di Alessandro Gaudio
In un bel racconto della giovanissima Eva Luna Mascolino, il protagonista, Jean-René Leroy, vignettista di «Charlie Hebdo» fortunosamente scampato all’attentato terroristico del 7 gennaio 2015, non riuscendo a sopportare la colpa di essere sopravvissuto, si toglie la vita «soffocandosi con un sacco della spazzatura»1. Il suo massimo atto di responsabilità risponde e fa da contraltare alla distratta adesione, soltanto confusamente emotiva, di chi dice Je suis Charlie, espressione ambiziosa e opportunistica, mai seguita da azioni concrete ed efficaci.
Leroy è un Charlie diverso; lo dichiara egli stesso nel bigliettino autografo ritrovato dopo la sua morte in un cassetto della scrivania. Il testo merita di essere riportato integralmente, nella traduzione dal francese che appronta la stessa autrice: «Io non sono stato Charlie per molto tempo, ma avrei voluto esserlo volentieri. Niente finti reportage, niente viaggi. Nessuna ossessione per questa bellezza che non si vede più da nessuna parte, neanche a Parigi. Avrei dovuto restare qui, avrei dovuto essere già morto. Ecco, fra un minuto finalmente rimedio. Torno a essere Charlie, forse per la prima volta»2.
Leroy, nella ricostruzione di Mascolino, era andato in cerca di qualcosa che lo sottraesse alla svagata bellezza di Parigi, cercandone la chiave nella disintossicante normalità di Lentini, «paesino siciliano dall’aria sperduta»3, ma trovandola soltanto nella materialità della sua risoluzione estrema. Epperò, muore, incarnando così il paradosso di un’Europa che aderisce solo fittiziamente − «di pancia»4, precisa la stessa scrittrice, istintivamente − all’oggetto della sua libido e, investendola narcisisticamente su di sé, si allontana sempre più dalla realtà, dalla maturazione, dall’identificazione con l’altro.
A un certo punto si direbbe che si possa essere Charlie, sottraendosi al collare che strangola, avendo l’indistinta impressione che possa esserci qualcos’altro, oltre un destino preordinato. Tant’è che Leroy, scappando in Sicilia con il suo gatto, Lechat, ci prova in maniera quasi inconsapevole ma, di fatto, tornando a Parigi all’insaputa di tutti e appena in tempo (nonché «in modo apparentemente immotivato»5, specifica Michele Frisia nell’interessante postfazione del volume), non riesce a sfuggirgli. Si fa fatica a sfuggire alla disposizione che nell’Europa capitalistica impone un’aderenza differita alla realtà, anche quando dichiara, in maniera fiacca e smorta e senza vergogna, di essere Charlie. Non sfugge neanche il tentativo stesso di ricostruire la vicenda immaginaria di Leroy, capillarmente fabbricata su documenti falsi dei quali vengono indicati con precisione anche autori e sedi editoriali.
L’attentato terroristico, insomma, costituisce lo spunto, scelto con grande intelligenza, per sondare e, dunque, criticare «certi meccanismi mediatici e sociologici del mondo occidentale»6. Meccanismi totalizzanti mediante i quali il capitale riesce a superare le sue crisi e, anzi, a sfruttare queste per riprodursi a tempo indeterminato, mentre i militanti da tastiera provano l’ebbrezza di lanciarsi in lotte sempre nuove, ma incapaci, nella loro frammentazione, di vincere il presente sempiterno che la nostra civiltà impone, e diventando, in sostanza, fonti di ulteriore sottomissione.
Con la lacerante brevità di Je suis Charlie, Mascolino attacca lucidamente l’intelletto astratto, il disimpegno o, ma è la medesima cosa, l’impegno spoliticizzato e privo di inventiva di chi spara con una pistola caricata a salve, ossia di chi sposa una causa, pur restando assoggettato alla stessa logica che crede di combattere. Il racconto di una contro-soggettività, che non è che l’altra faccia del nichilismo, passa dalla narrazione della soggettività subalterna, moltiplicata nel General Intellect, ossia nell’intellettualità di massa di cui parla Marx nel Frammento delle macchine all’interno dei Grundrisse, nei luoghi comuni della mente, nelle idee fatte proprie di chi non potrà mai essere Charlie. «Je suis Charlie» è attività senza opera, non è che il sintomo di una cattiva coscienza, il frutto guasto e generalissimo del «pensiero astratto divenuto pilastro della produzione sociale»7.
Per questa via la vita della mente, seguendo quei meccanismi e quelle strategie rassicuranti ben descritte nel racconto di Mascolino, diviene, per così dire, pubblica, ma senza convergere in una volonté générale. Resta generica facoltà umana − spiega Paolo Virno −, intelletto come semplice spartito, eseguito dal capitale, dunque colonizzato. La fuga di Leroy prova a farsi invenzione spregiudicata che spariglia le carte, ma si rivela pratica illusoria e, infine, mera defezione. Il campo di battaglia vero e proprio risiede nel soggetto che, nel migliore dei casi, riesce a individuare, almeno in parte, «la quota di realtà preindividuale [vale a dire sociale] che reca sempre in sé»8. Nel peggiore dei casi, invece, le due forze produttive, quella individuale e quella sociale, si intrecciano infelicemente, come nell’esperienza esemplarmente fallimentare di Leroy e di quella omologa, ma anonima e oziosa, di chi nutre certezze rassicuranti e diffonde opinioni sempre già condivise.
Il capitalismo cancella le esigenze di autonomia, imponendo una coercizione che è anche di natura psicologica, oltre che di linguaggio. Charlie, ripetizione rassicurante e ipocrita che non si articola in uno spazio politico, è frutto di questa omeostasi incontestabile, è un oggetto disinvestito dalla libido e reinvestito nell’Io: una specie di ingorgo della libido che finisce per interiorizzare la relazione tra il soggetto e l’altro, sulla scorta di ciò che Freud ha definito narcisismo secondario e legato a un certo esercizio conservativo che passa dalle idee fatte, oltre che dall’esigenza di essere riconosciuti socialmente. È per questa strada che è possibile arrivare a individuare, almeno per certi aspetti, il funzionamento psicologico del capitale, consapevoli del fatto che la sua rappresentazione è già di per sé un tentativo di disconferma dei suoi valori.
1 E.L. Mascolino, Je suis Charlie [2015], a cura di M. Frisia, prefazione di E.E. Abbadessa, Belgioioso (Pv), Divergenze, 2021, p. 32. L’autrice, nata a Catania nel 1995, con questo racconto ha vinto, nel 2015, la XX edizione del Premio Campiello Giovani. Per una piccola casa editrice siciliana, nel 2018, ha pubblicato Vladimir’s Blues.
2 Ivi, p. 34.
3 Ivi, p. 14.
4 Ead., Co-incidenze, o la genesi del “mio” Charlie, ivi, p. 51.
5 M. Frisia, Je suis le raisonneur, ivi, p. 44; del resto, altrettanto immotivata è la fuga di Leroy a Lentini.
6 E.L Mascolino, Co-incidenze cit., p. 51.
7 P. Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee [2002], Roma, DeriveApprodi, 20144, p. 55, ma si veda anche pp. 17-35.
8 Ivi, p. 73.