Chi ha interpretato Sottomissione (Milano, Bompiani, 2015) come un greve romanzo provocatoriamente islamofobo, o addirittura alla stregua di un qualunquistico pamphlet anti-islamico, ha in larga misura letto un libro che poco ha da spartire con quello effettivamente licenziato da Michel Houellebecq e contraddistinto da ben altri, reali difetti. Esploriamo subito il primo: il testo non brilla né per levigatezza formale né per scrupolosa abilità nella costruzione di un pur volutamente minimale intreccio, rivelandosi in tal modo esangue, e anzi trasandato, sotto l’aspetto stilistico; noioso, ripetitivo e quindi, per paradosso estremo, prolisso dal punto di vista squisitamente narrativo; incapace, perciò, di strutturarsi su un’autentica complessità concettuale e di esprimerla. Si potrà magari obiettare che un simile impianto complessivo è scientemente elaborato da Houellebecq perché, rispecchiandola, dia conto della normale mediocrità dell’io narrante, e che allora esso non rappresenta il limite principale di Sottomissione, bensì l’orma stessa e il significato ultimo del suo equivoco messaggio. In parte, le cose stanno esattamente così, ma l’impressione è che tale sforzo di adeguamento sia della macchina narrativa sia dell’ispirazione letteraria all’intrinsecamente comica banalità esemplare del protagonista del romanzo abbia finito col prendere la mano all’autore, spingendolo sulla cattiva strada di una semplificazione delle istanze psicologiche e delle valutazioni socioculturali troppo marcata finanche per chi voglia raccontare, con ormai sfinito e non più polemico piglio grottesco, una storia di ordinario conformismo individuale e collettivo, come pure pronosticare, con vena solo nichilisticamente umoristica, un futuro di altrettanto convenzionale e opportunistico allineamento dei soggetti e delle masse a inviolabili stili di vita nei quali nessuno saprà riconoscere il tramonto stesso della civiltà .
Ogni opera narrativa di Houellebecq va giudicata un romanzo-saggio incline a risolversi in un libro a tesi, perché ai suoi personaggi e alle loro contraddizioni, alle sue maschere e alle loro aporie, alle diverse situazioni narrative tutte, lo scrittore francese chiede sempre di incarnare e dimostrare i propri assunti di partenza. Quando, come in Estensione del dominio della lotta e nelle Particelle elementari, cioè nei suoi indubbi capolavori, sia la tridimensionalità delle proprie controfigure e della maggior parte dei loro interlocutori, sia l’articolazione generale della cornice romanzesca non risultano sacrificate a tale volontà di messaggio diretto, e anzi riescono a sfumare, a rendere proficuamente problematiche le diagnosi intellettuali fin dal principio concepite dall’autore quali intrasgredibili moventi originari dell’invenzione letteraria, egli sa offrirci morbosi apologhi neri sulla società contemporanea talvolta irritanti, giacché sempre in bilico tra compiaciuto cinismo e narcisistico piacere dell’autoderisione, ma immancabilmente acuti appunto perché disinibiti, e addirittura generosi, nel dichiarare senza reticenza alcuna quella che ritengono essere la verità sul nostro tempo o credono sia la sorte che ci aspetta. Quando, come avviene tendenzialmente in Piattaforma, la struttura romanzesca non è invece capace di riassorbire e correggere la spinta stessa che la determina, cioè questa sorgiva predisposizione dello scrittore a valorizzare la sua dirompente faziosità intellettuale attraverso le proprie opere di fiction o auto-fiction, e anzi si lascia meccanicamente ridurre a incongruo pretesto espressivo di tale spudorata attitudine immediatamente assertiva, Houellebecq si rivela un autore a tratti persino fastidioso, non tanto per quel che afferma ma per come lo afferma, ossia trascendendo, e talvolta addirittura sacrificando, il congegno testuale proposto al pubblico. In sostanza perché, non volendo del tutto rinunciare ad essa, finisce allora col difettare in rielaborazione letteraria, che poi anche significa – almeno se la nostra analisi è giusta – in puntuale delucidazione argomentativa e in rigorosa verifica della plausibilità delle proprie disamine critiche.
