di Marcello Rossi
Giornali e televisioni nell’ultimo scorcio di campagna elettorale hanno insistito giorno dopo giorno sull’idea che le elezioni regionali – e in particolare quelle dell’Emilia-Romagna – sarebbero state un banco di prova fondamentale per le sorti del governo. Banco di prova se Salvini avesse vinto perché, se il Pd di Bonaccini avesse mantenuto le posizioni, nel governo nulla sarebbe cambiato. E così è avvenuto. Tuttavia, a scanso di equivoci, le quattro “forze” di governo – o meglio, le quattro “debolezze” – di fronte alla possibilità che la Lega si impadronisse dell’Emilia-Romagna hanno da subito sostenuto che una cosa erano le elezioni regionali, altra cosa le nazionali e si sono aggrappate alla regola secondo cui, finché il governo ha in parlamento la maggioranza, il governo è in carica e la Costituzione è rispettata.
Questo uso disinvolto della Costituzione che privilegia la forma sulla sostanza mi riporta a un famoso discorso di Calamandrei[1]. Scriveva il Nostro, riferendosi all’uso sui generis che la Democrazia cristiana faceva della Costituzione: «la maggioranza democristiana, magnitudine sua laborans, è stata portata dalla sua stessa onnipotenza schiacciante a identificare la Costituzione con se medesima; le sorti della Costituzione colle sue proprie sorti elettorali. […] E allora la conclusione, prima appena sussurrata, poi in questi ultimi tempi apertamente proclamata, è venuta da sé: non è il governo che deve adattarsi alle esigenze della Costituzione, è la Costituzione che deve conformarsi alle esigenze di questo governo. […] Questa non è la Costituzione fatta dal popolo italiano per il popolo italiano: questa è la Costituzione fatta perché la maggioranza democristiana possa continuare per omnia saecula a rimaner maggioranza. […] È stato detto che la schiettezza di una democrazia è data dalla lealtà con cui il partito che è al potere è disposto a lasciarlo: la lealtà del giuoco democratico è soprattutto nel suo “saper perdere”. Ma la democrazia diventa una vuota parola quando il partito che si è servito dei metodi democratici per salire al potere è disposto a violarli per rimanervi […] anche quando nel paese sia diventato minoranza».
«Durare» – diceva Calamandrei – è l’obiettivo della Democrazia cristiana, e durare è la speranza dell’attuale governo: durare per rinnovare le oltre trecento nomine di enti pubblici che sono in scadenza e durare per eleggere nel 2023 un “adeguato” presidente della Repubblica che, a stare a quanto circola negli ambienti romani della politica, potrebbe essere o Prodi o Draghi. C’è di che preoccuparsi!
Ma il risultato dell’Emilia-Romagna ha come corollario il “durare” di cui sopra e anche molto di più. Nel popolo della sedicente “sinistra” è tornata la speranza che il Pd sia finalmente uscito dalla crisi. Prodi a un giornalista di «La 7» ha detto che finalmente «il centrosinistra può rifarsi l’anima»: una dichiarazione sibillina, ma che sembra riproporre l’idea di un nuovo “Ulivo”. E non solo Prodi insiste su questa soluzione. Zingaretti con tutta quanta la segreteria del partito – che poi è fondamentalmente in mano a Franceschini, un politico che con la sinistra ha poco da spartire – rilancia l’idea di un nuovo Pd – nuovo forse anche nel nome – tanto che si rischia il ripetersi di qualcosa di simile alla Bolognina di Occhetto. D’altronde anche a latere del Pd si parla di una «sinistra plurale» che, a ben riflettere, è un ossimoro perché se “plurale” significa che in “molti” e “diversi” dovranno entrare in questa compagine, a che titolo si può parlare di sinistra? I molti e diversi – i “plurali” – dovranno mantenere la loro identità, oppure, per unirsi, dovranno tutti fare un passo indietro? E cioè: gli ex comunisti dovranno essere meno comunisti, gli ex democristiani meno democristiani, i laici meno laici? Da tutti questi meno dovrebbe derivare, per un mistero dell’alchimia politica, la futura “sinistra plurale”.
Ma la sinistra plurale può essere una grande idea se “plurale” si declina all’interno del socialismo. Mi spiego: oggi la sinistra può rinascere solo se si identifica con il socialismo e nel socialismo c’è una pluralità di posizioni che va riportata in auge raggiungendo una sintesi. Lo si potrà fare mettendo da parte ogni velleità di nuovismo e studiare seriamente il socialismo del XIX secolo e gli sviluppi che questo ha avuto nel XX secolo per mettere a fuoco il modo in cui si dovrà caratterizzare il socialismo “plurale” del XXI secolo.
Un socialismo che – secondo un’immagine di Walter Binni – «proponendosi obbiettivi radicali da un punto di vista sociale (socializzazione dei mezzi di produzione, messa in discussione della proprietà privata nel momento in cui essa assum[a] l’aspetto di sfruttamento dell’uomo sull’uomo), permett[a] una circolazione di libertà, in qualche modo una nuova libertà»[2]. E ancora prima Carlo Rosselli, sempre nell’idea di caratterizzare il socialismo, scriveva: «Non si tratta qui di proporre una nuova terminologia di partito. Si tratta semplicemente di ricondurre ai suoi principi e alle sue origini toriche e psicologiche il movimento socialista. Si vuol semplicemente dimostrare come il socialismo, in ultima analisi, sia la filosofia della libertà». E inoltre: «In nome della libertà, per assicurare una libertà effettiva a tutti gli uomini e non soltanto a una minoranza privilegiata, i socialisti reclamano la fine dei privilegi borghesi. In nome della libertà chiedono una più giusta distribuzione delle ricchezze e l’assicurazione per tutti d’una vita degna di questo nome. In nome della libertà parlano della sostituzione del principio egoista nella direzione della vita sociale con il principio collettivo»[3].
Anche Aldo Capitini è su questa lunghezza d’onda: «Secondo me il liberalsocialismo deve essere il lievito della trasformazione sociale e una luce critica gettata sulle posizioni di sinistra […]. Per far questo bisogna assimilare pienamente l’esigenza socialista, cioè la compresenza reale dell’umanità lavoratrice, come soggetto della storia, come proprietaria dei mezzi di produzione, come avente nei suoi membri uguali possibilità di benessere, di sviluppo, di cultura, di fruizione dei beni della civiltà. […] Il socialismo, presenza effettiva del coro; la libertà continuo punto di arrivo, cioè melodia del coro stesso. Il socialismo come effettiva democrazia non solo politica, ma anche economica; la libertà come liberazione spirituale»[4].
Binni, Rosselli, Capitini: tre esempi di sintesi di una pluralità nel socialismo.
Ma possiamo proporre il socialismo a chi, con una posizione che ha un chiaro retrogusto di destra, si dichiara né di destra, né di sinistra; a chi è nato proprio per distinguersi dall’ala sinistra del Pd (ammesso che esista); a chi, in una crisi profonda di identità, non va oltre una vaga e inconcludente idea di riformismo?
Il socialismo è altra cosa.
[1] P. Calamandrei, Incoscienza costituzionale, «Il Ponte», n. 9, settembre 1952.
[2] W. Binni, La tramontana a Porta Sole, Firenze, Il Ponte Editore, 2017, p. 168.
[3] Cfr. E. Lussu, Alcuni ricordi su Carlo Rosselli, «Il Ponte», n. 6, giugno 1947, p. 511.
[4] A. Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa, Firenze, Il Ponte Editore, 2018, pp. 14 e 16.