di Rino Genovese
Non bisogna farsi fuorviare dal titolo: Belluscone, una storia siciliana di Franco Maresco non è semplicemente un film sui rapporti tra il berlusconismo politico e la Sicilia, neppure un documentario sulle fortune dell’imprenditore milanese in quanto intrecciate, tramite le amicizie dell’amico Dell’Utri, con quelle della mafia. Maresco ci dà – con questo suo finissimo lavoro, tanto più formalmente accattivante quanto più reca alle spalle, come un ricordo, l’esperienza “cinica” del vecchio sodalizio con Daniele Ciprì – un vero e proprio spaccato sociale dell’Italia odierna.
Siamo immersi in un paese in cui nulla muta. La sceneggiata napoletana, quella di Mario Merola che riusciva ad attirare, fino a qualche decennio fa, un folto pubblico popolare nelle sale teatrali della città partenopea – in un misto, non si sa quanto voluto, tra l’esagerazione espressionistica e la partecipazione affettiva a una forma di vita da sempre inquinata dalla criminalità organizzata –, si è oggi transustanziata nello strano genere musicale detto neomelodico capace di riempire le piazze dei quartieri e dei paesi, e in cui al rispetto per quelli che vivono da “ospiti dello Stato”, cioè da carcerati, si unisce l’ammirazione per il mito del self made man milanese. Così, secondo una precisa linea ideale, l’Italia del Nord risulta unificata con quella del Sud più di quel che abbia mai potuto fare una storicamente debole unità nazionale. È il regime dell’ibridazione italiana, questa caratteristica commistione eternizzante di passato e presente, e tra culture solo sulla carta reciprocamente eterogenee come quella imprenditoriale e quella mafiosa, a dare il segno del non-mutamento. Ma al tempo stesso – e si può scorgere qui la qualità insieme formale e contenutistica del film di Maresco – per rapidi tratti un cambiamento si è dato: Palermo e Milano, la Sicilia e la Lombardia, da mondi contrapposti sono diventati complementari. E Maresco raggiunge l’apice del discorso con l’inserimento, tanto più efficace quanto più veloce ed ellittico, della scena del sedicente innovatore Matteo Renzi in veste di comparsa dentro una delle trasmissioni più seguite delle televisioni berlusconiane, segno tangibile della continuità sotto un cambiamento apparente.
Sono i destini italiani. Mentre l’organizzatore d’incontri musicali neomelodici, quel Ciccio Mira che può essere considerato il protagonista e il tirante narrativo del film (il quale, in una tipica contaminazione dei generi, è altrettanto un documentario quanto un racconto di fiction), finisce in galera per associazione mafiosa, il padrino di Arcore – anche lui condannato ma a una pena ridicola – diventa il partner privilegiato della Grande Riforma delle istituzioni guidata dallo pseudorottamatore. Il paese ha raggiunto il suo punto di non ritorno, quello in cui l’innovazione non si distingue più dal buon tempo antico. È ciò di cui parla il film di Maresco mostrandoci, attraverso una singolare autobiografia siciliana, l’autobiografia di un paese irredimibile sospeso tra l’ignoranza, la farsa e l’orrore.