La morte e la fanciulladi Mario Pezzella

La morte e la fanciulla è uno dei più famosi quartetti di Schubert. Nel film di Polanski, Roberto Miranda – medico al servizio di un regime dittatoriale sudamericano – la usava come sottofondo e accompagnamento delle sue torture; cosa che fa – a ruolo invertito – Paulina, la sua antica vittima, quando cerca di estorcere al dottore la confessione del suo crimine1.

La musica non è in questo caso semplice sottolineatura dell’azione. In alcune sequenze guida la successione delle immagini e il dialogo delle parole. In essa Polanski ha chiuso come in uno scrigno il significato essenziale del film, che inizia, dopo l’inquadratura di Paulina e del marito seduti nella platea di un teatro, con l’esecuzione del quartetto: e poi col raccordo vertiginoso sull’ondata del mare in burrasca, che si abbatte sul promontorio isolato dove si trova la loro casa (la tipica dimora separata e reclusa in se stessa dove si concentrano e si intensificano i drammi polanskiani). Del resto, anche il riconoscimento di Miranda da parte di Paulina avviene attraverso il suono della voce, che resta fuori campo, mentre la donna è inquadrata in primo piano; e la cassetta del quartetto di Schubert, trovata nella macchina del dottore, le serve di conferma ai suoi sospetti.

Un “quartetto” si svolge anche nel film, e rinvia al gioco di messaggi, di allusioni e di follia che lega il triangolo dei protagonisti. Si dirà che manca uno degli esecutori, ma è così solo in apparenza: il quarto è la morte – la violenza e la tortura –, e circola fino al termine come il dominus simbolico che i personaggi si passano reciprocamente, coppa di vino avvelenato, che ognuno cerca di lasciare nelle mani dell’altro.

Schubert ha scritto un lied, anteriore al quartetto, nel 1817, su un testo di un poeta minore tedesco. E la morte e la fanciulla è un motivo iconografico conosciuto: tra le riprese più note del tema, quelle di H. Baldung, un pittore della prima metà del Cinquecento, in cui uno scheletro afferra o morde vampirescamente una giovane donna nuda; scena che si rivede – con una certa accentuazione dell’aspetto erotico – in un disegno di Munch, dove la ragazza bacia il teschio del partner, mentre è una specie di Nosferatu a mordere il collo della sua vittima nel quadro di Schiele (Tod und Mädchen) del 1915. L’immagine di Munch si trova sulla copertina della cassetta di Miranda, scoperta da Paulina nella sua macchina.

L’aspetto più tremendo del rapporto tra vittima e carnefice – sostiene S. Ferenczi – è l’immedesimazione della prima col secondo. È una forma di difesa arcaica, inadeguata, eppure del tutto inevitabile. Per Ferenczi, lo strato primordiale della nostra psiche si fonda su un meccanismo mimetico elementare, per cui «una sofferenza molto intensa e di lunga durata, ma soprattutto se è imprevista e ha un effetto traumatico, esaurisce la pulsione di affermazione e lascia penetrare in noi le forze, i desideri e persino le caratteristiche dell’aggressore. […] Una parte della loro personalità, magari il nucleo di questa, a un certo momento è rimasto fermo ad un livello in cui anziché in modo alloplastico, si reagisce ancora in modo autoplastico, con una specie di mimetismo»2. Esso si riattiva e domina, quando un trauma troppo violento distrugge la ricettività normale della coscienza e sfalda l’ordine simbolico, che consente il consueto orientamento nel mondo. La vittima è come paralizzata, chiusa in una immobilità passiva, priva di reazione, e tutti i suoi organi percettivi e sensori sono tesi a identificarsi all’aggressore, a essere il più possibile simile a lui, come se tale illusione magica potesse scongiurare il colpo che sta per abbattersi su di lei e allontanare il fantasma della frantumazione del corpo proprio: «Il soggetto è messo brutalmente alla presenza di un reale che non sa simboleggiare. Un reale che si definisce precisamente come ciò che non ha senso»3.