Limiti che, per quanto essi risultino libri imperfetti, sarebbe ingeneroso imputare tout court a romanzi quali La possibilità di un’isola (farraginoso ma interessante) e, in special modo, La carta e il territorio (discontinuo e tuttavia impreziosito da numerosi spunti davvero notevoli). Limiti, casomai, che, oltre al prescindibile Lanzarote (diario di viaggio camuffato con eccessiva fretta da racconto), rischiano costantemente di contraddistinguere l’attività poetica e quella saggistica dello scrittore, entrambe inclini a convertirsi in viscerale sfogo dagli accenti talora persino denigratori e autodenigratori. Sicché, mentre Il senso della lotta appare un volume di liriche dall’irruenza incontenibile ma non gratuita e H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita si rivela una ricognizione certo personale e però non arbitraria dell’opera del narratore statunitense, quello zibaldone di versi, noterelle polemiche, interviste, prose di varia natura pubblicato in Italia con il titolo La ricerca della felicità , dopo aver in esso accorpato altre opere poetiche ed esplorazioni critiche di Houellebecq, sembra appunto avere, come autentico filo conduttore, l’irascibilità che segna troppo spesso unilateralmente questa specifica vena espressiva dell’autore di Sottomissione. Testo che, dal canto suo, non denota la fragilità di Piattaforma, cui pure può essere in parte accostato, proprio perché, come detto, non si risolve in una scomposta tirata anti-islamica.
In un futuro oltremodo prossimo, il 2022, Houellebecq immagina una Francia, e a breve un’Europa, spontaneamente affidatesi, o sul punto ormai di consegnarsi, a partiti islamici moderati la cui egemonia politica, conquistata democraticamente e supposta in grado di mantenersi stabile nel tempo, traghetterà il Vecchio Continente verso un nuovo medioevo, estirpando qualsiasi residuo di «secolarismo», «laicità », «materialismo ateo» dalle coscienze individuali e ripristinando una sessista società patriarcale che ritenga la famiglia la propria «cellula di base», ossia un’impresa finanziaria e un’autonoma istituzione educativa invariabilmente fondate su un «matrimonio d’interesse» e totalmente orientare alla «trasmissione di una conoscenza e un patrimonio». Una società , tra l’altro, in cui il vorticoso calo del numero dei disoccupati si spieghi con l’«uscita in massa delle donne dal mercato del lavoro», resa a propria volta possibile dalla «notevole rivalutazione dei sussidi familiari»; la «drastica diminuzione degli stanziamenti per il ministero della pubblica istruzione» sia il risultato di una contrazione dell’obbligo scolastico ai dodici anni, della volontà di incoraggiare «l’indirizzo dell’artigianato» per chi superi quell’età e della scelta di affidare per intero ai privati il «finanziamento dell’istruzione secondaria e superiore»; gli individui sappiano scorgere nella «sottomissione dell’uomo a Dio come la contempla l’Islam» l’unica vera opportunità concessa loro per tollerare senza angoscia, e anzi per ritenere devotamente legittime, le ineludibili differenze di classe, quella dei musulmani essendo l’unica fede che «accetta il mondo, e lo accetta nella sua integrità , accetta il mondo così com’è». Infine, una società che, dopo aver pacificamente convinto i cattolici tutti «a fare un passo in più, a convertirsi all’Islam» – ritenendoli non dei nemici ma, in quanto credenti, degli alleati nella lotta contro ogni sopravvissuta traccia di laicismo che vanno semplicemente indottrinati –, aspiri ad estendersi all’intero mondo, prendendo sì a modello «l’impero romano», e però anche ispirandosi politicamente a quella «cristianità medievale» capace di durare «oltre un millennio».
Ebbene, chiunque abbia letto La carta e il territorio ricorderà certamente che già in quel romanzo, pur senza ipotizzare la conversione del proprio Paese all’Islam, Houellebecq prefigurava una Francia della metà circa del xxi secolo ridottasi a tribale società agricola. Ecco allora in che senso Sottomissione appare un libro non sulla reale o presunta minaccia fondamentalista di matrice islamica che grava o graverebbe sul Vecchio Continente, ma, come del resto le opere tutte dello scrittore, una riflessione beffardamente spietata, e anzi atarassicamente apocalittica, su quella che egli giudica neppure più la crisi irreversibile, bensì l’avvenuta catastrofe della civiltà europea e, per estensione, occidentale. Tant’è che il testo immagina appunto un naturale abbraccio tra fede musulmana e società francese: connubio in cui il trionfo della prima si dimostra il più chiaro segno della morte della seconda. Che sembra cercare – ormai ossessivamente – un padrone qualunque in grado di imbalsamarne il cadavere e che finisce col trovarlo nell’Islam per certi versi incidentalmente, ossia non tanto in conseguenza di un’autentica, incontenibile capacità di penetrazione dimostrata da quel sistema culturale, quanto perché, nella situazione data, esso risulta il sovrano migliore, cioè quello potenzialmente assoluto, a chi segretamente ambisce a mutarsi in un parimenti incondizionato, sacrificabile o già eclissatosi suddito volontario. Constatazione che implica un’ulteriore lettura del libro di Houellebecq.
