di Antonio Tricomi

Oliver Stone, Snowden (26 novembre 2016)

Il più delle volte così, con Oliver Stone. Puntigliosamente didascalico, inevitabilmente prolisso, il suo tipico film rinuncia a impegnarsi in una reinvenzione drammaturgica o in una traslitterazione metaforica della vicenda storica o di attualità che sceglie di ricostruire e su cui intende scopertamente pronunciarsi. Più che una nota critica o un saggio per immagini, al pubblico è dunque offerto uno zelante riepilogo di informazioni o uno scrupoloso articolo di cronaca: una sorta di bignami di questo o quel capitolo della vicenda collettiva in genere ampiamente conosciuto e perciò del quale la maggior parte degli spettatori ha o dovrebbe avere cognizione pressoché assoluta.

Così, a chi già sa, un film del genere nulla in più dice, risultando, al tempo stesso, scontato perché verbosamente illustrativo, faticoso perché narrativamente ridondante. In chi ancora non sa, invece, è facile susciti scarsa o nessuna curiosità di vederlo. Un po’ perché, se si è deciso fin lì di misconoscere i noti eventi che esso ripercorre, si continuerà, magari, a volerli ignorare. Un po’ perché, se d’improvviso si desidera, viceversa, cominciare ad apprenderli, non è detto si accetti di farlo lasciandosi guidare da un cineasta sia pur onestamente di parte, e quindi da una loro faziosa ricapitolazione pedagogica.

Clint Eastwood, Sully (8 dicembre 2016)

Sobria (ed è un merito, sia culturale sia estetico), archetipica (ed ecco iniziano i problemi, perché non può che rivelarsi insopportabilmente fastidioso, a livello sia etico sia formale, il banalizzante effetto déjà vu che perciò essa genera), tetragona (ma la rigidità intellettuale diviene talora un vizio anzitutto morale) epica protestante all’americana. E comunque, in film come questo, il conservatorismo libertario di Clint Eastwood, varie volte capace di tradursi in incontestabile e ben rivisitata classicità narrativa, si dimostra invece, prima di ogni altra cosa, pura maniera (concettuale e al contempo stilistica) mortalmente noiosa.

Tim Burton, Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali (18 dicembre 2016)

Per un po’, una magnifica favola gotica, dolcemente perversa, allegramente macabra, figurativamente raffinata. Ma poi il film piano piano si perde, s’accartoccia su se stesso, deraglia, letteralmente soffocato da sterili eccessi manieristici e indebiti sovraccarichi tematici che troppo ubbidiscono, gli uni come gli altri, alla sensibilità da sempre squisitamente pop del regista. Che, mantenendosi fedele, una volta di più, all’ossessiva, a tratti persino autistica cinefilia che ne caratterizza la poetica, scommette con nonchalance addirittura esasperante sulla possibilità di far naturalmente (invece che artatamente) convivere rigorosa ricerca autoriale e facili concessioni al circuito mainstream, sobrie memorie hitchcockiane o buñueliane e comode strizzatine d’occhio a Harry Potter o a Titanic, più che congruo desiderio di costruire una sorta di rivisitazione in chiave fantasy di un classico disneyano quale Mary Poppins e commercialmente astuta, insopportabilmente postmoderna ambizione a servirsi, come guscio presunto intellettuale per la propria fiaba, dei più abusati prelievi dal convenzionale discorso pubblico sull’Olocausto.

Niente da fare. Solo per tre quarti d’ora Miss Peregrine ci illude che, per Burton, siano tornati i tempi di Edward mani di forbice, Big Fish, La fabbrica di cioccolato, Sweeney Todd.

Martin Scorsese, Silence (14 gennaio 2017)

Prima il difetto, che è di drammaturgia ma non è tale da rendere narrativamente incongruo il film.