Questa stupefazione è una causa primordiale di servitù volontaria. S’immagini quando tale identificazione inconscia e mimetica all’aggressore si manifesta in presenza dell’omicidio di un figlio o di una persona cara, o quando è accompagnata da una violenza sessuale. Il senso di colpa spesso inspiegabile che tormenta la vittima fino al suicidio deriva da questa immedesimazione arcaica col carnefice, a lei stessa del tutto inconsapevole, non per questo meno devastante: «Il sopravvissuto è quindi in balia di immagini di morte che non possono essere né messe in atto né abbandonate. E siccome una parte di sé prova gioia e senso di eccitazione per il fatto di essere sopravvissuto, questo senso di gioia si cumula al senso di colpa per essere vivi»4. Quest’ultimo resterebbe tuttavia inspiegabile se non si mettesse a fuoco la colpa – anche se del tutto fantasmatica – di cui il soggetto si sente responsabile e che rispetto all’aggressore potrebbe essere formulata come segue: mi sono salvato, perché gli ho fatto capire che ero dalla sua parte, anzi che ero eguale a lui, anzi che ero lui stesso. Il suicidio in questo caso diviene una forma differita di omicidio e vendetta.

Il rapporto vittima-carnefice lega la protagonista del film di Polanski – Paulina – al suo torturatore, anche se per la verità abbiamo di fronte non un semplice duale – e il conseguente duello mortale che ne scaturisce – ma un triangolo, di cui viene a far parte, in funzione eccentrica Escobar, il marito di Paulina. La coppia attuale (Escobar-Paulina) è un pallido riflesso di quella originaria del trauma (Miranda-Paulina) e non è mai riuscita a liberarsi davvero dalla latente e cupa aggressività reciproca che ne deriva: «Il sopravvissuto si protegge anche dalla possibilità di ricevere aiuto e amore»5, si sente irrimediabilmente segnato dallo «stigma psichico dell’annichilimento» (Lifton). Il debole e democratico avvocato Escobar – che del resto deve la sua vita al silenzio di Paulina – è destinato a giocare il ruolo sottomesso del servo di fronte a lei.

Il rapporto tra lui e Paulina, come apprendiamo nel corso del film, si fonda su una sostanziale rimozione del trauma: ed esso si ripresenta come interferenza continua e sintomatica nella relazione attuale dei due. È il quarto oscuro che riaffiora nel reale, non avendo ricevuto alcuna elaborazione simbolica. Ciò che non viene rappresentato simbolicamente, si ripete come fantasma: come cosa fantomatica nel reale, dotata dello stesso potere paralizzante, dissolvente, frantumante del trauma originario. Un’immagine-scena lo mostra in modo chiaro: Paulina avvicina il volto al collo del dottore per risentire l’odore del suo corpo e per morderlo, in una sorta di rovesciamento del quadro di Baldung: sullo sfondo dell’inquadratura, sfocato sulla sinistra, si intravede Escobar terrorizzato, ridotto a comparsa della riattualizzazione del trauma, come in verità era sempre avvenuto nel suo rapporto con Paulina, senza che egli ne fosse cosciente.

Un’altra inquadratura disegna una linea retta nello spazio, che parte dal primo piano sfocato di Escobar, tocca la testa del dottore e si conclude su Paulina seduta sul divano, come a legare in un nodo insolvibile e mortale i tre personaggi. La stessa scena è poco dopo invertita, partendo dalla donna e concludendosi su Escobar in piedi, ribadendo in modo implacabile la ripetizione e la loro connessione reciproca. Il quarto nascosto – la morte e la fissazione al trauma – è presente in tutta la sequenza ed è rappresentato dalla musica del quartetto, che la accompagna costantemente in sottofondo. Il marito si trasforma compiutamente in servo mentre si inginocchia per legare le gambe del dottore, su ordine di Paulina. Per di più egli si trova improvvisamente ad assumere il ruolo di chi è interrogato e inquisito (sulla sua relazione con un’altra donna), divenendo così apertamente ciò che è sempre stato: un doppio speculare, “normale” e borghese di Miranda.

