partito comunista italiano trovò conferma del fatto che gli Stati Uniti avrebbero impedito in ogni modo che un esperimento sociale di superamento del capitalismo e di messa in discussione dell’equilibrio geopolitico europeo avvenisse in modo democratico e pacifico e senza incrinare le libertà individuali. Ne venne rafforzata l’idea del compromesso storico, che comunque trovò la netta opposizione, e la finale vittoria, delle forze atlantiste, dentro e fuori l’Italia.
È utile soffermarsi su alcune caratteristiche dell’esperimento cileno e del dibattito che ha suscitato nella pubblica opinione e negli studi.
Anzitutto va ricordata l’importanza strategica che ebbe per le ricette economiche e politiche della dittatura la formazione di un manipolo di economisti cileni le cui strumentazioni analitiche e culturali vennero forgiate dalla Scuola di Chicago. Quelle che potrebbero apparire neutrali e manualistiche disquisizioni economiche prive di alcun contenuto sociale e politico (è consultabile anche in rete il libricino El Ladrillo prefato da S. De Castro), si rivelarono per quello che in effetti sono: schemi funzionali all’imposizione di un preciso modello sociale, incentrato sulle privatizzazioni, sulla deregolamentazione di qualsivoglia mercato, anzitutto di quello del lavoro, sullo smantellamento dello Stato sociale (sanità, istruzione e previdenza pubbliche). Decisiva fu la costituzione di una compatta e preparata classe dirigente, che aveva ben chiaro il contesto geopolitico in cui operare (la politica estera Usa). Le tecniche di pensiero che pretendono, ciclicamente, di dimostrare l’invalicabilità delle “naturali” leggi economiche da parte della volontà umana, nonché le politiche accademiche che ne supportano la costruzione e la diffusione, sottendono sempre, in ambito economico, precise e precisabili strategie sociali. Non è un caso se la scienza economica contemporanea sia totalmente destoricizzata: perché appunto la storia (delle idee e dei fatti economici, anzitutto, ma non solo) rivela le filosofie sociali sottese a qualsivoglia linguaggio tecnico che si propone di confrontarsi con la realtà umana e di indirizzarla.
In secondo luogo vale la pena di ricordare come l’esperimento cileno, che abbinava dittatura e repressione militare con ricette liberiste, non sempre è stato considerato uno dei capitoli della parabola mondiale del fascismo. Talvolta, infatti, e facendo generalizzazioni imprudenti, si è identificato il fascismo con una parte soltanto dell’ideologia e della prassi fasciste. Il fascismo aveva certamente una componente corporativa (per altro, presente anche in una parte della destra autoritaria cilena) e statalista, che criticava esplicitamente il liberismo economico. Tuttavia si trascura il fatto che il fascismo ha sempre avuto una robusta componente liberista, che si autodefiniva «fascismo di destra» per distinguersi da quello di sinistra, quello che oggi è chiamato il «fascismo sociale». Un fascismo liberista capace di resistere, come tradizione culturale oltre che come prassi di politica economica, anche una volta che, con la Grande crisi del 1929, il rapporto tra Stato e mercato conoscerà un radicale cambiamento. L’intervento pubblico sarà infatti concepito come sostegno strategico dell’impresa privata, senza prospettare alcun salto di sistema e senza sottendere qualsivoglia critica e superamento del capitalismo.
