Giuseppe Contedi Valeria Turra

Gli eventi politici delle ultime settimane vorrebbero chiudere per Giuseppe Conte, non ci fossero evidenti sfasature, un cerchio, da molti mesi iniziato a disegnare, per accentrare su di sé il potere a scapito dei partiti eletti dal popolo sovrano; un cerchio di cui l’elettore ha avuto prima contezza in occasione della conferenza stampa tenuta dall’allora primo ministro del governo gialloverde la sera del 3 giugno 2019, ovvero all’indomani dell’exploit leghista alle Europee. Partito con toni accomodanti verso entrambi i suoi vice, il premier palesa nel finale lo scopo vero della convocazione dei giornalisti: entrambi, Di Maio e Salvini, dovranno lasciargli carta bianca nelle trattative europee, altrimenti Conte rimetterà l’incarico nelle mani del presidente della Repubblica. Già in quei giorni non fu difficile prevedere che, dietro il dichiarato tentativo di scongiurare una (discutibilissima) procedura di infrazione per debito eccessivo, ci fosse il rischio di dovere accettare contropartite rischiose per l’economia italiana, e intuire che dietro l’ultimatum di Conte premesse l’urgenza di un’assunzione di “pieni poteri” per trattare in sede europea questioni delicatissime per il popolo italiano senza l’interferenza dei partiti votati (nella fattispecie, come solo gradualmente si farà palese, il (presunto) “pacchetto Mes”), mettendo in assoluto non cale il fatto che gli elettori considerassero il presidente del Consiglio (autoproclamatosi solo un anno prima «avvocato del popolo») come semplice garante di un programma critico verso l’Ue e non un leader che autonomamente potesse gestire i rapporti europei con tanto di “postura di resa” all’asse franco-tedesco. Tuttavia i due obiettivi principali del discorso, ovvero Salvini e Di Maio, quasi Conte non avesse parlato, continuarono a credere di potere influire con le proprie forze politiche sull’attuazione della riforma del Mes, senza accorgersi (o così lasciando credere poi agli italiani) che intanto, in Europa, Conte prendeva accordi non congrui con le indicazioni dei partiti eletti, quindi degli elettori.

Su Salvini premevano, probabilmente, quelle contraddizioni strutturali (le questioni dell’uscita dall’euro e dell’autonomia differenziata, su nessuna delle quali la Lega può prendere posizione definitiva senza perdere elettori) che lo porteranno, di lì a poche settimane, alla fuga dal governo gialloverde (con le relative conseguenze personali: il prevedibile susseguirsi dei processi e la sconfitta in Emilia-Romagna). Su Di Maio, lo smarrimento per il terribile ridimensionamento dei voti, dovuto alla mancanza di una linea politica riconoscibile; uno smarrimento che l’ha condotto a un appiattimento sulle posizioni contiane che con il tempo ha prodotto quella rottura con Salvini che l’ha spiazzato ulteriormente sul fronte cosiddetto sinistro, fino alle dimissioni da capo politico del Movimento.

Fermando l’attenzione all’attualità stretta, occorre considerare come il M5S abbia esaurito la sua stessa ragione d’essere, dato che la visione radicalmente alternativa (anche se confusa) al capitalismo della globalizzazione strutturato nell’Ue che l’ha condotto in Parlamento nel 2013 semplicemente non c’è più. Le dimissioni di Di Maio non possono che sancire come definitiva questa involuzione, che rende il M5S una (sempre meno rilevante) costola della pseudosinistra con cui ora governa e che si bea della vittoria in Emilia- Romagna leggendo solo i dati di comodo e rinviando a data da destinarsi quel congresso di cui da tempo si vocifera e che peraltro nulla potrebbe mutare nella sostanza: la sinistra è tale ormai solo per la collocazione fisica parlamentare, avendo aderito senza alcuna sfasatura alla fase del capitalismo che stiamo ora vivendo, la globalizzazione, e producendo anzi una (sub)cultura che copre la necessità della lotta di classe con la demonizzazione del conflitto (bollato come «cultura dell’odio»), che bolla come “fascismo” qualunque pensiero cerchi di porsi in antagonismo a questa fase del capitalismo per le ricadute che comporta, che irride ai bisogni reali delle classi più disagiate come fossero al di sotto del livello minimo di umanità, che infioretta di bontà (la necessità dell’accoglienza!) la volontà padronale di sfruttamento degli italiani e degli immigrati, e che, sottilmente, delegittima il voto popolare come «frutto di ignoranza».

