di Angelo Tonnellato
Il grande e meritorio lavoro che il Comitato per le edizioni gobettiane, con il suo presidente Bartolo Gariglio, emerito dell’Ateneo torinese, in trincea “sotto la Mole” (è il caso di dire) e le Edizioni di storia e letteratura, con Tommaso Codignola e i suoi collaboratori in prima linea a Roma, stanno da tempo svolgendo – nel deprimente silenzio di ciò che resta dell’informazione culturale nel nostro paese – per la riproposta di tutti i titoli di Gobetti Editore, incrocia nuovamente la personalità e il percorso di Novello Papafava, del quale è stato appena riproposto il volumetto del 1924, Fissazioni liberali, accompagnato da un’ampia, robusta e acuta postfazione di Valeria Mogavero intitolata Le “fissazioni liberali” di Novello Papafava: la libertà, la Costituzione e la patria1.
Oggi forse il nome dell’autore e il titolo del volumetto dicono assai poco a troppi. Noi italiani siamo del resto celebri per la capacità che abbiamo di dimenticare anche noi stessi –figuriamoci i nostri padri e nonni – nell’alone della macchia d’unto delle deformazioni e alterazioni prospettiche prodotte dal continuo farneticare di una “memoria” tanto pervasiva e invocata quanto indeterminata e svuotata di storicità: si razzola in una specie di magazzino di trovarobe, “allietato” da giullari, imbonitori, saltimbanchi, ventriloqui e fattucchieri, mentre i “comari maschi” di cui parlava Pessoa invadono tutti gli spazi della quotidianità e gli “invasori verticali” di Ortega y Gasset tornano a fuoriuscire dalla botola di un sottosuolo umano, prima ancora che politico, indossando e dismettendo freneticamente in pubblico felpe, berretti, canottiere e giubbe “logate” al bisogno o, come direbbe l’abate Galiani, “all’impronto”.
Novello Papafava e le sue Fissazioni liberali non passarono però inosservati quando il libro uscì, nel pieno della crisi innescata dal rapimento e dall’assassinio di Giacomo Matteotti.
Se ne ricordò, ancora alcuni anni dopo, Giuseppe Bottai, ministro delle corporazioni e neo-professore “per chiara fama” di diritto corporativo, quando, a Pisa, il 10 novembre 1930, svolgendo la prolusione all’anno accademico2, dileggiò «il feticismo per le carte costituzionali, che ancora recentemente ha costituito un elemento di resistenza per le statuizioni che il Fascismo ha voluto fare in nome del suo spirito», nonché «il feticismo per le guarentigie della libertà, per la divisione dei poteri»: malinconiche rivendicazioni da espungere dal dibattito e dai programmi politici perché «La retorica libertaria, i feticismi democratici, le bravate giacobine, le fissazioni liberali, le noiose prediche e le infantili dichiarazioni di fede agli immortali principi, che hanno aduggiato la storia moderna, ci hanno fatto ridere»3.
Che Bottai ridesse di ciò che invece avrebbe dovuto farlo piangere, e che per di più irresponsabilmente ghignasse compiacendosi dei suoi scioglilingua di letteratucolo fallito, non ci meraviglia. Le «fissazioni liberali» da lui sbeffeggiate nella discorsa pisana certamente agganciavano il ricordo, sommerso e tuttavia non del tutto spento, del volumetto gobettiano di Novello Papafava o quanto meno del suo solo titolo. I fascisti, Mussolini in testa, assai spesso dei libri leggevano e memorizzavano solo il titolo. Come che sia di ciò, preme qui sottolineare, aderendo alle linee ricostruttive e interpretative di Valeria Mogavero, che le pagine di Papafava, mano a mano che erano venute a stampa nella «Rivoluzione Liberale», avevano cooperato all’individuazione e delimitazione di un segmento, a mio avviso non irrilevante, del campo della essenziale e vitale battaglia politica allora in atto, da un lato segnalando i punti di frana dell’ordinamento e della convivenza e, dall’altro, chiamando i concittadini disponibili a un non facile impegno in quel tempo estremamente difficile: la difesa della Costituzione e del principio di legalità, della divisione dei poteri e della democrazia, l’opposizione decisa alle bande armate di un partito il cui carattere geneticamente terroristico-eversivo non poteva essere sanato nemmeno dal consenso del fellone “reuccio merovingio”, secondo l’icastica definizione di Salvemini. Proprio all’indegno inquilino del Quirinale l’ex ufficialetto di complemento della battaglia del Piave si trovò infatti a ricordare i doveri che alla Corona incombevano, ruvidamente scrivendo, nel «Caffè» di Parri e Bauer, che un re d’Italia, mettendosi fuori dal perimetro dello Statuto sancito dai plebisciti, era solo un traditore.
