Non volevo farmi dettare l’ordine del discorso da un cosino invisibile e dai suoi monatti. Ho resistito, anche quando ho visto un uomo al mercato, con la mascherina e sopra una maschera subacquea, di quelle su tutta la faccia e col tubo (per la spesa, indicava col dito e gorgogliava). Però mi ha convinto a scrivere, lo ammetto, un cartellino spaventato sulla serranda del barbiere. Ho pensato al 1939, alle botteghe di Londra sotto la Luftwaffe, con l’avviso: «Open as usual». Adesso ascolto Giorgio Gaber, La peste, 1974.
Prima settimane di tamtam nauseante, poi si mette da parte ogni misura e, come se non bastasse il dolore vero per le perdite di vite umane, l’angoscia di massa diventa obbligatoria. Praticamente non si parla d’altro. Gaber: «La gente ha paura, comincia a diffidare, si chiude nelle case…».
Si inseguono provvedimenti bellici. Sono testi scritti e no, diffusi, rettificati, annunciati, inaspriti. Di critica vera ce n’è poca, tale è il terrore di contraddire la narrazione preventiva e punitiva. Da rileggere, Michel Foucault, Nascita della biopolitica: corso al Collège de France, del 2004. Il biopotere impazza senza il contrappeso di un filosofo, a un Socrate farebbero la multa o mescerebbero cicuta in un vasetto sterile.
Se valesse la pena osservare la fiumana del consenso securitario, si potrebbe fare un’antologia. Il senso di fondo è: c’è un pericolo, pericoloso, pericolosissimo; dobbiamo stare uniti, così uniti che chi non dice di sì non si deve neanche sentire; il potere ha sempre ragione; in certi momenti la libertà è un ingombro, anzi un attentato; le parole hanno il senso che l’autorità vuole, di volta in volta; bisogna ubbidire. George Orwell, 1984, del 1949.
All’inizio il virus ha fatto un danno più grave proprio perché ha dilagato in un paese, la Cina, che di libertà ne ha poca e i primi medici svegli li ha messi a tacere. Un problema, trasformato in un disastro. Ma questa verità viene sterilizzata in una strategia del diversivo. Sì, in Cina non c’è libertà, ma guarda dopo, ammira, che bravi nell’emergenza: per forza, non hanno la nostra vecchia palla al piede, la libertà. Lo smarrimento del senno, nei contagi come nelle guerre, coglie impreparati e sgomenta perché viene dalle fonti più inattese, quelle che prima ragionavano. Da risentire, in Essi vivono, di John Carpenter, 1988, le interferenze che oscurano la pubblicità in televisione: «Con la vanità, l’ansia e l’indolenza ci anestetizzano la mente. Crediamo di essere ricchi e invece siamo precipitati nell’abisso dell’aridità e della miseria, privandoci di ogni aspirazione, espressione e valore umano. Se continueremo a vegetare nella vigliaccheria, nella cecità e nel mutismo sarà la fine».
Decisioni che vogliono forza normativa prendono forme discutibili. Il potere mantiene il controllo che gli è stato consegnato dalla paura. Si creano equivoci, divieti astrusi, margini di arbitrio che passano per efficienza, pragmatismo, comprensione paternalistica, buon senso, e che nascondono durezze imprevedibili.
Scelte tardive figliano atti che sono subito regola. Antico arnese, la vacatio legis: nel diritto le novità valgono per l’avvenire, ci vuole un minimo di tempo per adeguarsi. Ma non è il momento delle garanzie. Il tecnicismo dei legulei unito all’informatica produce ibridi: atti diurni, sistemati dopo l’ora di cena, possono andare in pubblicazione anche poco prima di mezzanotte, stravolgere la vita di milioni di persone e dire «da domani», anche se il vero effetto è «adesso». Ricorda certi cartelli dietro gli autocarri: «Se riesci a leggere questo, sei troppo vicino».
L’enfasi sul nemico invisibile, accompagnata da provvedimenti che si annunciano drastici, è simmetrica al chiacchiericcio da portineria che chiede castigo nel momento stesso in cui trasgredisce. Le code di balordi negli impianti sportivi in montagna, le passeggiate sui lungomare, il bailamme incosciente nelle piazze del divertimento, e poi lo sprofondare in un vuoto urbano spettrale e penitenziale, hanno la stessa radice repressiva, spavalda e parolaia che chiede ordine e chiasso, carnevale e autorità. Antonio Gramsci sul futurismo: scolaretti scappati da un collegio di gesuiti, ricondotti sotto la ferula dalla guardia campestre.
Costruito il pericolo, lo stato d’animo che l’accompagna non resta legato a quel rischio, può essere riprodotto a comando. È un dispositivo. Non c’è bisogno di trame o interessi sordidi. La folla ha i suoi patemi d’animo, le cordate politiche si inseguono, brancolano a tentoni, sgomitano in cerca di cosa dire e non dire, fare e non fare, per chiedere fermezza e invocare eccezioni, denunciare abusi, giurare impegno, promettere serietà. Un unico ceto, discorde solo per ambizioni personali, di giorno fa la tela e di notte la disfa.
La chiusura di zone segna l’uso del potere sullo spazio, e infatti comincia le sperimentazioni segmentando un’area e poi estendendola, col linguaggio dell’ordine pubblico, collaudato contro il dissenso durante i vertici della politica mondiale: la zona rossa, col suo carico di guardie e barriere. Gli interdetti si fanno per proteggere qualcuno, o molti, o tutti. Cassandra Crossing, di George Pan Cosmatos, 1976, dal libro di Robert Katz: c’è un virus su un treno, sigillano le vetture; siamo negli anni Settanta, un sopravvissuto al Lager è a bordo e capisce: «È calato il sipario della notte, chissà se per noi spunterà più l’alba». A proposito. Katz aveva capito almeno dal 1968 la verità sui rapporti fra Vaticano e Fosse Ardeatine; l’Italia lo ripagò con un processo penale. Capire è pericoloso.
La libertà di movimento è subordinata ad autodichiarazioni da rendere alla polizia. Il Daspo riguarda tutti, ognuno è sospetto e nessuno è innocente, perché tutti tifiamo per qualcosa, almeno per la salute, l’incolumità, lo scampato pericolo per sé e i cari. Tifo cieco e inutile come l’altro, perché i giochi sono altrove e si può solo fremere e sperare, covando un inconfessabile desiderio di putredine. Il tifo torna al senso originale della parola: proprio il tifo, la malattia contagiosa che ottenebra. Stendhal nel 1822, sul falso patriottismo: «La più gran piaga morale dell’Italia, tifo deleterio [typhus délétère] che avrà effetti funesti anche molto tempo dopo che essa avrà scosso il giogo dei suoi piccoli principi ridicoli». Siamo una curva a Nord, a Sud, ai quattro punti cardinali, un cerchio ansioso, colpevole e nevratile. Gli stadi sono chiusi perché sono dappertutto. Da rivedere, I cannibali, di Liliana Cavani, 1970.
Questo morbo finirà. I lutti che sparge, morti vere e ingiuste, dopo riceveranno meno fratellanza di quella che ora si promette dicendo unità, società, popolo. Gaber: «Ci si abitua così presto, in fondo ne muoiono tanti, anche al weekend di Ferragosto».
Il danno profondo, quello pieno di ovvietà sottomesse, di senso comune emergenziale e securitario, rimarrà, e sarà il sostegno di una brutta voglia di padrone, complice del panico e della società dello spettacolo. Gaber ha finito La peste: «Un batterio negativo, un bacillo a manganello».