di Massimo Jasonni
Gigante – in fotografia e nello spazio offerto all’irruente eloquio del comico – l’intervista di Roberto Benigni a Ezio Mauro su «la Repubblica» del 2 giugno, in occasione della festa della Repubblica e in tema di modifica referendaria alla Costituzione. Poi ci hanno pensato le televisioni, da par loro, ad amplificarne a dismisura credito e diffusione. Trattandosi non di esercizio di un pensiero, ma di mera comunicazione pre-elettorale e pubblicità a sostegno della vittoria del «sí», già indicativo è il tratto fotografico: Benigni si nasconde dietro al leggío e, simulando il gioco del nascondino con lo spettatore, ammonisce puntando il dito. Sorride, ma in modo non convincente: le movenze paiono piú quelle dell’imbonitore che non del giullare di ormai molti anni addietro, con la sua prepotente, laica e toscanissima verve.
L’intervista, coltivata con cura dall’ex direttore del quotidiano, parte da una premessa domestica (babbo e mamma di Roberto votarono nel ’46 per la repubblica, senza tentennamenti) per trasfondersi nell’esaltazione del testo legislativo fondativo dell’assetto repubblicano. La nostra Costituzione, gridò nell’esibizione televisiva del 2012, è «la piú bella del mondo», da amare e da condividere. I dati di ascolto non lasciano margine al dubbio: 13 milioni, molti di piú degli 11 dei «Dieci Comandamenti». «Calamandrei batté Mosè?», domanda il giornalista, in fervida attesa di replica pirotecnica. Il Nostro ci mette del suo, permettendosi di correggere l’interlocutore: no, non solo Calamandrei, ma «Calamandrei e i suoi colleghi e i suoi avversari». Il «momento di grazia» fu rappresentato da «un orizzonte comune, un impegno comune per il bene comune».
Benigni insiste a raccontar balle: nel 2012 sostenne la meraviglia dell’art. 7, in cui la reviviscenza dei Patti Lateranensi comprovava un primo, e grave, tradimento della Costituzione. Ora propone un’interpretazione falsificatoria che riguarda l’intera storia entro cui quel dato istituzionale si pose. Ciò gli consente, dopo avere ipocritamente elogiato la Carta, di concludere alla rovescia: esplicitare il suo voto favorevole alla riforma costituzionale. Come proposta dal presidente del Consiglio.
Vediamo cosa si nasconde. Accomunare ogni forza politica dell’Assemblea nel ’46, significa depauperare l’affluente etico-politico socialista che animò la Costituente e che ne determina, oggi, sua attuale, radicale impraticabilità. Quell’universo a forte impronta pluralistica e solidaristica, entro cui l’ottica di Gramsci e di Gobetti poteva coniugarsi con l’allergia di Dossetti alla nascente Democrazia cristiana, non si sarebbe mai potuto conciliare con il dilagante neoliberismo che è sotto i nostri occhi. L’equiparazione tra la posizione assunta dal Partito d’Azione e le altre forze politiche, in qualche modo concorrenti o avversarie, alimenta la tesi della marginalità dell’apporto laico antifascista al sistema repubblicano e acceca la comprensione del dramma che portò alla ribalta gli assetti governativi della Prima repubblica.
Calamandrei, è noto a tutti ma non a Benigni, aveva subito parlato del tradimento della Resistenza e della reviviscenza del fascismo: il ventennio non era stata una «parentesi», ma l’«autobiografia» della nazione. Mussolini aveva avuto non solo l’appoggio delle masse, ma anche di un ceto accademico asservito. Illuminante la lettura degli eventi del febbraio del ’45 di Concetto Marchesi:
si sa che l’Accademia d’Italia è sciolta e che sta per risorgere la soppressa Accademia dei Lincei: si dice che tra i soci [… dell’] istituto potranno essere riammessi quegli accademici d’Italia i quali, se hanno servito il fascismo, hanno servito ugualmente anche la scienza. Noi diciamo che non si può servire la scienza e nello stesso tempo cooperare alla rovina e al disonore del Paese […]. Noi diciamo che se uno storico, un filosofo, un giurista, un economista, un archeologo hanno detto che Mussolini era il genio della provvidenza e della previdenza a cui l’onnipotente aveva spiegato tutto il libro del futuro […] costoro sono da considerarsi corruttori della scienza e traditori[1].