Chi in Europa paventa una concreta minaccia musulmana, e magari auspica una reazione più o meno preventiva ad essa, di solito imposta la questione in due modi. Scorge nel presunto disegno di conquista che giudica elaborato dal mondo islamico una guerra anzitutto mossa ai processi di occidentalizzazione, e dunque al modello di secolarizzata società capitalistica egemone non soltanto nel Vecchio Continente, sicché crede non più rinviabile una consapevole partecipazione a quello che considera uno scontro di civiltà inaugurato dall’avversario. Oppure riconosce nella supposta offensiva islamica in primo luogo un attacco alla cristianità , per cui invoca una pronta risposta nel quadro di una guerra di religione che, anche in tal caso, reputa scatenata dal nemico.
Houellebecq può trattare in altra maniera il problema, e spingersi a ipotizzare una sottomissione del Vecchio Continente all’Islam che sia non il risultato di una sconfitta militare ma una scelta autonoma, perché pensa non esistano più le due anime dell’Europa che tale battaglia dovrebbero eventualmente voler combattere. A parer suo, nell’Occidente tutto, se «il comunismo» è percepito da decenni come un’opzione non più sostenibile neppure sul piano meramente teorico, si nota infatti già da tempo anche la paralisi della «democrazia liberale». E, quanto al rapporto degli europei col sentimento religioso, essi appaiono tutti né davvero atei né sinceramente devoti: «la maggior parte della gente vive la propria vita senza preoccuparsi» delle questioni di fede, che ritiene «troppo filosofiche» e cui gli individui «pensano solo quando si trovano di fronte a una tragedia – una malattia grave, la morte di una persona cara».
Ne discende – dimostra di credere l’autore francese – un Vecchio Continente abulico, perfettamente rispecchiato dall’ignavia della voce narrante di Sottomissione, e che allora, proprio come il protagonista del libro, percepisce di non poter più chiedere ad alcune delle tradizioni di cui è figlio, da quella liberale a quella cristiana, di soddisfare per intero il già socialmente riconoscibile, e anzi egemone, desiderio di massimalismo posticcio che lo pervade. In sostanza, se islamofobia c’è nel testo di Houellebecq, essa è un’altra forma del disprezzo che egli nutre per l’odierna società europea, che gli si rivela già , al netto di ogni autorappresentazione di segno contrario, molto simile, o addirittura identica, a quella vagheggiata – almeno secondo lui – dalla fede dei musulmani: autoritaria, tribale, liberticida, sessista. Non per nulla, lo scrittore sembra volerci parimenti suggerire che l’asservimento della donna all’uomo previsto dall’Islam e la poligamia da questo ammessa costituiscono oggi, a livello tanto simbolico quanto sociale, non un clamoroso e intollerabile rigetto, ma la perversa esibizione e il potenziamento esponenziale dell’effettivo statuto dell’universo femminile in un Occidente forse mai del tutto affrancatosi dalla propria tradizione fallocentrica, nel senso che resta in esso dominante quella dittatura del desiderio maschile che, non solo sul piano dell’immaginario, trasforma sia i corpi sia le identità culturali delle esponenti dell’altro sesso in merci o fantasie destinate all’insaziabile, e perciò violento giacché frustrante, godimento pseudo-virile: appunto, la dottrina ispirata al Corano si limita a rendere esplicita e a legittimare, istituzionalizzandola, tale dinamica. Potremmo così affermare che Sottomissione ambisce a descrivere il presente dell’Europa traslitterandolo in un futuro che di esso risulti l’immagine appena distorta, lievemente esagerata, perché nell’ottica di Houellebecq, senza dubbio estremistica, abitiamo già un mondo che abbiamo provveduto noi stessi a rendere latentemente islamizzato e in cui il nemico apparente, e anzi dichiarato, è – in verità – la nostra più credibile controfigura. Il miglior interlocutore cui chiedere di aiutarci a realizzare l’empio, inconfessabile progetto che ci guida: allestire, tramite lui, il nostro incruento suicidio per procura.