Anche il nazionalismo economico italiano, che costituì l’architrave ideologico del regime fascista – si pensi agli scritti e all’opera politica di Alfredo Rocco –, ebbe una robustissima componente liberista. I nomi più importanti di questa corrente furono quelli di Vilfredo Pareto, di cui Mussolini amava considerarsi discepolo ed è bene ricordare che nella celebre voce «Fascismo» che si dice Mussolini abbia scritto per la Treccani non un solo cenno vi è a favore di un qualche rivoluzionamento corporativo della scienza economica; di Maffeo Pantaleoni, che, nominato senatore da Mussolini, difenderà il regime in occasione del delitto Matteotti; di Alberto De Stefani, ministro liberista dei dicasteri economici fino al 1925. Il volume di Pantaleoni Bolscevismo italiano (Bari, Laterza, 1922) fu il vero e proprio manifesto teorico del fascismo al potere e così venne considerato dalla pubblica opinione del tempo e in ambito scientifico, anche a livello internazionale: privatizzazioni, radicale avversione a qualsivoglia forma di redistribuzione della ricchezza, netta opposizione alla progressività delle imposte, totale liberalizzazione del mercato del lavoro, radicale antistatalismo (salvo le inevitabili e “tecniche” eccezioni), esaltazione dell’operato dello squadrismo fascista considerato indispensabile argine all’economia sociale allora prevalente (sindacati, cooperative, municipalizzate), pareggio di bilancio, apertura ai mercati internazionali (tendenziale liberismo): queste alcune delle ricette allora promosse dal fascismo liberista. Una destra fascista che appoggiò alcune fondamentali idee di Rocco che miravano a distruggere la democrazia: l’idea di sbarrare la strada al suffragio universale; quella di costruire una rappresentanza parlamentare corporativa; quella di dare pieni ed efficienti poteri alla maggioranza tramite una legge elettorale maggioritaria.
Di precipuo la destra fascista ebbe il razzismo politico: Pantaleoni non credeva, infatti, nell’esistenza di razze umane differenti. Ciò non di meno fu avanguardia nel promuovere l’antisemitismo dando largo credito al famigerato scritto I Protocolli degli anziani savi di Sion. Collaboratore di Pantaleoni fu Giovanni Preziosi, la cui rivista, «La Vita italiana» divenne vetrina del pensiero pantaleoniano: una volta scomparso l’economista, Preziosi darà vita alla più sistematica campagna culturale antisemita, cercando l’appoggio politico di Roberto Farinacci, ospitando i testi di Julius Evola e ripubblicando i Protocolli nel 1938, alla data, cioè, della emanazione delle leggi antiebraiche. La carriera di Preziosi culminerà, com’è noto, nella Repubblica di Salò, dove divenne una sorta di ministro della razza. Fu durante il 1943-1945, è bene non dimenticarlo, che gli ebrei vennero fisicamente sterminati.
Rocco, d’altra parte, fu tutt’altro che insensibile alla scuola liberista: ne accolse l’idea di togliere qualsivoglia terreno sotto i piedi alle correnti del fascismo che ambivano a dare ai sindacati fascisti dei lavoratori, divenuti grazie a Rocco organi dello Stato così da essere proni alle politiche del regime, un qualche effettivo potere. E su questo punto furono pienamente d’accordo anche quegli economisti fascisti, come Gino Arias, che definirono l’area del cosiddetto “corporativismo di destra”: molto sensibile alle teorie di Pantaleoni ma propensi alla costruzione di una nuova scienza economica corporativa capace di superare i limiti dell’individualismo metodologico del “maestro”. Una delle riviste più spinte nel teorizzare lo Stato totalitario fascista, come «Lo Stato» del giurista fascista Carlo Costamagna (il suo testo Dottrina del fascismo è ancor oggi ripubblicato dalle case editrici neofasciste), che trova la collaborazione di Carl Schmitt (autore che avrà letture di destra anche in Cile), contrastò decisamente la componente di sinistra del fascismo e quando dovette confrontarsi con la Grande crisi del ’29 ripropose (come Arias faceva su altre riviste di regime) le antiche ricette liberiste, che avevano in Pantaleoni un esponente di primo piano: stabilità del cambio, deflazione salariale, pareggio di bilancio, riduzione della spesa pubblica. Nessuna apertura, insomma, nei confronti del pensiero di Keynes, ma solo uso strumentale a favore dell’autarchia di regime, quella che supporta la creazione dell’Impero, di quanto l’economista aveva scritto a proposito della “fine del liberismo” e di ragionevolezza economica e sociale del protezionismo.
Perché, in effetti, sarebbe semplicistico confondere il protezionismo con il nazionalismo, anche se ne costituì una componente essenziale. Ricordandoci che la ricchezza è frutto del lavoro umano e che non esistono divisioni del lavoro (e dunque specializzazioni produttive) tra individui, tra ceti, tra classi, tra nazioni, che hanno un carattere naturale (insegnamento che ha radice nel pensiero di A. Smith), il protezionismo può e deve diventare componente essenziale del patriottismo. Che ancor oggi trova splendida codificazione nella prima parte della nostra Costituzione repubblicana. La quale, non a caso, costituisce il bersaglio privilegiato dell’utopia liberista e del rinascente nazionalismo.
