di Antonio Tricomi

[Questo articolo è stato pubblicato sul numero 10  de Il Ponte – ottobre 2013 ]

La grande bellezzaE va bene: fingiamo pure che Flaubert, che era Flaubert, volesse realmente scrivere un “romanzo sul niente”, invece che “un libro su nulla”, e che egli davvero non abbia saputo realizzare un proposito cui, tuttavia, non risulta si sia mai dedicato, dal momento che tanto L’educazione sentimentale quanto Bouvard e Pécuchet, per esempio, nascono da tutt’altra ispirazione. Ma, allora, perché cimentarsi in un progetto che, cosí, tanto per chiacchierare, stiamo indebitamente ipotizzando essersi dimostrato superiore persino alle forze di uno fra i massimi autori della modernità? Il rischio è che ne risulti un ambiziosissimo film sul niente che poi si rivela niente e spinge gli spettatori a domandarsi: «non sarebbe stato meglio niente?». A chi non confonda un autentico e rigoroso talento visionario con un ossessivo manierismo che, per eccesso di gratuità, da potenziale virtuosismo onirico si degrada a monocorde formalismo asfittico, La grande bellezza di Paolo Sorrentino apparirà infatti nulla.

Una dopo l’altra, debordanti citazioni sia cinematografiche sia letterarie, raramente essenziali sotto l’aspetto figurativo o nell’economia della pressoché assente narrazione, si affastellano alla rinfusa, dando non troppo congruamente vita a una carrellata, immancabilmente qualunquistica, degli idoli e dei luoghi comuni del nostro tempo. Il quale, appunto perché rievocato con una sensibilità tutta estetizzante, non risulta – al di là delle intenzioni del cineasta, quali che fossero – né decostruito, o almeno effettivamente interrogato, né messo sotto accusa, o al limite assolto. Se il desiderio era cioè quello di svelare il cinico e disperato, anzi mortuario, abbrutimento etico, nonché lo smisurato e persino lugubre cattivo gusto che si cela sotto le triviali immagini di grottesca magniloquenza imposte dall’odierna società dello spettacolo e cui aspirano a uniformarsi anzitutto ceti abbienti sempre piú ipocritamente sguaiati, e se l’ambizione era altresí quella di reperire, sia pure in cotanto squallore, tracce o potenzialità di sopravvissuta o nuova bellezza, di riaffiorata o inedita decenza, Sorrentino manca entrambi gli obiettivi. Il suo oleografico ma fragoroso barocchismo, difatti, ne rende gli slanci satirici cosí ovvi e farseschi da ridurli a epidermici e buffoneschi, dunque a facili e spuntati, sberleffi. E il suo onnivoro compiacimento espressivo, benché voglia magari provare a riscattarle, degrada invece le poche chances o illusioni di grazia e di moralità, che pensa di poter ancora scoprire nella nostra epoca corrotta, a melensi reperti kitsch.

Cosí, l’intrinseca fragilità del film – il quale non sa cogliere, del nichilismo attuale, né la tragedia (se questa realmente è la cifra etica dell’Italia contemporanea), né la profonda abiezione (giacché lo sguardo del regista non è mai capace di andare oltre la rappresentazione del sintomo per mostrarci l’origine della malattia), né la perversa e paradossale poesia (posto che da qualche parte essa davvero esista) – trova un esatto corrispettivo in quella del protagonista. Che, interpretato da un Toni Servillo insopportabilmente preoccupato di fare il verso a se stesso, di gigioneggiare con quella che è ormai diventata la sua abituale maschera cinematografica, non riesce coerentemente a incarnare nessuno dei succitati livelli culturali, emotivi, psicologici prodotti nel corpo sociale dall’odierna patologia nichilistica. Egli si rivela infatti un personaggio banalmente puerile: basti notare che il trauma in ragione del quale dovrebbe soffrire di una cronica irrisolutezza, sufficiente a garantire della sua tridimensionale complessità di testimone disilluso o di eroe controverso della nostra era, è il rammarico causatogli dalla perdita di un giovanile amorazzo estivo, vicenda la cui ricostruzione, in parte narrativa e in parte onirica, segue peraltro i clichés piú logori.

Va da sé, allora, che tanto la pretenziosa esilità della Grande bellezza, quanto la goffa inconsistenza del suo personaggio principale chiamino in causa l’arruffata ispirazione originaria di Sorrentino. Il quale, se aspirava a rappresentare il nichilismo contemporaneo come l’esito di un’imperante e viepiú pacchiana bêtise – intenzione esegetica che magari chiarirebbe il suo comunque incongruo riferimento a Flaubert –, ha invece finito con il realizzare un’opera che, per il cialtronesco e narcisistico delirio di onnipotenza interpretativa da cui nasce, diventa ciò che vorrebbe, piú o meno polemicamente, studiare. È insomma inutile girarci ancora intorno: La grande bellezza è un film intimamente “stupido”, imperdonabile come soltanto riescono a esserlo i prodotti, sia estetici sia culturali, che si pretendono di genio pur rivelandosi, banalmente, dozzinali. Se lo avesse girato, e proposto al pubblico cosí com’è, non Sorrentino, ma Neri Parenti, forse nessuno si sarebbe sforzato di scorgervi una qualche cifra inconfondibilmente autoriale.