Ha poco senso discutere della plausibilità in sé della precisa immagine dell’avvenire che Houellebecq ci consegna, proprio perché – almeno se l’analisi del romanzo fin qui condotta è giusta – egli sembra il primo a non considerare punto per punto e in quanto tale verosimile lo specifico scenario futuro che offre al nostro giudizio, il suo scopo essendo principalmente quello di celare in siffatta narrazione distopica un esasperato, paradossale ritratto della condizione odierna dell’Europa. E che, forse neppure troppo al di là della calcolata deformazione del presente inscenata dal testo, il Vecchio Continente viva oggi un profondo sconquasso, oltre che economico, anche etico-culturale – da cui traggono linfa sempre nuova una sorta di strisciante paura della fine, nichilistiche attitudini alla cieca sottomissione ad autorità quali che siano, conformistici rigurgiti sia identitari sia confessionali sia razzistici – lo confermano i non pochi indizi che ciascuno di noi può giornalmente ricavare dalla propria esperienza o dalla cronaca. Uno su tutti, l’indifferenza dell’Europa verso l’ecatombe che si sta consumando nel Mediterraneo e innanzi alla quale essa dimostra di non saper essere né un vero soggetto politico, né una comunità che desideri affrancarsi per sempre dal suo turpe passato coloniale riuscendo finalmente a proporsi come autentico progetto culturale e di civiltà .
Ciò detto, se volessimo in ogni caso dibattere l’ipotesi di una futura società europea spontaneamente consegnatasi all’Islam, dovremmo con tutta probabilità reputarla assurda. O almeno precisare che essa è inevitabilmente destinata ad apparire tale a chi abiti quel Paese scristianizzato senza essere secolarizzato che è l’Italia. Ove può accadere di imbattersi, nella sala professori di un liceo, in un insegnante, peraltro non di religione, il quale affermi di ritenere di doversi mantenere ligio, appunto in quanto educatore e nello svolgere il proprio mestiere, non ai valori della carta costituzionale, ma ai precetti contenuti nel Vangelo, e che rimuovere il crocifisso dalle pareti delle aule scolastiche significherebbe misconoscere, in verità solo per vigliaccheria, che la fede cattolica è superiore alle altre ed è quindi un culto cui iniziare gli studenti atei e – soprattutto – quelli musulmani per renderli cittadini migliori, individui felici: insomma, per salvarli.
Il protagonista di Sottomissione, un docente universitario che si convertirà infine all’Islam per semplice acquiescenza e puro calcolo, non ha dubbi: «Nietzsche, con il suo fiuto da vecchia bagascia, aveva visto giusto: in fondo, il cristianesimo era una religione femminile». Benché il filosofo fosse probabilmente nel giusto, non è lecito tuttavia dedurne, come la storia è del resto lì a dimostraci, una qualche intrinseca predisposizione di quella fede alla non belligeranza o ad accettare con rassegnata disciplina la sconfitta nella contesa per l’egemonia simbolica coi monoteismi rivali. Quello che a un italiano ogni giorno di più sembra di dover avvertire, soprattutto a casa propria e poi anche in diverse altre terre d’Europa, è allora l’isterica recrudescenza di un identarismo cristiano a maggior ragione pericoloso giacché conformistico e scopertamente politicizzato, ossia in larga parte assimilabile, in società multietniche, a un puro riflesso condizionato prodotto dall’assiduo contatto forzoso con un’alterità culturale, ancor prima che religiosa, percepita in quanto tale ostile pure quando senza ambiguità pacifica, da cui dunque ci si giudica a priori minacciati e contro la quale si affilano di conseguenza le armi.
Sfibrato dalla propria esistenza di «esteta misantropo e solitario», lo scrittore studiato dall’io narrante di Sottomissione, Joris-Karl Huysmans, opta a un certo punto «per l’esotismo più radicale della divinità », torna «nel grembo della chiesa» diventando oblato, si dedica alla stesura di libri dai quali trapela «la sua dilezione estetica e quasi carnale per la liturgia cattolica» ma in cui non si fa «riferimento alle questioni metafisiche». Abbracciando la fede islamica, il protagonista del romanzo di Houellebecq, sfinito dalla propria vita di sessuomane placidamente inappagato, mira a fare una scelta che ricalchi quella compiuta dall’autore di À rebours: non già ripudiare il suo voluttuoso dandismo ormai decadente, ma offrirgli «una nuova opportunità ». È logico supporre che, per proteggere la loro nichilistica pulsione autodistruttiva, gli europei inclinino oggi a imitare il comportamento di Huysmans, non quello del suo interprete.