Di andare al voto infatti, nonostante le elezioni regionali del 26 gennaio abbiano certificato una discrasia sempre più profonda fra Parlamento e volontà popolare, data la disfatta del partito maggiormente rappresentato, non se ne parla proprio: si evoca a sproposito il parlamentarismo, come se costituzionalisti come Mortati (per citare un nome fra i più conosciuti) non avessero con chiarezza espresso la necessità del voto ogni qual volta anche solo il sospetto di tale distanza fra elettori ed eletti si fosse dato; si evoca a sproposito l’antifascismo, come se di necessità il governo dovesse resistere come estremo baluardo della democrazia. E non ci si vuole rendere conto che evocare di continuo a sproposito il rischio di fascismo conduce a una banalizzazione del concetto originario che con il tempo ne confonde i tratti e li rende meno allarmanti, soprattutto alle giovani generazioni: i dati recentemente diffusi da Eurispes certificano, per esempio, una crescita del “riduzionismo” della portata della shoah in elettori di sinistra e di centro, non stupefacente frutto di decenni di demonizzazione di Israele e di anni di una “mostrificazione”, rilanciata e ribadita all’infinito su tutti i media, di ciò che appare antisistema (cioè: in qualsiasi forma critico verso la globalizzazione); una “mostrificazione” che porta, per citare solo un esempio recente, ad appaiare persino nella scuola (con il beneplacito di alti esponenti della Repubblica) leggi razziali e decreti sicurezza. Un disastro educativo (in senso ampio, dato che non considero l’educazione circoscrivibile all’età scolare) che comincia a portare i suoi primi frutti, non a caso graditi perché utili alla perpetuazione del sistema: mi riferisco al movimento delle Sardine.

Queste sono nate per contrastare Salvini alle elezioni regionali in Emilia-Romagna (non mi soffermerò qui sulle ipotesi circolanti su finanziatori e organizzatori occulti, che sono tuttora ipotetici, anche se l’episodio delle foto scattate con Luciano Benetton fa immaginare un contesto piuttosto preciso), riempiendo piazze che il Pd ormai può solo sognare. Piazze riempite all’insegna di un antifascismo di superficie (che dovrebbe essere garantito dall’immancabile [ab]uso di Bella ciao) perché privo di contenuti che non siano i mantra del fuxia (abolire i decreti sicurezza; impedire l’autonomia differenziata). Dichiarandosi apartitici, i capi delle Sardine spopolano nelle televisioni senza vincoli di par condicio, e si offendono quando i giornalisti li interrogano sul loro programma, o comunque sulla loro visione (sul Mes per esempio): solitamente rispondono che non è loro compito avere opinioni tecniche (aggiungo io: non è loro compito avere opinioni sulla struttura economica).

E qui occorre una postilla, dato che anche la gestione dei confini e in genere dell’immigrazione è, per esempio, una questione tecnica complessa sia per quanto riguarda la possibilità che continui a sussistere il concetto stesso di nazione (e su questo l’articolo 52 della Costituzione mi sembra assai eloquente, richiamando i cittadini alla “sacralità” della difesa del territorio nazionale di cui è costituita la Patria, che è fisica prima che ideale), sia per quel che concerne i diritti economici e sociali nel proprio continente, e nella propria nazione di partenza, delle persone che non dovrebbero essere costrette a migrare abitando terre ricchissime di risorse cui non riescono ad accedere per l’assenza di democrazia e che sono invece fagocitate dalle società multinazionali. Una questione della quale però le Sardine presumono di essere in grado di parlare esaurendola in termini moralistici necessariamente generici, che giungono alla manipolazione dei fatti sia attraverso l’omissione delle ragioni squisitamente economiche che stanno a monte non solo delle migrazioni ma anche della loro continua legittimazione mediatica, sia attraverso un uso volutamente impreciso delle parole, come quando cinicamente confondono l’obbligo del salvataggio indiscriminato (sacrosanto, aggiungo io) con l’obbligo dell’accoglienza indiscriminata, da parte di uno Stato, di qualunque massa di popolazione vi sia convogliata da organizzazioni private manovrabili e di fatto manovrate.