Alla biografia etico-politica di Novello Papafava, e alla nascita del suo antifascismo, Valeria Mogavero ha già dedicato, qualche anno, un ricco e documentato volume4. Ragazzo del ‘99 e volontario di guerra, Papafava nasce, culturalmente e politicamente, nella temperie della Grande guerra e dei suoi lasciti avvelenati. Durante e dopo quella che Giustino Fortunato avrebbe definito «guerra sovvertitrice», il giovane padovano trovò i suoi punti di riferimento in alcuni amici di suo padre Francesco rimasti, dopo la scomparsa del genitore, affezionati frequentatori della famiglia: Gaetano Salvemini e Giovanni Amendola, innanzitutto; e poi Giuseppe Donati e Carlo a Prato, De Viti De Marco e Fortunato stesso.
A scuola, a Firenze, aveva stretto amicizia con Aldo, Carlo e Nello Rosselli, con Gualtiero Cividalli e la futura moglie di questi Maria D’Ancona, nipote del rinomato filologo. A meno di vent’anni Papafava entrò in rapporti con Piero Gobetti, che di anni ne aveva addirittura qualcuno meno di lui; s’era nella fase eroica e fibrillante del primo periodico gobettiano, «Energie Nove». A Montepulciano, dov’era andata a vivere la sorella Margherita, moglie di Lucangelo Bracci – una coppia decisamente salveminiana – Novello conobbe anche Piero Calamandrei. Un milieu e una rete relazionale decisamente d’eccezione. Amicizie destinate a durare, memorie di scomparsi mai dimenticati e di battaglie mai ricusate. L’adesione, con Calamandrei e Bracci, Morra e Zanotti Bianco, ai gruppi salveminiani, e poi all’Unione nazionale di Amendola e al Manifesto degli intellettuali antifascisti, segnò una prima differenza anche con Gobetti, che aveva aderito al movimento promosso da Salvemini, per esempio, ma non al manifesto di protesta promosso da Amendola e Croce, cui peraltro non apposero le loro firme neanche gli intellettuali comunisti. La mancata sottoscrizione del documento – nonostante le pressioni esercitate da Papafava sull’amico, e quasi coetaneo, torinese – fu sostanzialmente il riflesso di una drasticamente contrapposta differenza di valutazione e percezione dello scontro in atto, su cui in questa sede non è possibile dilungarsi, ma che trovava proprio nel rifiuto di ingaggiare battaglia a difesa della Costituzione – che per i liberal-democratici e i socialisti riformisti era, bene o male, l’unica esistente; mentre per comunisti, massimalisti e eretici come Gobetti era solo carta straccia – il principale asse di divergenza. La netta e recisa svalutazione comunista dello Statuto albertino solo assai parzialmente ereditava un profilo d’intransigenza già presente in alcune correnti del socialismo di fine Ottocento; per il resto, infatti, ossia per la sua massima estensione polemica, essa rifletteva una strategia rivoluzionaria nella quale più che le ragioni storiche del contrasto innescato dalla crisi del 1898 tra Bissolati e Salvemini5 pesavano le analisi e le prospettive di un potere e volere “fare come in Russia” cui la difesa dell’assetto costituzionale sarebbe stato di potente intralcio, anche indipendentemente dalla trama e dai concreti contenuti della Carta, perché obbligante a una trasversalità d’alleanze ritenuta evidentemente incompatibile con il progetto comunista. Lo stesso Gramsci, nel giro di poche settimane, tra la fine di novembre del ’18 e i primi mesi dell’anno successivo, mutava radicalmente le sue posizioni abbandonando l’idea secondo cui l’armistizio aveva iniziato a dar frutti:
Abrogato il decreto Sacchi, i rapporti fra gli individui e lo Stato ricominciano ad essere regolati dalle leggi ordinarie condizionate dallo Statuto. La lotta politica ricomincia a svolgersi in un ambiente di relativa libertà, condizione indispensabile perché i cittadini possano conoscere la verità, possano riunirsi, possano discutere i problemi e i programmi economici e politici, possano associarsi dopo aver identificato la loro volontà e la loro coscienza con una volontà e una coscienza sociale organizzata in partito6
Dai primi mesi del ’19, con lo scatenarsi della bufera delle violenze fasciste, l’emergere e consolidarsi e costituirsi delle connivenze e complicità godute dall’eversione mussoliniana, l’ambiguità di giudizio con cui anche dai comunisti si guardò al D’Annunzio “fiumano”, il ripensamento è affidato a parole del tutto diverse:
Lo Statuto – finzione giuridica della sovranità imparziale e superiore della legge votata dai rappresentanti del popolo – fu in realtà l’inizio della dittatura della classe possidente, la conquista “legale” del potere supremo dello Stato [da parte della classe possidente]. La proprietà privata divenne istituto fondamentale dello Stato, garantito e tutelato sia contro gli arbitri del sovrano che contro le invasioni dei contadini espropriati. Con lo Statuto si toglie al re ogni potere di intervenire nella regolamentazione delle questioni di proprietà privata, anzi la dinastia viene legata alla fortuna della proprietà privata. La società viene sciolta da ogni vincolo collettivo e ridotta al suo elemento primordiale: l’individuo-cittadino7.