Ciò che colpisce del nascente nazionalismo economico di stampo protezionistico-corporativo, soprattutto italiano, è la quasi totale mancanza di un ceto intellettuale-dirigente capace di teorizzarne gli scopi e i metodi. Non esistono – per fortuna – né quotidiani né riviste né intellettuali che possono reggere il confronto con le voci del nazionalismo fascista delle origini. Né esistono – ed è una sfortuna – ceti intellettuali-dirigenti e scuole di pensiero in grado di indirizzare il sovranismo verso il centro, per approdare a un razionale e conservator-moderato patriottismo: come quello che fece perno per lunghi anni sul partito della Democrazia cristiana italiana, capace di tenere assieme culture economiche come quelle di Amintore Fanfani e di Pasquale Saraceno.
Quali sono i motivi di questa mancanza? Un ruolo fondamentale, ma non esclusivo, ha sicuramente avuto il dispiegarsi a livello accademico, scientifico, culturale e politico della cultura liberista. A prevalere, almeno fino a ora, è proprio il nazionalismo tendenzialmente liberista, capace di creare un compromesso protezionistico sul piano invocato da autori come Pareto e appoggiato a suo tempo anche dal nazionalismo corporativo: e cioè il piano costituito da una commistione tra Stato e borghesia imprenditoriale imperniata sì su politiche protezionistiche ma al contempo capace di porsi l’obiettivo, naturalmente solo in parte realizzato grazie alla tenuta delle forze e delle istituzioni democratiche, di disfarsi da quelli che vengono definiti e “neutralmente analizzati” come gli orpelli antieconomici della democrazia politica e sociale: anzitutto qualsivoglia politica economica redistributiva e qualsivoglia meccanismo politico capace di ostacolare la volontà della maggioranza.
Di questa commistione l’Italia, dopo il crollo della Prima repubblica, è stata caso di studio a livello planetario, proponendo uno dei più impressionanti conflitti d’interesse, talmente evidente da suscitare la critica del liberalismo anglosassone in più occasioni. La fine dello Stato-imprenditore, vero e proprio colpo di mano antipatriottico che ha distrutto la seconda peculiarità dell’esperienza italiana – la prima essendo l’esistenza del più forte e pluralistico (non solo socialista e comunista, ma anche cattolico) movimento operaio organizzato dell’Occidente capitalistico –, ha lasciato lo spazio, con le privatizzazioni, alla nascita di un sistema economico fondato sull’Imprenditore-Stato dove l’unica reale liberalizzazione ha riguardato il mercato del lavoro. Sul piano politico, questo sistema ha immesso nel circuito istituzionale gran parte della destra tradizionale, nell’illusione, già presentatasi nella storia, di poterne controllare le semovenze.
Mentre il corporativismo fascista, sia di destra che di sinistra, era nato dalla necessità pratica di incanalare le masse lavoratrici nell’architettura dello Stato totalitario, incentrato su una sapiente miscela di repressione autoritaria e di costruzione del consenso, oggi qualsivoglia nazionalismo non ha più alcuna necessità di distruggere prima e di incanalare poi, nella vita dello Stato, le organizzazioni del movimento operaio nella loro multiforme espressione (sindacati, cooperative, municipalizzate, esperienze di amministrazione locale progressiste). Questa necessità non esiste più perché – ed è molto triste scriverlo – protagonista della distruzione (centellinata, ma sistematica) di queste organizzazioni è stato il cosiddetto liberismo di sinistra, cioè sono state le politiche e le prassi organizzative dei governi e dei partiti egemonizzati dalla sinistra post-socialista, post-comunista e post-socialdemocratica. Il mondo del lavoro è talmente stremato che oggi bastano blandi provvedimenti a suo favore, realizzati senza alcuna intermediazione “corporativa”, per trovarne il consenso elettorale. Le parti sociali, infatti, nelle loro varie componenti, non sono mai state interpellate e coinvolte seriamente dopo che il principio corporativo è stato utilizzato per caricare sulla classe lavoratrice il salvataggio del paese con la celebre finanziaria di Giuliano Amato e con la deregolamentazione del mercato del lavoro introdotto dal “pacchetto Treu”. I provvedimenti prima citati sono stati blandi provvedimenti, se pur talvolta significativi, per un motivo del tutto evidente: la riduzione del cuneo fiscale, quota cento, il reddito di cittadinanza, sono stati elargiti in dosi più o meno omeopatiche grazie al fuoco di sbarramento della cultura liberista. Bollandoli come provvedimenti “populisti”, di fatto antieconomici, questo fuoco è riuscito a imporre criteri di “eleggibilità” identificati sempre in base alle “neutrali tecniche di pensiero” oggi prevalenti e totalmente digiune degli insegnamenti keynesiani. Mentre a livello planetario letteralmente impazza lo scandalo economico e morale e antistorico della rendita finanziaria all’ennesima potenza, che strema Stati e milioni di esseri umani, il dibattito politico-economico si perita di sottolineare, scandalizzato, le (micro)rendite (di sopravvivenza) che quei provvedimenti sottenderebbero e l’enorme ostacolo che costituirebbero al trionfale dispiegamento delle “naturali leggi di mercato”.