Polanski realizza in questo film un cinema-teatro, cosa ben diversa da un banale teatro filmato. Di tale stile ci sono prove consistenti fin dall’inizio della sua attività di regista (Il coltello nell’acqua, Repulsion, Cul de sac) e ancora più di recente (Carnage, Venere in pellicccia). Spazi-cripta, delimitati, interni oppressivi, stretta inesorabile vicinanza dei personaggi che non possono sfuggirne, in reciproca spesso mortale ossessione; costruzione di claustrofobiche volte, che figurano l’essere senza scampo del trauma, la sua insistenza ineludibile nel reale; e violenza mimetica in rapporti di signoria e servitù, di vittima e carnefice.

All’interno di questi ambienti, tuttavia, la macchina da presa compie movimenti vorticosi, carica lo spazio di espressione simbolica, i rapporti di dominio tra i personaggi si scandiscono in una sorta di gerarchia dell’alto e del basso, della destra e della sinistra. Se nel caso di Tarkovski e Sokurov6 è lecito introdurre il concetto di immagine-quadro, ma ciò ovviamente non significa che essi possano conferire all’immagine l’immobilità contemplativa della pittura, così per una parte almeno del cinema di Polanski si può parlare di immagine-scena, la quale non si svolge però su un palcoscenico fisso, ma in una monade piena – fino a scoppiare – di movimenti di macchina. Immagini-azioni in senso classicamente narrativo ce ne sono certo nell’opera di Polanski, ma il suo cinema è dominato dalla circoscrizione degli spazi e dalla disposizione significante dei personaggi al loro interno, quasi offerti a una osservazione in vitro. Nello spazio il carnefice sovrasta e incombe sulla vittima, come la stessa Paulina nella sequenza in cui schiaccia dall’alto dell’inquadratura il capo di Miranda, compresso nell’angolo di destra, per metà fuori campo, e in procinto di precipitarne fuori del tutto.

Quando Paulina rientra in casa, dopo aver gettato in mare l’auto del dottore, una panoramica porta dal corpo dell’uomo disteso sul divano al primo piano della donna, tagliato per metà dall’ombra; il suo sguardo e i suoi movimenti successivi non hanno più nulla di umano e sono posseduti da un dèmone, assumono una elasticità e una secchezza da amazzone, guidata da una volontà superiore di distruzione. Con un movimento animale misto a una sorta di repulsione erotica, avvicina il volto al corpo di Miranda, per riconoscerne l’odore (preludio al gesto con cui di lì a poco ficcherà le sue mutande nella bocca dell’uomo, fin quasi a soffocarlo), e poi lo stordisce col calcio della pistola, abbattendosi sulla preda. Una furia mitica, da baccante, si è impadronita di Paulina. La frantumazione del corpo da lei subita si rovescia nella frammentazione di quello dell’antico carnefice, che viene spostato e maneggiato come cosa morta. Questa sequenza dal ritmo concitato si svolge tuttavia nei pochi metri della stanza: esempio perfetto di immagine-scena.

In questo film l’immagine-scena ha una precisa funzione etica oltre che estetica e corrisponde alla convinzione che sia impossibile mostrare – senza spettacolarizzarlo e tradirlo – il trauma estremo che è al centro della considerazione. Come nel documentario di Lanzmann sulla Shoah, l’unica strategia possibile è la rappresentazione indiretta, attraverso la parola dei protagonisti e il loro comportamento gestuale e mimetico. Polanski rifiuta volutamente e consapevolmente l’effetto-choc spettacolare, che violenze torture e stupri avrebbero avuto sullo spettatore. L’immagine-scena, il quasi-teatro di questo film, è una tecnica indispensabile di distanziamento – e insieme di avvicinamento critico all’elaborazione del trauma.

