di Antonio Tricomi
Silvio Soldini, “Il colore nascosto delle cose” (24 settembre 2017)
Devo essere sincero: a me è parso narrativamente – ripeto: narrativamente – disonesto, perché mette in scena l’abusato canovaccio in sé di una storia d’amore qualunque e in quanto tale, con le paure e gli slanci, i ricatti e gli ardori, la gioia e i pentimenti, le ipocrisie e la dolcezza che ciascun rapporto erotico genericamente comporta. Detto altrimenti, i due personaggi che danno forma alla relazione raccontata nel film non soltanto appaiono maschere giusto un filino, cioè appena superficialmente, caratterizzate, ma avrebbero persino potuto non essere, rispettivamente, una donna da tempo privata della vista e un uomo di più di quarant’anni cronicamente immaturo senza che ciò obbligasse minimamente il regista a modificare l’autentica strategia di significazione implicata dal Colore nascosto delle cose.
Che infatti, non volendo realmente sondare il tragico disagio esistenziale dell’una o la vile cialtroneria dell’altro, ma preoccupandosi quasi esclusivamente di ricavare, dai diversi approcci alla vita esibiti dai protagonisti, indispensabili espedienti narrativi per dar corpo, appunto, a una vicenda amorosa in fondo in fondo del tutto ordinaria, nient’altro si dimostra che un’esile commediola tra le tante e, come tante, sostanzialmente insapore. Magari persino graziosa, qui e là, e specie nei suoi lacerti più direttamente comici, o comunque brillanti, e poi nelle migliori sequenze in cui l’intera responsabilità di dare forza alla rappresentazione ricade sul viso, sulla mimica di una Valeria Golino quanto mai espressiva, senza alcun dubbio bravissima. E però, in estrema sintesi, un’operina di garbo priva di una sua qualche identità vera, irrimediabilmente già vista mille e altre mille volte.
O forse Soldini si era in buona fede illuso. Forse pensava, cioè, che sarebbero bastate alcune riprese volutamente sfuocate e qualche scena – la prima e l’ultima, per esempio – in una stanza buia per alludere metaforicamente alla condizione patita dai non vedenti: anzi, per farla addirittura vivere agli spettatori. E forse anche credeva che tali scelte di regia, o narrative, sarebbero state altresì sufficienti per proporci non l’ennesimo filmetto intimistico-ombelicale all’italiana, ma una lucida riflessione sull’handicap, sulla diversità, sulle barriere che l’uno e l’altra erigono, a livello tanto psicologico quanto sociale, e sui modi in cui si potrebbe, o meglio dovrebbe, da ambo i lati provare ad abbatterle.
Certo, se poi si considerano titoli quali, per citarne solo uno, Cosa voglio di più, allora, d’improvviso, il discorso cambia. In tal caso, occorre infatti ammettere che Soldini ha compiuto enormi passi in avanti e che Il colore nascosto delle cose è in odore di capolavoro…
Andrea Segre, “L’ordine delle cose” (25 settembre 2017)
Troppo condivisibili le intenzioni, troppo fedele a un assoluto rigore formale e un’onesta continenza espressiva, per poterne pensare del tutto male. Solo che il film, proprio in ragione di questi suoi pregi quasi aprioristicamente ricercati come necessari, cioè a dire più di poetica e, in astratto, di metodo, che non coerentemente modellati sulla specifica forma prescelta per il racconto o da essa, in una qualche inderogabile misura, naturalmente derivati, appare oltremodo piatto: tanto prevedibile e didascalico (o, a voler essere fino in fondo severi, tanto ovvio e retorico) da risultare anzitutto banale, una progressione eccessivamente comoda, pigramente scolastica, di facili luoghi comuni. In definitiva, un civilissimo ma, purtroppo, cinematograficamente assai prescindibile esercizio di buona coscienza.
Darren Aronofsky, “Madre!” (11 ottobre 2017)
Non ridevo così tanto, al cinema, da quasi un trentennio. Da quando – tredicenne grasso, coi brufoli e fan di Madonna – andai a guardare Una pallottola spuntata di David Zucker con due mie compagne di classe: una, fra l’altro, mi piaceva pure, ma non ci fu niente da fare. Ecco perché non ho abbandonato la sala: magari mi ricapita tra altri trent’anni – mi sono detto – di spassarmela a questo modo davanti a un film. E così, l’ultima volta che son scappato da un cinema resta, ad oggi, quella in cui, tredici anni fa, mi avevano trascinato a vedere La terra dell’abbondanza di Wim Wenders. Certo, ma solo perché – devo però ammetterlo – molti prodotti italiani, per dire, o finti colti in genere o figli di poetiche pseudo-autoriali, del tutto masturbatorie, mi conciliano straordinariamente bene il sonno. Sicché talora, per guadagnare l’uscita, ho bisogno che, finita la proiezione, chi mi siede accanto, volendo tornarsene a casa e trovando me, sprofondato nel mio pacioso mondo onirico, a ostruirgli il passaggio, con estremo garbo mi svegli: “Signore… Signore… Mi scusi: dovrei … Grazie”.
