di Antonio Tricomi
Roberto De Paolis, “Cuori puri” (2 giugno 2017)
Caro Goffredo, ma c’è davvero bisogno, per parlare bene di un film dignitosissimo – e definirlo così mi pare già una maniera di riconoscergli un gran merito –, di ricoprirlo esageratamente di lodi, come hai fatto in un contributo postato lo scorso 27 maggio sul sito di «Internazionale», spingendoti addirittura a rinvenirne i modelli nei lavori dei fratelli Dardenne, e questo passi, poi però anche nelle opere di Robert Bresson? Credi realmente utili – anzitutto agli autori, a maggior ragione se ai primi passi – elogi tanto sopra le righe? Specie qualora entusiasmi siffatti implichino il rischio del pur non totale fraintendimento della pellicola in questione, magari troppo strumentalmente interpretata alla luce di proprie convinzioni – diciamo così – comprensibilmente post-politiche? Nel caso specifico, in conformità con i postulati, ad oggi ultimi, di quel tuo – spesso anche proficuamente irascibile ma, da qualche tempo, più del concesso, temo, paternalistico – “fofismo” – nel quale però, come sai, mi ostino comunque a riconoscere la voce di un irrinunciabile maestro – persuasosi, ormai da un po’, che quello «cristiano», perlomeno in Italia, sia l’unico ethos rimasto, dopo il «tradimento attuato dall’ex sinistra dei valori sociali, socialisti», e in una nazione «senza politica, retta quasi sempre da classi dirigenti corporative ed egoiste quando non mafiose». Diagnosi per il resto impeccabile, ma che, nell’osservare il mondo cattolico, corre il pericolo di scambiare la pagliuzza per la trave. Lo zoccolo duro dei nostri credenti si sente infatti tuttora orfano di papa Benedetto XVI; insegue, oppure rimpiange, un mai rinnegato, o talvolta perduto, stile di vita piccolo-borghese; chiuderebbe volentieri le frontiere nazionali; pensa sia in atto una guerra di religione; guarda con favore alla recrudescenza di uno spirito da crociata; giudica la cultura islamica incompatibile con le regole della civiltà occidentale.
Il merito di Cuori puri è quello di rappresentare – tuttavia in modo troppo artatamente simmetrico sul piano narrativo, e quindi con una ancora acerba, benché apprezzabilmente sincera, passione pedagogica – le gabbie spudoratamente ideologiche in cui sono loro malgrado rinchiusi i due giovani protagonisti, che potranno davvero conoscersi e amarsi – come suggerisce quell’ultima scena del film (garbatamente patetica ma, giustappunto, eccessivamente didascalica) che li vede abbracciarsi con tenera furia e dolce paura – solo quando troveranno il coraggio di forzare, ciascuno, le sbarre di tali prigioni per evaderne. Lei dovrà infatti sconfessare quantomeno l’oltranzismo di un’educazione cattolica socialmente ipocrita, ossia tale da scorgere nell’esercizio di una carità, a dirla tutta puramente formalistica, non la reale presa in carica dell’altro, né il pieno riconoscimento dei bisogni effettivi e della cultura specifica del prossimo, ma una pratica, sostanzialmente imposta ai devoti, affinché essi lavino la propria (falsa) coscienza. Lui si dovrà invece affrancare dal risentimento civile, dalle spinte distruttive e autodistruttive, dagli imperativi razzistici dogmaticamente condivisi in quel mondo della marginalità sociale sempre più abbandonato al suo destino, vittima ormai di una comprensibile, asfittica disperazione e dunque incline ad accettare una logica della giungla che lo spinge a compattarsi, in nome di un’astiosa solidarietà di tipo esclusivamente tribale, solo riconoscendo in ciascun altro da sé, e in particolar modo nello straniero, la causa del disagio sofferto. Il nemico che, ad averne la forza, urgerebbe autonomamente combattere, emancipandosi dalle proprie stesse retoriche parassitariamente apocalittiche. Il capro espiatorio di cui pretendere allora dai governanti l’immediato olocausto.
