di Giovanna Lo Presti
Man mano che ci si allontana dal 21 febbraio 2020, il giorno in cui l’opinione pubblica viene informata dell’esistenza del “Paziente 1”, appare sempre più chiaro quello che all’inizio si presentava sotto forma di dubbio: ancora una volta la responsabilità umana è stata decisiva nella diffusione di un problema che, se affrontato come sarebbe stato auspicabile, non avrebbe prodotto l’ecatombe che, invece, c’è stata.
Il caso di Mattia, il “Paziente 1” (ma adesso sappiamo che era soltanto l’ultimo di una serie sufficientemente lunga di contagiati) è esemplare: si susseguono una serie clamorosa di errori nell’ospedale di Codogno, da cui Mattia va e viene, sino al ricovero, sino al tampone per accertare la presenza del Coronavirus, attuato dalla dottoressa Malara forzando il protocollo.
Riporto uno stralcio dall’intervista apparsa su La Repubblica il 6 marzo scorso. Alla domanda se l’esecuzione del tampone sia stata immediata, la dottoressa risponde così: «Ho dovuto chiedere l’autorizzazione all’azienda sanitaria. I protocolli italiani non lo giustificavano. Mi è stato detto che se lo ritenevo necessario e me ne assumevo la responsabilità, potevo farlo». L’intervistatore incalza: «Vuole dire che il paziente 1 è stato scoperto perché lei ha forzato le regole?», «Dico che verso le 12.30 del 20 gennaio i miei colleghi ed io abbiamo scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva. L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane».
Ecco individuato il secondo male endemico (il primo è la mancanza di memoria a breve, medio e lungo termine – altrimenti non avremmo la casta politica ed imprenditoriale che abbiamo): la burocrazia ottusa, miope, che affossa tutto l’affossabile e che ci fa procedere in un pantano quando potremmo camminare su un agevole sentiero. E che, inoltre, non riesce ad impedire gli abusi; anzi, spesso, li favorisce. Dunque l’incendio si è sviluppato a causa di più cerini gettati su materiale fortemente infiammabile. Adesso sappiamo – e nessuno più si inalbera, come a suo tempo fece Fontana – che i detonatori sono stati pronto soccorso, ospedali e case di riposo.
Proprio come nei più terrificanti film dell’orrore, il luogo che doveva proteggere è diventato quello più insidioso. E, purtroppo, gli operatori sanitari, oltre a pagare in prima persona un inaccettabile prezzo di sangue sono stati i primi a propagare all’esterno delle strutture sanitarie il male. Si è innescata una vera e propria tragedia, che nulla ha a che fare con l’inevitabile sciagura naturale perché, adesso ne abbiamo consapevolezza piena, molti morti dovevano e potevano essere evitati. Ma noi, NOI, avevamo la sanità migliore del mondo! Peccato che mai tempo passato fu più opportuno: “avevamo”, certo, prima che un dissennato inno all’efficienza del “privato” la riducesse a quello che è adesso e cioè ad una sanità che, all’inizio della pandemia, aveva poco più di cinquemila posti in terapia intensiva per una popolazione di sessanta milioni di abitanti! I posti in terapia intensiva, evidentemente, non sono vantaggiosi economicamente. Costano tanto e se ne ricava poco: e il privato, che è bene non dimenticarlo, bada in primo luogo al profitto, non ha alcun interesse ad incrementarli. Il pubblico, la storia lo dimostra, bada al risparmio ed ha tutto l’interesse a ridurli al minimo, tranne poi pagarne le conseguenze.
Così è andata la “fase uno”, caratterizzata da una serie di errori che, personalmente, non attribuisco tanto ai decisori politici nazionali quanto all’insipienza degli amministratori locali, soprattutto quelli della Regione Lombardia e del Comune di Milano (seguiti a ruota da quelli della Regione Piemonte). Milano sarà pure la città “che non sta mai ferma”: ma questa volta il moto continuo l’ha spinta verso il baratro. Agli occhi del cittadino comune più d’un aspetto resta inspiegabile e molti sono i nodi che la logica comune ci farebbe immediatamente sciogliere. Ad esempio: perché proprio nelle zone più colpite, in particolare nel bresciano, tante attività palesemente non essenziali hanno continuato a produrre nonostante l’epidemia mietesse vittime? Noi siamo stati informati di questo da numerosi articoli giornalistici, ma temiamo che la realtà dei fatti sia stata – e sia – anche peggiore. Come mai, almeno nelle zone più colpite, non sono partite indagini capillari per appurare qual sia la diffusione del virus?