Nell’immagine-scena l’interpretazione dell’attore diventa un significante decisivo in se stesso. Possiamo benissimo immaginare una regia della pièce di A. Dorfman, da cui è tratto il film, che ci spinga a considerare falsa la confessione finale di Miranda, sbilanciando il significato in direzione della follia e del delirio di Paulina. Nel testo viene mantenuta una qualche ambiguità, lasciando una certa libertà interpretativa. Nel film di Polanski, la confessione di Miranda è ripetuta due volte. La prima, in casa, davanti alla videocamera, è palesemente ipocrita e il dottore cerca di accentuare tutti i segnali di sforzo e di sofferenza, per invalidarne il senso. La seconda avviene nel finale, innanzi alla scogliera sul mare; dal punto di vista dei fatti ammessi cambia pochissimo, eppure stavolta le sue parole sembrano possedere i crismi dell’autenticità. Ciò dipende unicamente dallo sguardo, dai gesti, dal tono di Kingsley, vale a dire dalla tecnica attoriale. Proprio il confronto che Polanski ci propone, a specchio, tra la prima e la seconda confessione, conferma – almeno in certa misura – l’autenticità di quest’ultima, pur senza fugare totalmente ogni dubbio. E come potrebbe essere altrimenti? La verità del trauma è distorta necessariamente, anche per i supposti protagonisti diretti, dalla retrospezione della memoria: «L’effetto traumatico viene creato a posteriori, nella seconda fase del trauma, après coup diceva Jacques Lacan, o secondo il concetto che si chiama Nachträglichkeit. […] Dunque il tempo psichico non sembra essere lineare come quello razionale e logico, ma circolare, ed è il contesto che contribuisce alla fissazione del trauma, ed è fondamentale nell’evocare il ricordo»7. Ciò non vuol dire evidentemente che il trauma, soprattutto nel caso che stiamo considerando, sia inventato, irreale o puramente immaginario (benché anche in tale eventualità manterrebbe una sua dirompente significanza); ma la costruzione del suo ricordo è sottoposta a una elaborazione più o meno profonda da parte della psiche, nel successivo svolgimento della sua vita. Questo, tra l’altro, è ciò che rende almeno parzialmente curabile il trauma, rinarrando e metaforizzando con valenze spostate e diverse la sua distruttività originaria.

Paulina vorrebbe, dovrebbe spezzare la catena mimetica della violenza, che la lega al trauma e alla sua ripetizione sintomatica nel reale (sia pure invertendo le parti, passando dal ruolo di vittima a carnefice). I duellanti a morte – lei e Miranda – rischiano di rimanere chiusi nella prigione speculare, senza riuscire a rompere il circuito immaginario che li riflette nello specchio l’uno dell’altro. Il perdono, in senso cristiano, potrebbe rappresentare una reale rottura. Ma di fronte a un trauma estremo come quello subito da Paulina – questa l’idea di Polanski – il perdono è impossibile: l’io che poteva perdonare è stato annientato, ridotto consapevolmente a zero. Il chi del perdono è in questo caso divenuto assente: e non c’è nessuno al suo posto che potrebbe ereditarne l’autorità morale e la superiore prospettiva, necessari a un atto così trascendente. Salvo Dio, naturalmente. Ma se Paulina si mettesse dal punto di vista di Dio, commetterebbe una hybris intollerabile.

Paulina non può perdonare, perché non ha l’autorità e la libertà di farlo. Ella può chiedere e ottenere una cosa diversa: il riconoscimento del male e la riaffermazione della Giustizia, la quale – a differenza del diritto, che resta nell’ambito demonico della pena e della colpa – non vuole la vendetta. Il giusto non vuole la dislocazione e la ridistribuzione delle parti del male, ma la sua sospensione: non prima però che il male commesso sia riconosciuto anche dal carnefice e solo così impedita la sua ripetizione. La violenza di Paulina riesce ad arrestarsi e trattenersi sull’orlo del precipizio, in cui sta per gettare Miranda, e in tal modo rompe il circuito mimetico e nefasto con quella da lei un tempo subita. Ciò non vuol dire che dimentichi o perdoni: tutto è anzi ora ricordato e pesato: il soggetto traumatizzato «chiede un riconoscimento sociale; chiede un riconoscimento dell’azione da parte di chi lo ha abusato; e infine chiede il riconoscimento della verità, della autenticità della sua parola»8. Solo con questo triplice riconoscimento la vittima ha ottenuto giustizia e spezza il ciclo della ripetizione. Paulina non spinge l’altro nel precipizio, non ne ha più bisogno. Il duello (o il duale) è disattivato e sospeso: e così ella non è ciò che era, né carnefice né vittima e si salva dall’identificazione inconscia con l’aggressore, smentendola col suo atto deciso.