Cinque anni dopo le analisi del capo comunista sarebbero state ancora più drastiche; e il displuvio tra lo stare “di qua” o “di là”, se possibile, posto in termini ancora più netti ed escludenti:
Nell’ora attuale si tratta di ben altro che di ritorno alla Costituzione, di democrazia e di liberalismo. Sono queste ultime delle parole melliflue che la borghesia cerca di far ingoiare ai lavoratori della città e della campagna per evitare che la crisi acquisti il suo vero carattere, cioè di rivincita degli operai e dei contadini contro il fascismo che li ha soppressi e contro il liberalismo e il riformismo che li ha ingannati e che, ancora mesi or sono, collaboravano o cercavano di collaborare (D’Aragona, Baldesi, ecc.) con Mussolini. […] Il liberalismo, anche se innestato delle glandole della scimmia riformista, è impotente. Appartiene al passato. E tutti i don Sturzo d’Italia, uniti a Turati e a Vella, non riusciranno a rendergli la giovinezza necessaria alla liquidazione del fascismo. Un governo di classe di operai e di contadini, che non si preoccupa né della costituzione, né dei sacri principi del liberalismo, ma che è deciso a vincere definitivamente il fascismo, a disarmarlo e a difendere contro tutti gli sfruttatori gli interessi dei lavoratori della città e della campagna: ecco la sola forza giovane capace di liquidare un passato di oppressione, di sfruttamento e di delitti e di preparare un avvenire di vera libertà per tutti coloro che lavorano. […] Soltanto l’armamento degli operai e dei contadini potrà disarmare la milizia fascista8.
Parole certo significative e forti, che però stanno già in una divaricazione rapidamente fattasi irrecuperabile delle due prospettive antifasciste. Parole e progetti comunque gravidi di conseguenze nell’autosufficiente chiamata alle armi del solo movimento operaio e contadino. La questione che Mogavero aiuta a rimettere a fuoco è proprio questa delle due rispettive pretese d’autosufficienza che si saldarono in un’unica sconfitta.
Lasciando alla sola esigua élite dei liberal-democratici e alla combattiva pattuglia dei popolari di Ferrari e Donati la difesa dello Statuto si finì probabilmente per favorire, ancorché preterintenzionalmente, la formazione e il rafforzamento del limaccioso pantano formalmente liberale in cui gli Orlando, i Romano, i De Nicola e i Salandra – ma anche lo stesso Nitti della delimitazione della galassia dei ‘disponibili’ in funzione antisocialista e i cattolici ‘possibilisti’ – avviarono quel ‘dialogo’ con il fascismo sul quale ha recentemente richiamato l’attenzione Giulia Albanese nel suo volume sulle dittature mediterranee introducendo un parametro di valutazione storiografica diverso, e assai più fruttuoso e promettente, da quello, tradizionale e fitto di stridori tautologici, dello “svuotamento” della Costituzione albertina dall’interno. La flessibilità delle costituzioni arriva, sempre, fin dove si spinge anche la flessibilità dei giuristi, i quali, in Italia ma non solo, erano parte largamente integrante delle «vecchie classi dirigenti» e del «dialogo continuo tra innovazione e tradizione» che caratterizzò il rapporto di queste con la dittatura9.
Nella prolusione senese del 1921 Calamandrei non a caso fa battere l’accento su un punto assai significativo: che, cioè, non basti che la divisione dei poteri sia sancita dalla Costituzione o dalle leggi, quanto dalla prontezza e cogenza dell’azione degli organi di controllo: «La civiltà dei popoli, la forza degli Stati si misura […] non tanto dalla bontà delle leggi che li reggono, quanto dal grado di indipendenza raggiunto dagli organi che queste leggi sono chiamati ad applicare»10.