La mia proposta è questa: invece di blaterare di “asintomatici” e di farci pensare che essi si aggirino come fantasmi pronti a colpire, si cerchi, con tutti i mezzi a disposizione, di capire quale sia la loro incidenza statistica sulla popolazione. Sprechiamo energie intellettuali e denaro per sondaggi sul gradimento dei politici di turno; chi di dovere, questa volta, metta al lavoro il personale sanitario e gli studiosi di statistica necessari per capire quale diffusione abbia il virus nella popolazione apparentemente sana. Ci sono sia i tamponi sia i test sierologici; si costruiscano campioni significativi statisticamente, strutturati per genere, fasce d’età, morbilità pregressa etc., li si affianchi con campioni casuali e si effettuino i necessari controlli. Non sarà facilissimo ma è tutt’altro che impossibile. Sapremo così quanti asintomatici ci sono tra la popolazione apparentemente sana.
Non pensiamo che si possa praticare in Italia la soluzione islandese, che è quella di sottoporre tutta la popolazione al tampone; ma un’indagine volta ad appurare, nelle regioni più colpite, quale sia la possibilità di incontrare un asintomatico dovrebbe essere avviata urgentemente. Altrimenti prevediamo già che la “fase due” proporrà una uscita scaglionata per fasce d’età: se n’è già parlato troppo. A questo punto, però, si dovrà ragionare anche su altri aspetti: chi ha più di 65 anni, in Italia, viene ritenuto in grado di lavorare ancora almeno per due anni. Continuiamo a leggere che la popolazione anziana deve essere attiva. Cosa si otterrà recludendo in casa gli ultra-sessantacinquenni? Senz’altro un deperimento delle loro condizioni generali di salute ed una fragilità aggiuntiva esaltata dall’età avanzata. Poiché non si muore soltanto di Coronavirus, è davvero importante un ritorno alla vita normale. Sono stata rigorosamente in casa da quando ciò è stato un obbligo; non sono uscita nemmeno per fare la spesa, poiché ho sfruttato l’opportunità di farmela portare a domicilio. Non è stato un sacrificio di poco conto, ma non sono disposta a prolungarlo in condizioni che, secondo me, non saranno più ragionevoli e cioè quando il “distanziamento sociale” sia necessariamente interrotto dal ritorno al lavoro, dall’uso promiscuo dei mezzi pubblici, e dal fatto che nelle famiglie i più giovani usciranno, portando magari loro stessi in casa, ai più vecchi “reclusi”, il contagio. Se l’emergenza è sanitaria, l’urgenza della ripresa economica passa in secondo piano.
Un Paese che non sopporti una fermata produttiva (ricordiamolo, parziale: sono molte, troppe le aziende che non si sono mai fermate) di due mesi è un Paese troppo fragile: qualcosa non va nel tessuto economico e questo qualcosa va studiato e corretto. La “fase tre”, poi, non dovrà essere un ritorno al 20 febbraio 2020, ma dovrà ripartire da tutt’altri assunti: ne ricordo soltanto uno, la necessità di risanare la Pianura padana e le aree appestate dall’inquinamento. I morti stimati per l’inquinamento, nella sola Pianura padana, non sono inferiori ai morti complessivi in Italia per Coronavirus: per questa sistematica tragedia, che va avanti da anni, non vengono proposti rimedi, non si cercano soluzioni. Il Coronavirus, che toglie il respiro, ci ha ridato la possibilità di respirare, in città come Torino, in cui la dispnea da polveri sottili è costante. Se quando torneremo alla “normalità” tutto sarà come prima – e lo temo, vista la generale mancanza di memoria collettiva – il peggio sarà dietro l’angolo. Non credo sia eccesso di pessimismo, ma piuttosto consapevolezza che quando la ὕβϱις non conosce limiti, quando l’avidità e lo sfruttamento incontrollato della Natura prendono il sopravvento l’epilogo, come nella tragedia greca, non può essere che catastrofico.