Anche per questo viene talora da riflettere su quanto potrebbero ancora giovare, anzitutto agli autori stessi, una critica ostinatamente scrupolosa e mai servile, un pubblico di nicchia non fintamente colto o, comunque sia, capace di sicura razionalità esegetica, quindi in nessun caso disposto, per semplice vezzo conformistico, a esaltare ciò che non capisce appunto perché non lo capisce o a sovrainterpretare, in ossequio a una pura lussuria intellettualistica, mere suggestioni di senso. Quando era ancora considerato solamente un giovane talento, Sorrentino – con lavori quali L’uomo in piú, Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia – ha realizzato film forse mai perfetti ma senza alcun dubbio importanti, nei quali è riuscito magari non del tutto, e però sufficientemente, a disciplinare la sua vocazione manieristica e i suoi istintivi afflati nichilistici, mettendo l’una e gli altri al servizio di storie ponderatamente surreali e di maschere argutamente deformate che gli consentissero di ritrarre la nostra come un’età contrassegnata dal dominio dell’assurdo. È stata poi la volta di un’opera, Il divo, sotto ogni aspetto discutibile, e invece acriticamente accolta – specie da quei cinefili per i quali ogni citazionistico gargarismo della macchina da presa è sintomo di capolavoro – come la consacrazione di un maestro. Ha fatto seguito finanche la celebrazione delle qualità di scrittore del cineasta napoletano, solo che – per quanto costui, come tutti i veri nichilisti confusamente sinistrorsi, possa amare Céline e, magari, persino ambire a farsene emulo – c’è voluta tutta la faccia tosta, e anzi la cattiva coscienza, dei suoi dichiarati ammiratori per riconoscere in Hanno tutti ragione un romanzo di pregio. Ormai, il danno si era però prodotto: Sorrentino era divenuto un incontestabile artista e intellettuale a tutto campo, eletto ad acuto interprete di ogni risvolto della nostra società e, per parte sua, pronto a liberare da qualsivoglia freno la propria creatività, fin dal principio impetuosa, ma adesso legittimata a offrirsi priva di misura. Furbo e pretestuoso, vuoto e fasullo, This Must Be The Place ha solo annunciato quel tronfio gorgheggio di piena smodatezza culturale ed espressiva che per l’appunto è La grande bellezza. L’auspicio è che, dopo averlo stupito e offeso proprio perché sopraggiunta come un atto di lesa maestà, la freddezza con cui la critica ha accolto il film possa contribuire al rinsavimento del regista, invece di spingerlo, nei prossimi lavori, ad accentuare la megalomania della sua poetica con l’obiettivo di persuadere definitivamente tutti della propria statura di cineasta e maître à penser.

Staremo a vedere. Nel frattempo, prendendo ancora spunto dalla Grande bellezza, si può forse tentare di svolgere qualche altra considerazione di carattere magari piú generale. Non lo si è ancora sottolineato, ma risulta evidente che, nel suo ultimo film, Sorrentino affida a una serie di calchi – piú che ad accorte rivisitazioni – di Fellini, del quale è in primo luogo riattraversata La dolce vita, il proprio viaggio in quel cinico e cafone eudemonismo della sedicente intellighenzia nostrana che, per quanto possa effettivamente caratterizzare notti e giorni della capitale e della nazione intera, egli fa però riaffiorare sullo schermo come pura reminiscenza cinefila. Contestabile appare tuttavia non già la scelta della guida, per siffatta discesa agli Inferi, ma la maniera, maldestra e parassitaria, di servirsi del modello. A tutt’oggi, Fellini rimane infatti il cineasta che, a costo di interiorizzarne e scusarne i vizi, meglio ha saputo tratteggiare il nichilismo verosimilmente antropologico di un paese da questo punto di vista forse immodificabile, in un certo senso condannandosi – come ha osservato Rino Genovese in un raffinato diario, Ci sono le fate a Stoccolma (Reggio Emilia, Diabasis, 2008, p. 16), ingiustamente negletto – a mantenersi «superficiale», o si potrebbe addirittura dire provinciale, per porsi al livello del «fondale impazzito» che è l’Italia e in tal modo cogliere, o magari colpevolmente giustificare, quell’inconfondibile impasto di «vitellonismo e casanovismo», di matrice intrinsecamente cattolica, imperituro nella nazione e capace di determinare una diffusa «cialtroneria» di segno «sorgivamente fascistico».