Il primo magistrato a disertare fu ovviamente il re, assieme ai due capi militari che avevano condotto l’Italia a Vittorio Veneto, Diaz e Thaon di Revel. I tre, in concorso tra loro, non solo dettero forma pseudo-legale alle bande armate di un partito, ma trasfusero in articoli di legge l’auto-narrazione fascista e l’etno-genesi dell’italiano “nuovo” assorbendo nelle compagini statali un’organizzazione eversivo-terroristica. Su questo punto l’intelligenza critica, la retta coscienza e la sensibilità risorgimentale di Novello Papafava decisamente sopravanzarono quelle dei “padri della patria” e maestri del diritto – compresi Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra, Santi Romano ed Enrico De Nicola –; ed è merito di Mogavero (pp. 138 ss.) di avere tra mille fili individuato con sicurezza questo della compromissione che anticipò lo “svuotamento” e segnò non solo il tradimento dei chierici del diritto, ma anche lo sbandamento che il loro comportamento produsse in tanti che, da loro diversamente orientati, forse non si sarebbero arresi prima ancora di combattere.
La postfazione di Mogavero conserta alle analisi che svolge una ricca filatura di lettere inedite, le più belle delle quali sono quelle che Margherita Papafava scriveva al fratello fornendogli il suo sostegno e le sue impressioni di attenta lettrice de «La Rivoluzione Liberale» e non solo. Assai ben documentate sono anche le reazioni critiche che le Fissazioni suscitarono, non solo pubblicamente, attraverso le recensioni, ma anche in scritture private che vengono qui per la prima volta organicamente valorizzate e messe in griglia interpretativa. Anche sotto questo profilo le sorprese, a poco meno di un secolo di distanza, sono significative e di non poco conto. Non a caso il saggio si chiude con la morte di Gobetti in terra di Francia: la «breve esistenza» che si spegne mentre «”l’autunno delle libertà” scivola nell’inverno della dittatura». I nomi e le voci dei gobettiani d’allora e di dopo, il dialogo con i Rosselli, la fedeltà salveminiana, gli accenti indomiti dei popolari ed esuli Giuseppe Donati e Francesco Luigi Ferrari, la battaglia del «Popolo» contro gli assassini di Matteotti e soprattutto contro il loro mandante. La scomparsa del giovane torinese riempie le ultime pagine di Mogavero, cui dobbiamo anche la pubblicazione d’un’inedita lettera di Umberto Morra a Novello Papafava sulla visita del cortonese alle «donne Gobetti». Vecchie storie, vecchi affetti? Sono sempre storie e uomini nuovi a ogni rilettura; lo specchio pulito della cattiva coscienza di un paese datosi volta in servitù e che sovente sembra smanioso di dare sempre il peggio di sé smemorandosi del passato e incapace di progettare il futuro.
1 Novello Papafava, Fissazioni liberali [1924], postfazione di Valeria Mogavero, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2019.
2 G. Bottai, Dalla rivoluzione francese alla rivoluzione fascista, «Archivio di studi corporativi», I (1930), n. 3, pp. 417-426. Questa prolusione sarebbe stata poi ristampata, con lievi variazioni e con il titolo mutato in Corporativismo e principi dell’Ottantanove, in Id., Scritti, a cura di R. Bartolozzi e R. Del Giudice, Bologna, Cappelli, 1965, pp. 169-176.
3 Ivi, p. 176: il corsivo è mio.
4 Valeria Mogavero, Novello Papafava tra Grande Guerra, dopoguerra e fascismo. Alle radici di un’opposizione liberale (1915-1926), prefazione di M. Isnenghi, Verona, Istrevi-Cierre, 2010.
5 Si veda per esempio la lunga lettera inviata da Gaetano Salvemini a Leonida Bissolati il 21 febbraio 1899 in Salvemini, Carteggio (1894-1902), a cura di Sergio Bucchi, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 187-192.
6 [Antonio Gramsci], Il dovere di essere forti, «Avanti!» [Ediz. piemontese], 25 novembre 1918 (senza firma).
7 [Gramsci], La sovranità della legge, «Avanti!» [Ediz. piemontese], 1° giugno 1919 (senza firma). Per la costante svalutazione gramsciana dello Statuto dal 1919 in poi, senza alcuna pretesa di esaustività, si vedano almeno [Id.], I comunisti e le elezioni, «L’Ordine Nuovo», 12 aprile 1921 (senza firma); [Id.], Il manifesto dei socialisti, ivi, 13 aprile 1921; [Id.], Legalità, «L’Ordine Nuovo», 28 agosto 1921, (senza firma).
8 [Gramsci], Né fascismo né liberalismo: soviettismo!, «l’Unità», n. 203, 7 ottobre 1924 (senza firma).
9 Giulia Albanese, Dittature mediterranee. Fascismo e colpo di stato in Italia, Spagna e Portogallo, Roma-Bari, Laterza, 2016, p. 179.
10 P. Calamandrei, Governo e Magistratura. Discorso inaugurale letto il 13 novembre 1921, «Annuario Accademico della R. Università di Siena», 1921-1922, p. 16.