di Tomaso Montanari
Tra gli ultimi doni di Roberto Calasso editore, ecco il secondo volume delle Immagini dell’Italia di Pavel Muratov (Milano, Adelphi, 2021, pp. 311). Un viatico perfetto per il viaggiatore che, in questa estate segnata dalla quarta ondata del virus (e dall’incompetenza dei peggiori al governo) voglia evitare gli aerei, e regalarsi la riscoperta del nostro paese.
Qualcuno dei miei venticinque lettori rammenterà che un anno e mezzo fa, all’inizio del 2020, parlammo del primo volume che raccoglie le riflessioni italiane di questo sensibile viaggiatore russo del primo Novecento. Se in quelle pagine a trionfare era Firenze, qua sono invece Napoli, la Sicilia e soprattutto Roma a conquistare Muratov. Non con la descrizione minuta ed erudita dei loro monumenti (cui intere biblioteche erano già state dedicate), ma grazie alla rabdomantica capacità di respirare la loro aria: a Roma, per esempio, «l’odore di candele e incenso che spira dalla porta socchiusa di una chiesa; l’andatura dei religiosi e i grossi limoni gialli sul carro di un venditore di bevande rinfrescanti». Particolari apparentemente inconferenti di un’atmosfera che, un secolo dopo, possiamo ancora tentare di inseguire: «bisogna percorrere queste vie nelle sere d’estate, che portano con sé la placida letizia del riposo, la rigenerante brezza di mare, le canzoni e le lucerne sui tavolini per strada, davanti alle osterie». Non una Roma per turisti: «gli abitanti di Parione vanno fieri e hanno grande considerazione della loro Piazza Navona. La sera il parlottio della gente stenta ad acquietarsi e fino a mezzanotte sulle panche coperte di spruzzi davanti alla fontana del Bernini si avvicendano silenziose coppie di innamorati, miti mendicanti, bambini raminghi come uccelli e forestieri di passaggio, presi d’amore per l’ovale, le case, il mormorio dell’acqua, i pipistrelli svolazzanti nell’aria, le fiammelle che si spengono, a una a una, alle finestre, il blu profondo della notte estiva».
In un’estate di sessant’anni più tardi sarà Cesare Brandi a sostare in quella stessa piazza Navona, con una disposizione d’animo ancora perfettamente assonante, e riuscendo così a definire con straordinaria precisione la funzione di una piazza storica italiana: «Ecco la mia giornata, arrivata a sera col vestito grinzoso, le scarpe impolverate, la camicia sudata: giungo qua e mi siedo, guardo la piazza e quasi non la vedo è come se fossi in un’infusione di riposo. Questo riposo mi penetra e il silenzio mi fascia di bende invisibili. Torno a vedere, e vedo Sant’Agnese del Borromini […] vedo quello che sopravvive dell’uomo che vive nell’uomo, senza corrompersi e senza tradimento. Sento il mio cuore come se battesse non in me, ma al centro della piazza. E i suoi battiti mi giungessero come vibrazioni terrestri e il mio respiro fosse quasi l’aria che mi sforza respirarla entrando dentro di me come l’acqua che si rovescia in una cascata. Ritrovo l’unisono con una natura che è passata attraverso l’uomo e attraverso la storia, odo il respiro di questa natura perché non odo nulla, e non vedo che l’aria limpida e serena».
Come è difficile spiegare oggi a sindaci e assessori che le piazze non sono contenitori da riempire di eventi, di parcheggi, di gazebo: ma isole di vuoto capaci di restituirci tutti (dal più colto viaggiatore all’ultimo dei mendicanti) alla nostra umanità e al rapporto tra uomo e natura.
Il legame profondo e viscerale tra la città e la natura: ecco ciò che Muratov più di ogni altra cosa cerca: «L’Aventino e il Celio sono propaggini della campagna in città , luoghi dove l’odore dei campi si mischia con l’umidore delle antiche mura di pietra, i suoni del lavoro nei giardini e nei vigneti con il frastuono del traffico stradale e del commercio che arriva fin qui […] l’eterna vegetazione che incorona i colli e le rovine di Roma turba e incanta il cuore della gente del Nord, proprio come le parole di un mito classico, o l’epifania di divinità primeve. La metamorfosi di Dafne diviene affatto comprensibile al cospetto dei fusti di lauro, vivi e quasi umani che crescono accanto alla Casina Farnese sul Palatino o dentro il tempio del Divo Giulio al Foro».
Una simile educazione sentimentale ha oggi un incalcolabile valore politico: perché solo recuperando il senso della nostra storia, cioè di noi stessi, potremmo trovare la forza di resistere agli ultimi scempi che una classe dirigente corrotta fin nel midollo si appresta a perpetrare. Attraversando lo Stretto di Messina, vinto dalla bellezza di un luogo unico al mondo per storia e natura, Muratov si angoscia all’idea di vedere le rovine di una Messina appena distrutta dal terremoto: «un lutto che appartiene all’intera umanità , poiché l’Italia è quella gioia per la quale ancora vale la pena vivere». E noi, italiani indegni di oggi, vorremmo ora distruggere proprio quel luogo con un ponte utile solo alla mafia, ai palazzinari e ai politici finiti che ci si aggrappano. Svegliamoci, finché siamo in tempo.