Il “buono” non uccide il “cattivo”, come nelle grandi narrazioni del cinema classico americano, il negativo non è annientato (sarebbe possibile?) ma è spiazzato e contenuto dalla sospensione dell’azione mortale. Siamo andati al di là del bene e del male, e dunque dell’archetipo stesso del duello.

Nel suo libro Immagine-movimento Deleuze ha indicato nel duello una scansione narrativa fondamentale del montaggio “organico” americano: è la cesura decisiva in cui il negativo, che si era introdotto nella situazione armonica originaria, viene affrontato, sconfitto e superato in una identità superiore. L’azione che riporta l’ordine minacciato all’equilibrio, in questa concezione del conflitto, è incarnata da una figura di eroe, che compie in tal modo un proprio progressivo percorso di formazione, giungendo al riconoscimento di un se stesso più alto e maturo di quanto non fosse nell’ingenuità dell’inizio. In questo dossier abbiamo considerato alcuni film che – pur ripresentando la struttura archetipica e mitica del duello – ne spiazzano o ne deviano il significato originario. Che si tratti di duelli reali – come quelli di Barry Lyndon di Kubrick – o sottilmente psicologici – come nella Morte e la fanciulla di Polanski – la carica ideologica e positiva del duello viene disinnescata e resa ambivalente, mentre emerge la sua sostanziale insensatezza rituale. L’immagine di sogno del duello – per cui il bene e l’eroe distruggono la negatività demoniaca del male – è sostituita in questi film da un’immagine dialettica, che la sospende e la interpreta: quali rapporti di sottomissione e di servitù sono nascosti dietro l’apparente neutralità del rituale? E anche gli eroi, se pure si può attribuire questo nome ai protagonisti spesso incerti e ambigui, appaiono come segnati da un’ombra intima che ne dissocia e ne incrina l’azione. Il gesto più improbabile e più difficile è quello che – nonostante tutto – alcuni di loro riescono a compiere: l’atto che sospende il circuito ripetitivo della violenza e del trauma che essa produce, e si pone al di là del diritto formale e della vendetta.

1 Trama sintetica del film tratta dal Dizionario Morandini: «Da una pièce del cileno Ariel Dorfman. In un paese latinoamericano da poco tornato alla democrazia, quindici anni dopo essere stata seviziata e torturata dalla polizia segreta, Paulina Escobar (S. Weaver) crede di riconoscere in un medico (B. Kingsley) uno dei suoi torturatori. Lo cattura, lo immobilizza, lo processa, affidandone la difesa al proprio perplesso marito avvocato (S. Wilson). Epilogo amaro in una sala da concerto dove il Quartetto Amadeus esegue il celebre Quartetto n. 14 in re minore di Schubert (La morte e la fanciulla)».

2 Cit. in C. Mucci, Il dolore estremo. Il trauma da Freud alla Shoah, Roma, Borla, 2008, p. 47 e 57.

3 M. Bertrand, Trois défis pour la psychanalyse. Clinique, théorie, psychotérapie, Paris, Dunod, 2004, p. 17.

4 C. Mucci, Il dolore estremo… cit., p. 125. L’autore a cui qui ci si riferisce è R. J. Lifton.

5 Ivi, p. 126.

6 Rinvio a Aa. Vv., I corpi del potere. Il cinema di Aleksandr Sokurov, a cura di M. Pezzella e A. Tricomi, Milano, Jaca Book, 2012.

7 Ivi, p. 97.

8 Ivi, p. 107.