Se ne ricava che compito delle Sardine è solo contrastare quello che è definibile come populismo antisistema, cioè sovranismo (in quanto interessato al mantenimento del concetto di nazione, munita di confini, che provvede ai suoi cittadini attraverso un sistema democraticamente strutturato) incarnato (per ora) in Salvini; e additare ai giovani l’obiettivo da colpire in tutto quello che sia antisistema, facendo aggio sull’ignoranza di ciò che c’era prima dell’integrazione europea come se il reale fosse ipso facto necessario e immutabile, in modo che essi imparino a lasciare a “chi sa” la gestione della struttura economica.

“Chi sa” è, ovviamente, il sistema capitalistico globalizzato, i partiti che dal sistema sono foraggiati, quelli che riconoscono il diritto illimitato di migrare perché rifiutano i diritti sociali anche minimi, creando volutamente (perché beneficia il capitale) la “guerra fra poveri”, quelli che non vogliono che il popolo voti perché sanno che si esprime (ogni volta che può) contro la struttura economica dalla quale è sfruttato; ma se il popolo venisse finalmente persuaso dell’immedicabilità della propria ignoranza, e rieducato a occuparsi solo di quel poco che gli venga consentito di capire (Salvini è un fascista! Porti aperti e cittadinanza italiana a tutti!), allora chissà, in futuro forse il Pd (o il partito che il Pd diverrà cambiando nome) potrebbe persino vincere le elezioni. La funzione culturale delle Sardine è questa, e direi molto importante: additare al popolo obiettivi che non contrastino il sistema e anzi lo rafforzino, ricondurlo alla consapevolezza e all’accettazione della propria ignoranza con l’illusione della partecipazione (mai tanto vero il detto: chi non ha testa ha gambe), additare un nemico che abbia un profilo ben diverso da quello del padrone, ché intanto il padrone possa vivere tranquillo.

La dimostrata vicinanza a Benetton concomitante alla “nuotata in mare aperto” sardinica per le regionali in Veneto è assolutamente sintomatica della natura del movimento: il gruppo Benetton è un esempio poche altre volte raggiunto di una struttura economica fondata sullo sfruttamento più spregiudicato, in Italia e nel Terzo mondo, coperta da una sovrastruttura “buona e accogliente” (il “multicolorismo” diffuso da Oliviero Toscani, il fotografo-divo ora strumentalmente allontanato – le concessioni autostradali sono ancora in ballo: poi si vedrà – per le sue pubbliche affermazioni di menefreghismo verso i morti del ponte Morandi).

In attesa di conoscere il ruolo di cui le Sardine saranno investite dal presidente del Consiglio in vista delle prossime regionali (un loro incontro è programmato a breve), possiamo dire che, con un M5S decapitato e il massimo partito dell’opposizione che dovrà fare i conti con le incriminazioni pesantissime del suo leader indiscusso, l’assunzione di “pieni poteri”, il cui desiderio trapelava dalla conferenza stampa da cui la nostra breve riflessione è partita, si sia realizzata con facilità per Giuseppe Conte. Sono le gioie dell’autodissociazione, detto liberamente mutuando un termine dalla chimica. La facilità di dissociarsi da se stesso infatti, nel passaggio da un governo all’altro, è qualcosa che lascia sbalorditi, e che va persino oltre il trasformismo di cui tanti parlano. La vicinanza alla Lega, che a sentire il Conte di oggi sembrerebbe impensabile, è attestata con chiarezza anche in quella conferenza stampa pure di svolta: basti rileggere le parole di assunzione della politica securitaria del primo decreto sicurezza. Eppure oggi Conte sembra volersi collocare ancora più nel Pd che nel M5S, forse perché i numeri impietosi delle varie elezioni amministrative susseguitesi in poco meno di due anni gli fanno prevedere un futuro troppo nero perché egli voglia parteciparvi come quando, a nome dei Cinque Stelle, chiedeva consigli alla Merkel per le europee.