Naturalmente, almeno per coloro che conoscono un poco la storia, le politiche liberistiche non possono che trovare degli insormontabili ostacoli economici e sociali: sia perché il capitalismo è un sistema economico che, se lasciato liberamente operare, crea contraddizioni economiche imprevedibili e devastanti, come le crisi (ma non solo); sia perché la società prima o poi, e cioè dopo la jacquerie pre-politica, non può che trovare delle forme di protezione dall’incedere irrazionale della logica del profitto, che ha immensi costi sociali (oltre che morali) ed economici e che costituisce, di fatto, un ostacolo di natura sociale al progresso economico e civile.
Ed è questo il punto in cui ci troviamo oggi: il punto in cui un nascente nazionalismo corporativo sta tendando di dare prova di sé. Ancora molto timidamente: tanto da aggrapparsi ai ridicoli ma pericolosi rimasugli ideologici della destra estrema (comunque montante sul piano politico e sociale) oppure tanto da cercare aiuto in schemi teorici e culturali, grazie ad alcuni (pochissimi) intellettuali, appartenenti ad altre tradizioni di pensiero (socialdemocratiche, cioè in Italia anche comuniste, o liberal-sociali: A. Bagnai, G. Sapelli, P. Savona), appunto perché l’egemonia liberista, anche nel campo sovranista, non trova ancora ostacoli degni del nome. Come dimostrano diversi e importanti casi (come quello di autostrade), il modello prevalente nel sovranismo nostrano è ancora quello dell’Imprenditore-Stato di paretiana matrice.
Esiste, tuttavia, ancora un enorme spazio teorico, culturale, politico e soprattutto economico e sociale, perché l’esperimento italiano, di cui la nostra Costituzione è esemplare frutto, possa riprendere il cammino, togliendo qualsivoglia terreno sotto i piedi tanto alla “destra fascista” in pectore e ai suoi attuali prodromi di liberismo autoritario, quanto al rinascente nazional-socialismo. Non è da escludere, ed è auspicabile che avvenga, che l’ecumenico e parlamentare incontro tra forze parlamentari per tanti versi opposte che sta proponendo questa legislatura – virtù della democrazia parlamentare e della nostra Costituzione – possa produrre, come solo in minima parte ha già fatto e al netto di trasformismi e opportunismi e internazionali servilismi, una sana e virtuosa contaminazione. È però compito delle forze progressiste (disseminate in partiti diversi e soprattutto negli architravi istituzionali della complessa macchina dello Stato), cioè di quella cultura politica che ancora crede almeno nei valori fondamentali della Rivoluzione francese, trainare il paese in questa direzione: mettendo finalmente da un canto, una volta per sempre, la filosofia economica e sociale del liberismo di sinistra e recuperando un’idea d’Europa politica e sociale. Come dicevo, le idee, però, non cascano dal cielo: le egemonie culturali sono frutto di una deliberata e complessa politica istituzionale. Incentrata sui luoghi della produzione della conoscenza, da un lato, e dell’organizzazione partitica dall’altro.