Due regimi carcerari in larga misura comunque imparagonabili, ma che hanno perciò in comune un per l’appunto strumentalmente apodittico rifiuto – in un caso, denegato; nell’altro, esibito – del diverso: un rigetto che si fonda sulla mistificazione dell’identità di costui, del rapporto o del mancato legame intessuto con lui, dell’intera realtà socioculturale. E De Paolis è bravissimo nell’affidare all’espressività di due attori di ancor più incontestabile talento il compito di mostrarci quanta sofferenza implichi, per un individuo, lo sforzo di spezzare, senza garanzia alcuna di riuscirci o di trovare, così, qualche cosa che poi somigli alla piena realizzazione di sé, catene tanto strette.
Perché il suo cinema raggiunga la piena maturità, egli dovrà forse semplicemente imparare a dosarne meglio gli ingredienti costitutivi: un talvolta ancora estetizzante sguardo documentaristico; una sorta di pur normalizzato pasolinismo – se è proprio indispensabile rintracciarne alcuni possibili modelli – sul quale sembra, per così dire, innervarsi una sensibilità culturale e registica più affine, magari, a quella di Olmi; un encomiabile desiderio di costruire racconti perfettamente bilanciati in ogni loro parte che non deve però tradursi nella definizione di una macchina narrativa il cui equilibrio interno si dimostri troppo artificiosamente ottenuto.
Kenneth Lonergan, “Manchester by the Sea” (10 luglio 2017)
Ci son volute ben tre estati, però, all’ennesimo tentativo, finalmente m’è riuscito di vedere, proiettato all’aperto nel solito giardino comunale, non un capolavoro, certo, ma un film almeno interessante, che evita di rappresentare la tragedia con i toni di un sovreccitato melodramma dozzinale per mostrarcela, invece, quale grumo inesprimibile e insopprimibile di soffuso, maturo, trattenuto, autistico, giocoforza reticente o addirittura mistificato e, tuttavia, paradossalmente generoso, responsabile, persino vitalistico dolore individuale. Se Manchester by the Sea non convince, o comunque non entusiasma, fino in fondo è perché non riesce a trovare sempre il giusto equilibrio tra i diversi timbri espressivi che in esso, dunque talora confusamente, convivono. Tra un garbato iperrealismo anzitutto psicologico e un’anarchica vena surrealista; tra sofisticato ma pudico intimismo e una forse troppo capricciosa, manieristica inclinazione a una pur misurata critica sociale; tra tenero, a tratti umoristico disincanto esistenziale e un’intenzione di corrosiva ironia che però risulta in varie circostanze incongrua, solo a fatica pienamente intelligibile.
Christopher Nolan, “Dunkirk” (1º settembre 2017)
È vero: per lunghi tratti, Dunkirk fa tornare alla mente Salvate il soldato Ryan di Spielberg. E non è un merito. Per di più, inclina talora ad avvitarsi in un pur non esasperato, ma comunque oleografico, gorgo citazionista. Eccessivamente esibiti e, a pensarci bene, troppo poco o, perlomeno, mal risemantizzati, in particolare, i ripetuti omaggi a Gli uccelli. A cominciare da quel titolo di lavorazione della pellicola, Bodega Bay, che, nell’alludere all’area della California in cui era ambientato il capolavoro di Hitchcock, intendeva verosimilmente suggerire la volontà di Nolan di realizzare un film che ricalcasse e, in una certa misura, aggiornasse l’ispirazione apocalittica dell’opera più enigmatica del maestro britannico, ritenuta del resto, da alcuni esegeti, una sofisticata metafora dell’eccidio consumatosi durante la seconda guerra mondiale.