Il passaggio al governo giallorosso, che gli è stato così facile che oggi Conte deve ammettere, forse per autogiustificarsi, di sentirsi maggiormente a proprio agio con questo, per la transizione da semplice “garante del programma gialloverde” a parte in causa con un programma che è anche proprio, dimostra uno stadio preoccupante di degrado del nostro sistema democratico.

È vero infatti che nessun articolo della Costituzione stabilisce restrizioni per la scelta del presidente del Consiglio, ma è vero anche che, nel caso di Conte, ci troviamo con un personaggio che, senza essere espressione di alcun partito riconoscibile (realisticamente, per quanto sappiamo, fu Bonafede a presentarlo a Di Maio grazie a contatti precedenti in ambiente universitario), governa “da tecnico”, quando la stragrande maggioranza degli elettori  di “tecnico” non vorrebbe più nemmeno sentir menzionare la parola, dopo l’esperienza catastrofica di Monti.

Conte, quindi, facendo leva sulla debolezza dei partiti che lo sostengono (l’uno, il Movimento, ha i numeri in Parlamento ma non li ha più nel paese, l’altro, il Pd, non ha i numeri in Parlamento e nel paese “fatica” perché è espressione di una minoranza sociale, nonostante i sovrastrutturali inganni sardinici vogliano coprire questa evidenza; le altre due costole del governo sono poco rilevanti se non per le episodiche quanto rumorose pirotecnie renziane), da “tecnico” accentra nelle mani proprie contatti e decisioni, sentendosi vincolato solo a quei poteri cui evidentemente è connesso a livello personale: il Vaticano, cioè uno Stato estero che da sempre ha velleità decisionali in Italia, e i leader europei (massimamente franco-tedeschi), cui deve, attraverso la longa manus mattarelliana, il secondo incarico da primo ministro all’insegna dell’antisalvinismo (il sovranismo italiano appariva nemico acerrimo perché unico ostacolo realistico, anche se strutturalmente debole, alla volontà di potenza franco-tedesca espressa dal trattato di Aquisgrana, ed era quindi da abbattere a ogni costo, non si fosse abbattuto da solo: l’irrilevanza italiana in una Libia in frantumi ma crescentemente soggetta alla Francia è un frutto, assai sintomatico, della natura e della funzione geopolitica di questo governo giallorosso).

Fin qui, le gioie (per Conte, non per l’Italia) della propria propensione all’autodissociazione: c’è anche qualche spina, direi inevitabilmente implicata dalle gioie, perché, se è vero che la situazione interna ed esterna dell’Italia favorisce l’autoconservazione al potere dell’attuale primo ministro, è anche vero che ciascuno è responsabile nel tempo di ciò che fa e di ciò che dichiara, e che l’autodissociazione non è ancora, per nostra fortuna, diventata pratica condivisa e universalmente accettata (anche se, a mio parere, l’ideologia della globalizzazione a questa tende: ma ci tornerò in altra sede). Le elenco il più brevemente possibile.

