Brasiledi Rino Genovese

L’esperienza socialdemocratica brasiliana appare arrivata al capolinea. Il ciclo iniziato con la presidenza Lula nel 2003, durato all’incirca un decennio – quando il Brasile era sostenuto da una crescita impetuosa e quindi una ridistribuzione del reddito, con la conseguente estensione dei diritti sociali, era nelle cose –, è terminato in una recessione economica, dovuta in larga misura alla caduta sui mercati internazionali del prezzo del petrolio, e in una campagna intorno alla corruzione strumentalizzata dalla destra. La presidenta Dilma Rousseff è oggi sull’orlo di una destituzione le cui motivazioni sono pretestuose, e che tuttavia è l’indice di una notevole perdita di credibilità da parte del Partito dei lavoratori.

Al di là di questo nodo istituzionale, però, una riflessione più ampia va sviluppata: accade oggi in Brasile ciò che, sia pure in un arco di tempo più lungo e con tutte le differenze del caso, è già avvenuto in Europa. La ridistribuzione del reddito, che in Brasile ha fatto uscire dalla povertà una ventina di milioni di persone creando per la prima volta in quel paese un ampio settore di “classe media”, si morde la coda. È un paradosso – ma è la realtà: sono le stesse politiche sociali, apprezzate da molti nei periodi di vacche grasse, che diventano indigeste (in certi casi perfino a quegli stessi che ne sono stati i beneficiari) nei periodi di vacche magre. Il riflesso condizionato, come sappiamo, è l’austerità neoliberista. “Si salvi chi può”, questo lo slogan che riprende quota dopo una fase di forte ridistribuzione del reddito. La tendenza è a chiudersi nel proprio “particulare”: ritornano in auge forme d’individualismo atomistico dopo un momento che era parso aprire all’individualismo sociale (quello che punta, per fare un esempio, sul soddisfacimento dei bisogni collettivi anziché sullo sviluppo di consumi puramente privati).

Per la sinistra sarebbe allora il momento di rilanciare un progetto socialista di progressiva fuoriuscita dal capitalismo. È dalle stesse difficoltà in cui si caccia la politica socialdemocratica (i cui risultati non vanno comunque sottovalutati) che nasce la necessità dell’oltre. In sostanza, o la sinistra si arrende, dando anche sul piano ideologico campo libero alla destra – cominciando magari a praticare da sé quella riduzione della spesa pubblica e quelle privatizzazioni che sono il succo del credo neoliberista –, oppure si muove nella direzione di una ridistribuzione del potere, non più esclusivamente del reddito, che mescolando democrazia rappresentativa e democrazia diretta (in particolare nei luoghi di lavoro) prospetti un nuovo modello di società.

È una scommessa a cui in Europa, nel Novecento, ci si è sottratti. L’unico leader socialdemocratico che avesse chiara la questione, lo svedese Olof Palme, era consapevole del fatto che si trattava d’introdurre nella politica di ridistribuzione del reddito un elemento utopico. Nella sua visione – naturalmente, soltanto una delle scelte prospettabili in questo campo – si sarebbe trattato d’imporre per legge agli imprenditori di reinvestire la maggior parte dei profitti in attività produttive, sotto il controllo di comitati dei lavoratori, evitando così l’accumulazione privata della ricchezza. Di una proposta del genere avrebbe oggi bisogno la sinistra in Brasile: altro che stare a lamentarsi, in maniera puramente difensiva, di un “golpe istituzionale”. In fondo per che cosa è nato il socialismo, ormai quasi due secoli fa, se non per tentare di rendere concreta l’utopia?