All’inizio, il racconto prevede una duplice focalizzazione interna, perché sono appunto due i giovani gesuiti mossisi alla volta del Giappone, nel 1633, alla ricerca del loro maestro spirituale, che si rifiutano di credere colpevole di apostasia. E, per un po’, i tragitti anzitutto interiori dei due sacerdoti corrono in parallelo, sicché lo spettatore immagina che il film li seguirà fino in ultimo entrambi. Invece, non sarà così: di uno dei religiosi perderemo a un certo punto le tracce. Solo molto tempo dopo lo ritroveremo, ma senza che il regista ne abbia frattanto esaminato, come non manca di fare per l’altro, sia l’evoluzione psicologica, sia le acquisizioni culturali.

Questa dissimmetria nell’intreccio rende un tantino sghembo l’ordito diegetico del film e, appena lo spettatore si vede costretto a coglierla, fa d’un tratto apparire indebitamente rallentato il tempo interno della narrazione e paradossalmente lacunoso il racconto. In pratica, se Silence intende ricostruire la storia essenzialmente di un’anima, cioè la specifica vicenda, però considerata più di altre paradigmatica, di uno dei due gesuiti che ci spiega essersi recati in Oriente, allora avrebbe dovuto, fin dal principio, eleggere costui a fulcro dell’intera narrazione, mostrandoci, del percorso vissuto dal secondo religioso, solo gli elementi strettamente indispensabili alla caratterizzazione del personaggio principale. E ciò avrebbe non di meno dovuto fare, già dall’inizio e magari sino alla fine, in forma sintetica ma non elusiva, dunque in maniera sia più incisiva sia costante, evitando che, sulla traiettoria esistenziale di quello sparring partner del protagonista innanzi a cui quasi in ultimo ci si ritrova, si aprissero eccessivi buchi informativi per lo spettatore. Il quale, valutata la gestione della macchina narrativa scelta dal regista, può quindi giudicare ridondante l’attenzione che quest’ultimo per un po’ dedica allo sguardo sul mondo di un personaggio, appunto il secondo gesuita, non del tutto tridimensionale giacché ridotto alla sua funzione logicamente ancillare rispetto a un protagonista di cui si rivela una sbiadita copia in minore, non già un alter ego sino in fondo, e utilmente, complementare. Di riflesso, il pubblico è anche in diritto di ritenere non troppo proficuamente speso, e allora non con pieno costrutto dilatato, il tempo in cui il racconto si preoccupa di scrutare la percezione del reale non di un deuteragonista, ma di un semplice comprimario.

Son però dettagli e nulla più, perché Silence appartiene, con ogni probabilità, al novero dei grandi film ed è, senza dubbio, tra le opere migliori di Scorsese. Non il suo capolavoro, ma forse, almeno fin qui, il suo vero manifesto intellettuale, ancor prima che una sorta di precoce testamento spirituale.

In maniera oramai quasi sistematica, in Occidente, i percorsi formativi patiscono un tale processo di semplificazione da produrre sempre meno individui, sempre più tipi umani. La complessità del pensiero è inibita perché culturalmente screditata: le si imputa infatti miticamente un’inaccettabile, e irredimibile, sterilità sociale. L’unico orizzonte etico realmente ammesso prevede, sia pur in un’epoca che si definisce orgogliosamente post-ideologica, la riduzione del discorso religioso a fanatico oltranzismo identitario e – come un tempo, ossia in non più contraddittorio abbraccio con tale deriva, a tutti gli effetti settaria, di una solo repressiva retorica tradizionalista – la celebrazione, pressoché incondizionata, delle più spietate logiche, sedicenti progressive, di matrice liberista.

