di Massimo Jasonni
La riforma dell’istituto della legittima difesa, approvata alla Camera dei deputati e rimessa al vaglio del Senato, ci esporrà alla derisione della comunità internazionale per la sua vergognosa inconsistenza penalistica. La nuova fattispecie appare, già a prima vista, inapplicabile e suscettibile di vari rilievi di ordine costituzionale: oltre a tutto questo, essa stravolge, come se niente fosse, un percorso plurisecolare di civiltà.
L’idea della possibile giustificazione dell’autodifesa è antica: risale ai primordi della latinitas, per poi trovare conforto nella lezione dei grandi giureconsulti romani che le attribuirono fondamento giuridico sistematico nella naturalis ratio, in certi casi, e, in altri casi, nel principio dell’universale riconoscimento1. Cicerone interviene da par suo sul punto, aprendo a orizzonti stoici:
Est haec non scripta, sed nata lex, quam non didicimus, accepimus, legimus, verum ex natura ipsa arripuimus, hausimus, expressimus, ad quam non docti, sed facti non instituti, sed imbuti sumus; ut si vita nostra in aliquas insidias, si in vim et tela aut latronum aut inimicorum incidisset, omnis honesta ratio esset expediendae salutis2.
Per tradurre appena un po’ liberamente: «Questa della legittima difesa è una legge non scritta, ma innata nell’uomo, da noi non appresa sui banchi di scuola, né ereditata dai nostri padri, bensì attinta e ricavata dalla natura stessa. Una legge alla quale non siamo giunti per via dell’insegnamento, ma alla quale siamo intimamente predisposti per istinto. Se la nostra vita è in pericolo per qualche insidia o si imbatte in violenza di ladroni o nemici, ogni ragionevole tentativo per noi di salvezza è praticabile».
Necessità della risposta, proporzione tra offesa e difesa, non eccessività della reazione costituirono, dunque, limiti perché un’autodifesa potesse ritenersi ragionevole, per ciò stessa giustificata.
Sul retroscena classico intervenne il diritto della Chiesa: che fu, come è sempre e per definizione stato, bifronte: perché da un lato tendeva a riconoscere, contro l’aggressore, la facoltà di difesa – c.d. inculpata tutela –; ma, d’altro lato, sottolineava alcune condizioni per l’esercizio di una legittima difesa: il trattarsi di aggressione ingiusta e il determinarsi, nella reazione, dei dati della immediatezza, della proporzione e della necessità.
Tuttavia l’istituto non ebbe vita facile, perché su queste condizioni imposte, in utroque jure, dalla civiltà europea incisero modelli di vita barbarici, tendenti ad allargare le maglie di un libero esercizio della violenza privata, in realtà coincidente con la vendetta.
Da questo cammino storico e dagli ulteriori contributi offerti, nella modernità, da grandi pensatori del Seicento, quali Grozio e Pufendorf, discesero legislazioni penali attente all’equilibrio tra le forze in gioco e tese a garantire la certezza dei rapporti giuridici. Esse esigono, pena la ricaduta nella barbarie, le seguenti, tassative e irrinunciabili condizioni autorizzanti: l’ingiustizia dell’altrui violenza; un pericolo attuale o imminente; l’inevitabilità della reazione; la proporzionalità tra l’aggressione e la difesa. In ogni caso, la non eccessività della reazione rispetto all’azione.
Nel testo approvato alla Camera, l’art. 52 del codice penale vigente è essenzialmente stravolto: perché si introducono distinzioni fattuali e specificazioni temporali, di per sé idonee a provocare incertezze e vagabondaggi giurisprudenziali, incompatibili con i princìpi costituzionali della tassatività, della personalità e della determinatezza della disposizione penale. Il momento dell’aggressione patita assume rilievo penalistico se avvenuto di notte e se attuato nella propria casa, nel proprio negozio o ufficio. La notte diviene così cornice decisiva per la sussistenza, o per la insussistenza del reato: con l’odioso effetto, da un lato, di “sollecitare” la violenta, armata reazione notturna e, d’altro lato, di circoscrivere illogicamente l’àmbito di reazioni non punibili, o punibili a titolo di mero eccesso colposo, se avvenute in ora diurna.
Qui siamo davvero alla schizofrenia legislativa: dettata non è chiaro se da concessione alle mode correnti, o da collusione con quella destra radicale che alimenta da sempre i più bassi istinti della vendetta.
Altri due profili intollerabili del disegno di legge stanno nel «grave turbamento psichico» arrecato alla vittima dell’aggressione – porta aperta sull’uso dell’arma da fuoco – e nella copertura delle spese. Quanto al primo punto, esso di per sé confligge con un impianto penalistico di matrice classica: perché introduce nel procedimento un giudizio di segno psicoanalitico o psicologico non in linea con l’obiettivo della «certezza del diritto». Con inevitabile ingigantimento dei processi e altrettanto inevitabile pregiudizio arrecato a quella corretta discrezionalità del giudice, che innerva l’istituto della legittima difesa in tutta la parte più nobile dell’avventura occidentale. Quanto alle spese legali, rimesse a carico dello Stato in ipotesi di assoluzione per concessione della scriminante, siamo alla beffa. Non è dato comprendere perché le spese processuali e di assistenza legale debbano qui gravare sulle spalle del contribuente italiano. Né è dato comprendere perché di tale dono non possano beneficiare altre parti offese di delitti analogamente gravi, considerando anche che l’ordinamento già prevede, in via generale e astratta, che il cittadino non abbiente fruisca di gratuito patrocinio.
Il novellato art. 52 cancella la memoria di un intero percorso di civiltà, segnala un arretramento etico e culturale indegno di un paese che, nel rispetto della Costituzione, voglia dirsi civile e moderno.
1 V. Manzini, Trattato di Diritto penale italiano, vol. II, Torino, Utet, 1981, p. 374 ss.
2 Cicerone, Pro Milone, 10 ss.