di Mario Pezzella
L’autore di questo libro1 rilegge l’origine della modernità alla luce di un concetto centrale in Hölderlin e Hegel: “l’infinitizzazione del finito”, che sta a indicare il desiderio titanico di essere dio e prenderne il posto da parte di un individuo o di un collettivo. Tuttavia, l’assunzione sulle proprie spalle dell’intero peso di un’epoca, come tenta di fare Empedocle nella tragedia incompiuta di Hölderlin, non può che condurre il soggetto alla lacerazione e alla follia: il filosofo di Agrigento è travolto da una pulsione verso l’illimitato e dal desiderio di morte. Nel romanzo Iperione, Lo stesso protagonista e il suo amico rivoluzionario Alabanda cedono alla tentazione di credersi incarnazione dell’idea assoluta della storia: Hölderlin descrive i lineamenti di una distopia o utopia negativa, che getta una luce fosca verso il Novecento e le sue rivoluzioni fallite. Solo un essere-in-comune – e non la personificazione di un’idea in un corpo sovrano – può dare risposta al conflitto costituente della modernità.
In Hegel – come viene interpretato da Cappitti – il soggetto è inevitabilmente incompiuto e non può arrestarsi in modo definitivo in nessuna singolarità. Tale arresto è – in senso letterale, come vien detto nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche – una follia, anzi la follia. Questo soggetto sempre incompiuto e in procinto di farsi, si immerge nella lotta per il riconoscimento, descritta nella Fenomenologia dello spirito. La dialettica tra il servo e il signore resta essa pure in una tragica inconcludenza, perché è segnata da uno scacco inevitabile: nella sua stessa vittoria il vincitore immiserisce il vinto in modo tale, da togliere ogni valore al riconoscimento che questi è costretto a tributargli. La violenza e la disimmetria del potere toglie dignità al riconoscimento, che – per esser tale – dovrebbe provenire da un essere umano di pari valore. Il conflitto descritto da Hegel è segnato da un comportamento mimetico, che anticipa le riflessioni novecentesche su questo tema, da Lacan a Girard a Sartre, direttamente influenzate dalla lettura del testo hegeliano fatta da Kojève nei suoi celebri seminari degli anni trenta.
Cappitti ricorda le belle pagine con cui lo Hegel giovanile pone il riconoscimento operato dall’amore in alternativa a quello ricercato con la violenza. Tuttavia qualcosa lo spinge ad abbandonare questa visione nella Fenomenologia e a sacrificare il suo iniziale romanticismo: forse la consapevolezza dell’emergere della lotta e di una dimensione di signoria-servitù all’interno stesso della relazione amorosa. La domanda si può esprimere in termini rovesciati rispetto alla concezione giovanile: può davvero esistere l’amore in una società generalmente dominata dal rapporto asimmetrico di signoria e servitù? Il disincanto della riflessione hegeliana dipende probabilmente da quel processo di «interiorizzazione della relazione di signoria e servitù» (p. 63) che avviene nella morale kantiana e più in generale nell’etica moneteistica ebraico-cristiana. Se la relazione di padronanza è passata all’interno degli individui e dunque anche nelle loro relazioni più intime e private, come possono essi liberarsene e uscirne? Questa condizione di scissione etica è caratteristica, secondo Hegel, della figura di Macbeth (p. 64).
L’immagine utopica dell’amore non potrà allora essere realizzata da due singolarità isolate, ma dovrà coesistere con lo spazio di un essere in comune, di un noi, che permetta davvero la fuoruscita dalla violenza. Perciò nella Fenomenologia l’essere in comune del lavoro, che acquista lenta predominanza sulla vacua supremazia del signore, diventa la prefigurazione necessaria di rapporti umani diversi. È una prospettiva che va in direzione marxiana: l’emancipazione sessuale ed erotica non può avvenire se non in un contesto che rivoluzioni le attuali relazioni di potere e le deformazioni che esse imprimono alle soggettività singole e dunque anche agli amanti.
L’antitesi tra violenza e amore percorre il romanzo Iperione di Hölderlin, senza trovare una vera soluzione. Hegel nella Fenomenologia propone una forma di legame fondata sulla fraternità e sull’amicizia, che nascono dal lavoro concreto sulla materialità della vita. L’amicizia e il lavoro si inseriscono come terzo termine di mediazione tra l’utopia dell’amore e la distopia della violenza (pp. 53 e 88), rendendo così possibili rapporti fondati sul gioco e la libertà, che già Schiller indicava come forme di vita ideali (p. 67). Lo spazio comune della fraternità consente vita alla singolarità dell’amore.
Nella visione di Hölderlin l’idea hegeliana che il soggetto sia perennemente in divenire incompiuto e mai assoluto nella sua finitezza, conosce una versione ancor più radicale. Hölderlin ipotizza una effrazione originaria, una Spaltung, una scissione o partizione costitutiva della soggettività (p. 29). Una triplice coppia di opposti è attraversata così da una mai placabile tensione dialettica.
L’aorgico si scontra con l’organico: l’aorgico è la forza illimitante e magmatica della vita, e l’organico quella plasmante, formante, limitante. Ma nella nostra cultura i due termini invertono il loro luogo rispetto a quella greca: l’illimitato si è trasferito nell’interiorità dello spirito, animato da una smisurata volontà di potenza, mentre la natura appare formata e quasi domata. Il dominio unilaterale di una delle due potenze porta a uno squilibrio rovinoso: l’aorgico a un desiderio panico di morte e di ritorno al grembo originario dell’essere (un’anticipazione della pulsione di morte di Freud), l’organico a una vita asfittica e chiusa nei limiti del dominio borghese. Solo la tensione attiva tra i due poli e l’equilibrio tra di essi in un ordine simbolico permette l’effettiva espansione di una civiltà.
La natura è temibile e ambivalente nel pensiero di Hölderlin, perché se da una parte è madre benevola e protettiva (oggetto del rimpianto e del desiderio di Iperione) dall’altra è la potenza che anima il desiderio di dissoluzione e di morte: «Essa è lo sfondo caotico, magmatico, dal quale faticosamente la figura si emancipa per acquisire la propria identità» (p. 46).
Infine la terza polarità è quella tra divenire e trapassare e ha una caratterizzazione più politica, è il processo stesso della rivoluzione: il trapassare, il venir meno del vecchio mondo, coincide con l’inizio e il sorgere ancora indeterminato del nuovo, in un punto di sospensione e di cesura del tempo. Perché il divenire sia possibile, occorre allo stesso tempo accettare la potenza del negativo, la dissoluzione dei vecchi ordini (p. 45). Sia in Hegel che in Hölderlin il tempo storico si configura dunque come segnato da discontinuità e scarti, mentre quello puramente cronologico scorre nella sua indifferente piattezza quantitativa: «Tempo che si contrae e si arresta, aprendosi alla discontinuità, al novum che irrompe, interpretandone e riorientandone il corso, da un lato, e dall’altro tempo che scorre senza pause e salti» (p. 49). L’assoluto non si palesa in una trascendenza astratta al di fuori del tempo storico, ma è immanente al suo prender figura ogni volta diversa nel divenire e nel salto imposto dalle rivoluzioni.
1 Massimo Cappitti, Filosofia dell’unificazione e teoria della soggettività in Hegel e Hölderlin, Genova, Zona editrice, 2016.