Né meritano di essere prese troppo in considerazione le parole di quanti hanno scorto, in Dunkirk, una pietra miliare, se non forse l’inattesa vetta assoluta, del cinema bellico, istituendo, in special modo e magari a suo vantaggio, assurdi raffronti con Full Metal Jacket. Quello di Kubrick era infatti un film sulla guerra, reputata dal cineasta americano – in linea con l’antropologia radicalmente negativa che ispirava la sua filosofia della storia – la cartina al tornasole dell’irredimibile e quasi esclusiva propensione al male degli individui tutti e delle società umane di ogni tempo e luogo, e quindi raffigurata con un disilluso, feroce spirito antimilitarista costretto, però, a dichiarare implicitamente la propria fisiologica impotenza e, appunto per questo, sempre allucinato, angoscioso, finanche crudele. Nolan ci offre invece un film di guerra: vuol proporci, di essa, una claustrofobica esperienza sensoriale. Sicché ci trasporta in uno spazio e in un tempo nei quali dal cielo, da terra, dal mare, da ogni luogo, in ciascun momento e – complice anche un’ossessiva colonna sonora, di fatto giocata quale estenuante stillicidio di un unico suono che, quando lento e quando martellante, s’incarica, letteralmente, di torturarci – persino nei nostri padiglioni auricolari, oltre che per i nostri occhi, tutto è inesorabilmente, e soltanto, battaglia, terrore; vile o tenace contesa, comunque disperata, per la sopravvivenza; menomazione fisica, pericolo di morte, morte.
Sbaglia, però, chi rinviene in quest’ultima scelta narrativa il desiderio del cineasta di procedere a una rappresentazione estetizzante, quindi a un’eroicizzante legittimazione sentimentalmente ricattatoria, del fatto bellico. Le frasi pronunciate, in particolare, da un personaggio del film non lasciano adito a dubbi. Nell’ottica di Nolan, la si può anche dichiarare, ritenere giusta o, a parole, addirittura combattere per nobili o ignobili convinzioni ideologiche: in ragione, cioè, di principi ispirati al più asfittico patriottismo o a una cieca volontà di dominio o al proposito di eliminare questo o quel regime dispotico, come pure nella certezza che essa misuri l’effettivo valore delle comunità e dei soggetti che le compongono. Ma poi, quando ci si trova direttamente invischiati o vi si assiste da lontano, sapendo però al fronte propri conoscenti o famigliari e, comunque, propri connazionali o, ad ogni modo, individui che rischiano, da una parte e dall’altra, il massacro, agli occhi di ciascuno – sia di chi materialmente la fa, sia di chi, senza colpo ferire, può attenderne l’esito – la guerra perde presto qualsivoglia significato ideale in precedenza attribuitole, qualunque eventuale valenza etica, o persino estetica, sulla carta riconosciutale. Insomma si spoglia, in concreto, di qualsiasi paradossale retorica astrattamente civile, per ridursi, là dove risuonano le armi, a una cinica, sovente animalesca disputa di tutti contro tutti, anche dei commilitoni tra loro, per salvarsi, ognuno, la pelle. Né l’opinione pubblica, in patria, realmente condanna un simile atteggiamento dei soldati: come che ci siano riusciti, l’importante, per i conterranei, è che essi tornino vivi a casa, pur quando ciò implicasse l’ammissione di una sconfitta militare. I civili stessi, quando sfidano la morte per provare a mettere in salvo i giovani e i meno giovani che si battono per il loro Paese, possono anche immaginare di farlo spinti da un qualche sentimento patriottico, ma, in verità, agiscono perché (avendo magari perso in battaglia un figlio, un fratello) è alla tutela della vita in quanto tale delle persone spedite al fronte, non alla difesa della nazione in sé o della sua gloria, che si sentono moralmente chiamati.