La prima spina è rappresentata dal caso Gregoretti, che Conte, seguito da Di Maio, ha deciso di imputare al solo Salvini, probabilmente troppo contando sull’impronta antisovranista che i partner europei hanno piacere di vedere trionfare in Italia grazie al governo giallorosso. Una mossa a mio parere estremamente azzardata, dato che (anche a non leggere i documenti che attestano la conoscenza dei fatti da parte del primo ministro) l’articolo 95 della Costituzione chiarisce senza ombra di dubbio che il primo ministro è sempre responsabile degli atti di un governo. Certamente la baldanza di Salvini nell’affrontare i processi, probabilmente a ripetizione e del resto prevedibili (vista la qualità degli ex alleati) nel momento dell’abbandono del governo, processi che comunque molto l’occuperanno nel corso dei prossimi anni (con ricadute non prevedibili sulla possibilità di mantenere la guida del partito, e del centrodestra), è motivata dalla consapevolezza di avere dalla propria parte la maggioranza degli elettori. Conte dovrà invece confrontarsi con la propria posizione dissociata, che comporta un evidente discredito presso gli Italiani (tutti: quelli che approvano Salvini e quelli che sono pronti a parificarlo a Mussolini. Faranno eccezione solo gli estimatori della “figura presidenziale”, presenti per ogni governo di qualsiasi colore e qualità).

La seconda è rappresentata dal Mes: nonostante l’appoggio dato a fine 2019 anche dal Movimento alla linea contiana (sostanzialmente: temporeggiare facendo leva sull’ormai famigerata “logica di pacchetto”, per cui eventuali manchevolezze della riforma Mes sarebbero compensate da altre misure, come l’Unione bancaria), i nodi stanno per venire al pettine e con essi il traccheggio dovrà terminare: entro marzo 2020 il Mes sarà approvato, e l’orchestrazione della logica di pacchetto salterà, dato che i tempi per l’Unione bancaria sono ben più lunghi (2024). Come è facile prevedere, il Parlamento non avrà alcun potere di modificare il trattato, dovrà solo approvarlo (il respingimento, con un governo eurocompiacente come questo, è impensabile); Conte dovrà però assumersi la responsabilità della destinazione cui ci ha condotto, anche se tenterà presumibilmente di minimizzare il più a lungo possibile la gravità delle conseguenze. Naturalmente un caso come quello del Mes dovrebbe aprire un colossale dibattito pubblico sui modi di recuperare sovranità decisionale per il nostro Parlamento, di fatto degradato al ruolo di passacarte: quel che voteranno gli elettori, senza che ci sia peraltro una vera campagna di informazione, sarà invece il quasi dimezzamento del numero dei parlamentari, ultimo fossile rimasto dei mantra pentastellati pressoché tutti accantonati, e non a caso: quello più utile al sistema, dato che la rappresentanza dei cittadini sarà ancora ridotta.

Un’ultima spina, per il nostro Conte, è rappresentata da una parte della cosiddetta sinistra, che, nonostante le grandi aperture di Zingaretti alla sua persona, non ha nessuna intenzione di considerarlo uno dei leader del prossimo partito ancora da nominare. Ne è esempio fulgido Massimo Cacciari che, nella puntata di Otto e mezzo successiva alle elezioni regionali (27 gennaio), liquida le speranze contiane di essere ormai parte integrante del “salotto buono” Pd, ricordandogli brevemente la responsabilità nel caso Gregoretti e ponendo come dirimente per la distinzione fra destra e sinistra proprio l’accoglienza dei migranti.

L’accoglienza bergogliana, possiamo concludere, con susseguente islamizzazione dell’Europa (Cacciari ne ha parlato più volte nel corso del tempo, come di un evento inevitabilmente già inscritto in un futuro prossimo, pur sapendo bene che verrebbe così a cadere ogni distinzione fra “quel che è di Cesare e quel che è di Dio”): il diritto di emigrare, di spostarsi come le merci, e non i diritti degli africani, degli asiatici e degli europei a non essere depredati dalle società multinazionali del capitalismo globale e dagli sterminati eserciti industriali di riserva da queste prodotti e a queste (involontariamente) funzionali; come se a questa realtà di fatto (lo sfruttamento capitalista) la sinistra fosse ormai definitivamente rassegnata, ancorata per omnia saecula fino al declino completo della nostra civiltà, liquefatto il socialismo – che della sinistra dovrebbe costituire la spina dorsale – nell’atteggiamento caritativo proprio di una Chiesa peraltro in liquidazione sincretistica, ma assunta nei suoi contenuti progressivamente diluiti proprio per il suo essersi fatta parte integrante del sistema globalista.

Altro, per ora, non è dato vedere.