Benigni, e il quotidiano e le televisioni che lo prefigurano prossimo accademico dei lincei, avrebbero il dovere di ricordare che la “bellezza” della Costituzione non si deve a un fascio di tutte le erbe, ma a forti e non risolti momenti di dissenso, tra i quali, non ultimi, l’alleanza atlantica e la battaglia socialista per far entrare i Cln nell’esecutivo dell’avvenire politico del paese. I Cln dovevano rappresentare, per usare le parole di Carlo Ludovico Ragghianti, la coscienza popolare e fornire garanzia della custodia delle “ragioni essenziali” della ribellione italiana alle ignominie di Salò e all’invasione tedesca[2]. Il sogno di Ragghianti e degli azionisti andò deluso non per una sua astrattezza o intrinseca impraticabilità, ma per la rottura togliattiana degli impegni di Bari[3] e per la successiva «svolta di Salerno», su cui pesarono comprovate pressioni esterne, dei russi e degli angloamericani, e aspirazioni del Pci a presentarsi come forza di governo.
È inutile che il Roberto nazionale si scusi di non essere un esperto giuspubblicista: non è questione di tecnica legislativa, ma di rispetto di un éthos costituzionale che è pregiudizialmente impermeabile alla «Stazione Leopolda». Luogo che il comico non cita, ma sembra presente in ogni sua parola. Delle conventions alla «Stazione Leopolda» Benigni ripete toni e invocazioni. Tutto è diventato una questione di cuore, di buoni sentimenti e di fiducia in un non meglio identificato avvenire.
State buoni e tranquilli, ve lo dice Benigni: «la cornice di valori su cui poggia la Carta non è affatto in pericolo». La smettano di agitarsi pensionati che non giungono al 10 del mese, giovani senza lavoro o cinquantenni con prole licenziati: la Repubblica era, nella mente e nella penna del Costituente, «fondata sul lavoro». Tale rimane anche votando sí al referendum, come esemplarmente farà lui.
Qui il Roberto nazionale avverte un probabile calo dell’audience: cambia registro, benedicente il suo paterno interlocutore. Scherziamoci un po’ su, per allentare la tensione. L’America ci guarda e, da grande democrazia qual è, ci guarda con simpatia. «Siamo un modello da esportare, anzi siamo dei pionieri»: Donald Trump non è forse una brutta e tardiva copia di Berlusconi? Non ha anche lui problemi di capelli, come il cavaliere? Pure sul fronte interno, bando agli iettatori che prospettano una disaffezione delle nuove generazioni alla politica e registrano un inquietante disagio civile. Con un colpo di gomito e una battuta, eliminiamo il problema: Verdini è «l’omino di burro che raccoglie i ragazzi somarelli e li porta via nel paese dei balocchi promettendogli la settimana dei tre giovedí». Salvini fa rimpiangere Bossi? Ma no, che sono mai queste preoccupazioni! I nostri ragazzi di quindici-diciotto anni credono naturalmente nell’Europa, optano per «una sinistra ragionevole, di governo, solidale ed europea». Quella – appunto – proprio quella della Stazione Leopolda.
«Serve amore per la bellezza della nostra Repubblica». Peccato che questo amore di don Roberto serva all’abbattimento, non all’attuazione della Costituzione.
Per stigmatizzare la restaurazione in atto, Salvemini usava una formula folgorante, che non teme il trascorrere del tempo e anzi ne esce rinvigorita, alla rilettura di oggi: «repubblica monarchica dei preti»[4].
[1] L’articolo è ripubblicato in C. Marchesi, Scritti politici, Roma, Editori Riuniti, 1958, p. 311.
[2] C. L. Ragghianti, La crisi di aprile e il C.L.N., «La Libertà», n. 7, 30 aprile 1944, ora in M. Rossi (a cura di), La Libertà, periodico toscano del Partito d’Azione, Firenze, Il Ponte Editore, 2015, pp. 104-106.
[3] Ne fa parola C. L. Ragghianti, La crisi di aprile e il C.L.N. cit., p. 103.
[4] Ne dice M. Rossi, «Carceri: esperienze e documenti», l’antefatto culturale e politico, in «Rassegna penitenziaria e criminologica», I, gennaio-aprile 2004, Roma, Istituto Poligrafico di Stato, 2004, p. 20.