In definitiva, lo sguardo impolitico o apolitico o antipolitico di Nolan giudica la guerra un evento i cui moventi ed esiti appunto politici sono in genere subiti o introiettati e, sul piano ideologico, nulla più che colpevolmente accolti a priori o ipocritamente celebrati a posteriori, non però fattivamente prodotti o percepiti del tutto decisivi, da una collettività che, attribuendo valore soltanto alla pura sopravvivenza individuale, nei conflitti bellici non può affatto scorgere alcunché di degno. Morale più ambigua di quanto si pensi, perché, se da un lato demistifica il reale sostrato emotivo di ogni retorica, per esempio, pericolosamente nazionalista o aggressivamente comunitaria, anche può ambire ad assolvere un simile compito, dall’altra parte, in quanto fondamentalmente considera la società un coacervo di monadi ciascuna preoccupata di salvaguardare anzitutto, sia pure pacificamente, il proprio diritto alla vita, grossomodo come, in forme però addirittura disumane, ogni soldato si sente legittimato a fare in battaglia. E, nondimeno, morale la cui inesatta traduzione in affresco cinematografico determina quell’impressione – da alcuni, come detto, dichiarata – di essersi trovati al cospetto di un film debolmente, o anzi per nulla, antimilitarista.
Il punto invece è che Nolan, banalmente, non riesce, pur volendolo, a farci percepire intero l’orrore di quella guerra nella quale, lo si è spiegato, ci precipita perché il suo film, a livello tanto stilistico quanto diegetico, si conserva sempre troppo esatto e pulito, troppo simmetrico e monocorde: insomma troppo studiato e artificiosamente “classico”. E non si può credibilmente rappresentare quella che si ritiene una catastrofica esplosione di ingovernabili angosce e irrefrenabili brutalità senza mai arrischiare autentiche increspature coerentemente espressivistiche o senza curarsi di costruire un congegno narrativo davvero (e non solo per pura prassi registica) complesso, internamente stratificato, magari addirittura centrifugo.
Come al solito, il cineasta decide, per esempio, di disarticolare la naturale cronologia della narrazione, di modo che – raccontando alcune vicende di taluni personaggi in flashback, altre in flashforward, altre ancora rispettando quella che s’impone al pubblico quale logica progressione dei fatti – lo spettatore per l’appunto smarrisca, proprio come accade in guerra ai soldati non appena la battaglia infuria, le corrette coordinate spaziotemporali, e quindi subisca la medesima perdita di aderenza al reale patita dai militari. Solo che esclusivamente nella seconda metà del film tale scelta davvero determina, o lascia quantomeno intendere di voler produrre, un simile effetto: prima di allora, essa fatica, viceversa, a presentarsi come una coerente, del tutto necessaria strategia di senso, rischiando, molto più incongruamente, di sembrare la meccanica, incondizionata riproposizione della maniera, sia narrativa sia stilistica, cara a Nolan.
Il quale, di riflesso, non essendo, per sua fortuna, Spielberg e tuttavia, purtroppo per lui, nemmeno Kubrick, ci regala, con Dunkirk, non già un film ideologicamente greve o grossolanamente spettacolare, ma, in fin dei conti, semplicemente un’opera algida, di buon artigianato, questo sì, e però capace solo a tratti di coinvolgere uno spettatore che, per la gran parte, può al massimo apprezzarne il comunque troppo freddo e – sia pur non smaccatamente – perlopiù fine a stesso virtuosismo formale. Se ne ricava che Nolan, sin lì bravissimo a non sbagliare un colpo, è ormai dai tempi di The Prestige, cioè da undici anni, che non firma un lavoro in tutto e per tutto impeccabile, benché appaia indubbio che quest’ultima sua fatica si dimostri, dal punto di vista sia registico sia intellettuale, molto più coraggiosa non solo dei due episodi conclusivi della trilogia dedicata a Batman, ma anche di Inception, come pure si riveli ben più apprezzabile di Interstellar, l’unica pellicola ad oggi totalmente insignificante che egli ci abbia offerto.