Per il tema che affronta e, ancor più, per come lo tratta, Silence corre dunque il rischio di apparire un film inattuale: un’opera – letteralmente – d’altri tempi. Descrive infatti alla stregua di un rapporto, se vuol conservarsi autentico, irriducibilmente tragico quello non già di una caricatura d’uomo, e invece di un soggetto consapevole, culturalmente formato, con una fede – in Dio, certo, ma anche, in termini più generali, in un ideale – concepita non come agevole, irriflessa mascheratura sociale o esclusivo, assoluto diritto al proselitismo, bensì quale controverso, inesauribile tragitto di costruzione del sé e disponibilità a scorgere nelle altre confessioni o utopie lo stesso anelito alla verità, e quindi interlocutori addirittura privilegiati, utili anche a verificare la plausibilità o i risultati della propria ricerca morale. Da una parte, giacché la fede – anzitutto questo il film ci spiega – non è un saldo possesso, ma un traguardo cui risulta esclusivamente possibile avvicinarsi; pretende di essere costantemente sottoposta, da ciascuno secondo le proprie aspirazioni intellettuali, alla prova del dubbio e, di momento in momento, si offre allora, per ognuno in maniera differente, quale ipotesi di verità solo plausibile, sempre da verificare. Dall’altro lato, perché essa dunque appare una faticosa rincorsa in primo luogo soggettiva del senso che, per risultare sino in fondo e sinceramente vissuta, non può mai accettare di essere integralmente socializzata, vale a dire ridotta a mera codificazione rituale, a precettistica, a sensibilità etico-civile pienamente condivisa: destina cioè l’individuo a un’intima, ossessiva interrogazione, perlopiù solitaria, del proprio patrimonio culturale, dei propri principi morali.

La fede, specificamente religiosa, quale Silence la ritrae, corrisponde perciò al Secretum di petrarchesca memoria: a un’inquietudine esistenziale e a un conflitto identitario che il soggetto non deve sforzarsi di estinguere, ma tradurre nel proprio sguardo sul mondo, sull’altro e, ancor prima, su se stesso. In un’era tornata indegnamente a pascersi di concetti quali “guerra di religione” o “scontro di civiltà”, Scorsese rilancia allora una classicamente moderna interpretazione dell’ubbidienza a Dio che – proprio perché la giudica un tormentato cammino precipuamente introspettivo e, in tal senso, un’esperienza a tal punto individualizzante da risultare perlopiù inalienabile in una qualche narrazione anzitutto comunitaria – si prefigge l’obiettivo di delegittimare culturalmente ogni riduzione della fede a pretesto o strumento sia di ulteriori conquiste coloniali, sia di sanguinarie crociate contro supposti miscredenti.

Ciò non vuol dire affatto che il cineasta inviti al nicodemismo o al sincretismo. In quanto lacerazione interiore persino inesprimibile, la fede di un uomo – la sua autenticità o, viceversa, la sua inconsistenza – non può essere pienamente valutata se non da chi la nutre o tradisce, perché egli soltanto ne conosce l’intensità o, al contrario, la vacuità. In altre parole, chiarisce Scorsese, essa non può mai essere misurata dall’adesione del singolo a questa o quella dottrina, a questo o quel cerimoniale pubblico, giacché la fede non si esaurisce, per l’appunto, in una serie di norme da rispettare formalmente. Al tempo stesso, però, ogni culto che si accetti di praticare è in condizione di rafforzarla nell’inattingibile foro interiore di chi la nutre, se lo si intende non già quale contenuto intrinseco e manifestazione dogmatica del credo di cui si vuol mantenersi degni, ma come esercizio spirituale comunque utile a disciplinare e a rendere dialogica, cioè parzialmente intelligibile all’esterno, la propria addirittura angosciosa indagine morale.

Non è la chiassosa rivendicazione di una superiorità, etica e civile, su quanti non ne hanno alcuna o ne coltivano un’altra. Neppure è, allora, il frastuono delle armi impegnate in una conquista militare o il rumore sordo che accompagna le imbelli strategie di dominio di una però asfittica volontà di egemonia socioculturale. Per Scorsese, ogni fede realmente degna di tal nome è in prima battuta silenzio. Quello di chi, magari in disparte, cerca la verità anzitutto nel proprio segreto.