Riandiamo però con la mente anche all’ultima pellicola di Matteo Garrone. Certo non impeccabile, giacché almeno in parte modulato su un’intelligente ma alla fin fine irrisolta riscrittura del Pinocchio che tenta di tenere assieme Pirandello e Orwell, nonché – per ammissione stessa del regista – De Filippo e il De Sica di Matrimonio all’italiana, Reality è comunque una corrosiva favola nera su un’età, la nostra, che lo psicoanalista Franco Lolli ha di recente definito L’epoca dell’inconshow (Milano-Udine, Mimesis, 2012), strutturalmente fondata su quel «meccanismo della Verleugnung», cioè del rinnegamento, che, in ciascun cittadino e fruitore dell’odierno sistema dell’esibizionismo non solo televisivo, favorisce «la Ichspaltung», ossia «una scissione dell’io che implica la credenza in due realtà diverse e contrastanti: la realtà ordinaria e la realtà spettacolare, il mondo insoddisfacente della quotidianità e il mondo scintillante dello show», al cui interno «l’esistenza acquista una connotazione diversa», tale da «risarcire il soggetto dalla deludente “normalità” alla quale è condannato» (p. 89). Esattamente ciò che il protagonista della pellicola, nel suo conclusivo delirio psicotico, si augura possa accadere a lui ed esattamente ciò che altresí sperano capiti loro i figli tutti di una società in quest’ottica culturalmente borderline. Ebbene, anche Garrone – basti richiamare alla memoria le magnifiche sequenze iniziali di Reality – convoca e con indiscutibile maestria riattraversa, fra gli altri modelli, giustappunto Fellini per farsi talora scortare dal cineasta riminese in questo suo tragicomico apologo sul fondamento nichilistico dell’attuale società italiana, specchio per nulla deformato di un “perverso” Occidente che ancora una psicoanalista, Colette Soler, giudica ormai segnato dal narcinismo. Patologia descritta da un collega dell’intellettuale francese, Massimo Recalcati, alla stregua di un’angosciosa e frustrante fusione di narcisismo e cinismo le cui preoccupanti conseguenze – tutte scontate dal personaggio principale del film di Garrone – «definiscono la melanconia caratteristica della nostra epoca: isolamento, distruzione molecolare del legame, sconnessione, disinserzione, rifiuto dell’Altro» (cfr. L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Milano, Cortina, 2010, p. 160).

Dai due esempi appena citati, e da altri indizi che non sarebbe granché faticoso raccogliere, sembra insomma di poter riscontrare una voga neofelliniana nell’odierno cinema italiano, tendenza in sé poco significativa, nei casi in cui si limita a segnalare una scelta puramente manieristica, ma di colpo capace di assumere un rilievo culturale, prima ancora che estetico, quando, al di là del valore dei loro film, a farla propria sono autori che in una simile opzione formale riconoscono la strada quasi obbligata per narrare, o trasfigurare visivamente, tanto l’attuale degrado della nazione, quanto il convincimento diffuso che a esso non vi sia rimedio. Anche per effetto di «trent’anni d’ipnosi televisiva», che «hanno disinnescato l’organo pensante» e quindi causato «l’atrofia del pensiero», come ha notato Cordero, l’Italia pare cioè tornata a essere – sempre che sia mai stata qualcosa di diverso e poi perché è soprattutto nei momenti di crisi piú profonda che essa si mostra per quella che realmente è – il paese vituperato da Leopardi nel 1824: uno spicchio d’Europa amministrato da «un pieno e continuo cinismo d’animo, di pensiero, di carattere, di costumi, d’opinione, di parole e d’azioni»; un angolo d’Occidente in cui «la società stessa, cosí scarsa com’ella è, è un mezzo di odio e disunione, accresce esercita e infiamma l’avversione e le passioni naturali degli uomini contro gli uomini, massime contro i piú vicini, che piú importa di amare e beneficare o risparmiare» (cfr. Giacomo Leopardi/Franco Cordero, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. Seguito dai pensieri d’un italiano d’oggi, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, pp. 227, 228, 233).

Non può dunque stupire che alcuni fra i principali cineasti italiani in attività si rifacciano alla lezione di Fellini – molto piú sintomo che non bussola dello sfascio etico e civile connaturato alla nostra società – nel tentativo di misurarsi con il claustrofobico degrado nazionale di questi anni, senza fingere di poter scorgere nel presente irreperibili illusioni di riscatto o credibili disegni palingenetici. Dopodiché, taluni, come Sorrentino, sembrano guardare all’autore di Amarcord anzitutto con l’intento di guadagnarsi una legittimazione per il proprio desiderio quasi di sguazzare compiaciuti nell’orrore contemporaneo, cosí rivelando l’intrinseco cinismo, non necessariamente laico, che li guida: del resto, Pasolini giudicava La dolce vita, non a torto, un film cattolico (cfr. Saggi sulla letteratura e sull’arte, Milano, Mondadori, 1999, vol. 2, pp. 2269-2279). Altri registi, come Garrone, si rivolgono invece a Fellini senza con ciò disfarsi del loro originario progetto di dissezionare il putrido cadavere dell’Italia resistendo a qualsivoglia tentazione necrofila e irrazionalistica.