Suvvia, ma davvero si può prendere anche solo un pochino sul serio questo film di Aronofsky, che strizza maldestramente l’occhio al Polanski neppure migliore e scaturisce da un goffo, patetico delirio di onnipotenza registica simile a quelli cui si devono i lavori di Lars von Trier successivi al Grande capo? In astratto, Madre! vorrebbe essere una visionaria opera-mondo letteralmente emanata da un iniziato, da un profetico autore-sciamano. In concreto, si riduce all’inesausto e greve affastellarsi di rimandi metaforici: uno più ovvio dell’altro, spesso a tema biblico (ed ecco di colpo sfilare, innanzi a noi, le controfigure di Adamo ed Eva o di Caino e Abele; eccoci all’improvviso chiamati a fare i conti con le piaghe d’Egitto; ecco Maria dare alla luce Gesù e Cristo tramutarsi nel capro espiatorio della nostra criminogena, triviale, spettacolarizzata società babelica) e ciascuno sottomesso alle due pasticciate allegorie, in nulla originali, che s’incaricano di scolpire la struttura stessa della – si fa per dire – macchina narrativa. In primo piano, quella della creazione, sia artistica sia divina, come travagliato, glorioso, ma ambiguamente distruttivo sacrificio dell’esistenza propria e, in special modo, altrui. Sullo sfondo, quella, ritagliata dalla precedente, del maschile quale principio, per l’appunto, creativo che tuttavia, per divenire tale, deve assolutamente vampirizzare e condurre in ultimo all’annientamento, giacché di suo in verità sterile, l’opposto principio del femminile, sola matrice autentica di una vita che, però, esso non sa e non vuole rendere socialmente orientata, a differenza di quanto ambisce e anche riesce artificiosamente a fare, in un certo senso quindi falsificandola, la parassitaria energia virile. Servono per caso commenti?
L’impressione allora è che Aronofsky si ritenga profondamente ispirato; che pensi di rivelarsi geniale quando, senza vagliarne l’effettiva rappresentabilità con la giusta intransigenza, propria dei veri grandi cineasti, anarchicamente s’industria a convertire in immagini tutte le ossessioni che, irrisolte, lo agitano. Madre! l’ha scritto interamente lui: è questo, temo, il principale problema. Che splendido film, era invece The Wrestler! Magari perché né il soggetto né la sceneggiatura erano suoi. Ed egli, pur non volendolo con ogni probabilità accettare, oltre a non dimostrarsi un redivivo Buñuel (nessuno, del resto, glielo chiede) e nemmeno, forse, un autore in senso stretto, sembra piuttosto essere, anzitutto, un talentuoso, benché fin troppo discontinuo, regista (per di più attratto in maniera davvero irresistibile dal kitsch e, anche suo malgrado, acriticamente pop).
Ad ogni modo, non mi pare, quella appunto di film-maker, una qualifica degradante. Si tratterebbe solo, per Aronofsky, di prenderne serenamente coscienza.
Manetti Bros., “Ammore e malavita” (13 ottobre 2017)
Mi era sembrato più frizzante, più incisivo Song’e Napule, benché poi, considerato ciò che vuol essere, non si possa rimproverare granché a questo Ammore e malavita. Semplicemente, conferma la sensazione che ormai, o forse da sempre, i Manetti Bros. riescono a dare il meglio di sé quando lavorano per la tv o nei videoclip. Insomma, una buona puntata della serie L’ispettore Coliandro risulta complessivamente più godibile, più “scorretta”, più estrosa, che non i loro film.
Denis Villeneuve, “Blade Runner” 2049 (15 ottobre 2017)
In fondo, “operazioni nostalgia” come questa, pure quando non vogliano ridursi a mere intraprese commerciali, sanno tuttavia di nascere culturalmente depotenziate. Qualunque sequel, ciascun prequel, anche ben fatto, che ambisca, decenni più tardi, a far rivivere la piccola magia di un film capace, a suo tempo, di proporsi, ancor più che quale caposaldo della storia del cinema, alla stregua di un clamoroso fenomeno di costume, magari in grado di esprimere o di influenzare, per una o per diverse generazioni, una quota addirittura cospicua dell’immaginario collettivo, può al massimo rievocare un simile miracolo, spingerci a riesaminarlo per l’ennesima volta, forse renderlo archeologicamente appetibile alle nuove leve, non già ripeterlo. Nell’intimo, ogni epoca conosce infatti proprie logiche, propri fantasmi, propri appetiti culturali. Attenersi oggi agli ingredienti che permisero ieri, a questa o quella pellicola, di entrare in perfetta sintonia col presente, ripensarli in una salsa giusto appena più densa o più liquida, non può quindi voler dire fare centro. Ma anche conservare, del modello per così dire ricreato, semplicemente la confezione, realizzando poi – in ossequio a intenzioni, sia formali sia di messaggio, del tutto altre, cioè per nulla ispirate al recupero in prima istanza “sentimentale” della prescelta matrice non solo narrativa – un film tematicamente o stilisticamente estraneo all’originale, significa mancare giocoforza il bersaglio. Insomma, il discrimine tra un decoroso prodotto vintage e una fallata merce kitsch è sempre un’inezia.
Il film di Villeneuve appare assolutamente rispettabile perché il regista sa istituire il giusto rapporto col Blade Runner girato trentacinque anni fa da Ridley Scott. Non punta a ricalcarne pedissequamente le soluzioni espressive, né a rilanciare senza interpolazione alcuna il ragionamento sulle sorti del genere umano offerto, al pubblico di allora, dal cineasta britannico. Neppure pretende, però, di presentarsi quale dispositivo, sia linguistico sia concettuale, davvero differente dall’archetipo. In una certa misura, riesce dunque a proporsi al pari di un apocrifo a suo modo, e paradossalmente, autentico. In più, si rivela un film, non solo a tratti, di studiatissimo impatto visivo, e perciò capace, in vari momenti, di esprimere un cerebrale magnetismo che ammalia lo spettatore. Merito anche dell’euclidea, incorporea fotografia di Roger Deakin; delle alienanti, smaterializzate musiche di Jóhann Jóhansson, Hans Zimmer, Benjamin Wallfisch.