Diario napoletanodi Mario Pezzella

Trent’anni dopo Mani sulla città, nel 1993, La Capria (sceneggiatore) e Rosi (regista) ne hanno girato un sequel documentario: la continuità è dichiarata fin dall’inizio, con una ripresa aerea di Napoli, che si ricollega a quella celebre del primo film1. L’immensa panoramica sulla speculazione edilizia vecchia e nuova si conclude alle Vele (allora non famose quanto oggi), dove atterriamo, per così dire, dalla visione d’insieme dell’elicottero.

Nella sequenza che segue, una fila di ragazzini lazzari e plebei, dediti allo spaccio e al furto, sono interrogati da un poliziotto, con fare civile, quasi da assistente sociale. Tra l’interrogante e gli inquisiti c’è un abisso incolmabile di incomprensione. Alla sollecitudine illuminista dell’uomo della legge, gli altri rispondono con frasi fatte, evidentemente prefabbricate, senza nascondere l’aria di scherno stampata in faccia. Ripetono i loro clichés difensivi, con tono di sfida (quasi a dire: vediamo se sei così fesso da crederci; un po’ come i “selvaggi” Dogon che – secondo M. Griaule – recitavano la sceneggiata etnologica, attesa e richiesta dall’“esperto” occidentale). Non usano la lingua per comunicare: il loro dialetto vagamente italianizzato è una concessione derisoria alle istituzioni, ma è soprattutto la maschera del loro silenzio reale, di fronte al poliziotto “buono”, per loro irriducibilmente estraneo. Più delle parole dice la fisiognomica dei volti. Rosi li riprende in primo piano, uno dopo l’altro, accomunati da una lontananza inespressiva, da una remota radice, difesa arcaica e indifferente a ciò che sta avvenendo. Pietrificati in assenza di storia, come immersi in un mimetismo inconsapevole con l’ambiente, che li renda invisibili ai colpi predatori.

Il raccordo della prospettiva aerea sulla speculazione edilizia con la sequenza alle Vele sottolinea la complementarità tra l’essere immobile della plebe e la distruttiva “mezza modernità” della classe dirigente che ha messo a sacco la città. È la domanda che attraversa il film: come è stata possibile questa resa del linguaggio? Quale ottuso potere ha tracciato un solco così grande tra gli esclusi e i profittatori, rendendo i primi facili prede del sistema criminale? Lo spazio urbano è protagonista in questo film di Rosi, ancor più che in Mani sulla città. I protagonisti sono qui palazzi, quartieri, stili, e ognuno di loro asserisce nella sua materialità uno spazio sociale, un’intenzione, una visione della quotidianità. Come diceva Benjamin per i passages di Parigi, nell’architettura si incarna l’immagine di sogno di un periodo storico; certo, il sogno può essere incubo e deformazione e rivelare, molto più che un desiderio di felicità, una patologia e un delirio.

Le architetture sono espressive come fisionomie. Così, per esempio, emergono simili a due nodi metaforici dissonanti le Vele e i grattacieli del Centro Direzionale, commentato e descritto con ironia da Bruno Zevi: una letterale insensatezza rispetto alla tradizione urbanistica della città. Il quartiere, così com’è, corrisponde matericamente a quella mezza-modernità amputata e monca, che Rosi e ancor più La Capria individuano come il male profondo di Napoli: sorge su un terreno inadatto, è recluso nella sua separatezza, non ha adeguate vie di comunicazione e servizi. Costituisce in tal modo il pendant borghese e sviluppista delle Vele: come queste esprimono la scissione e la chiusura in se stessi dei quartieri plebei, così i grattacieli del Direzionale sanciscono l’esclusività delle funzioni “borghesi”. Nessuna idea di città favorisce la comunicazione dei diversi strati sociali, se ne consacra anzi l’inevitabile ostilità.

Anche il passato mitico, la cosiddetta «armonia perduta» di La Capria, assume una configurazione spaziale, più che temporale o storica: quella dei palazzi e dei giardini del Settecento, aggrediti dalla decadenza. In una sequenza vediamo Rosi e i suoi assistenti percorrere il Miglio d’Oro, una strada che da Portici conduce a Napoli, ai cui lati sorgevano in fila le grandi ville aristocratiche del Settecento. Si procede in auto a passo d’uomo, in un caos di uomini e di cose. Alcune ville conservano solo una labile traccia della decorazione neoclassica, oltre la frana dell’intonaco. Di passaggio, la macchina da presa inquadra alcuni superstiti viali e giardini interni, invasi da una vegetazione ormai selvaggia. Un’immagine-quadro ci mostra dal basso verso l’alto un palazzo diviso dal caso in due metà precise: quella superiore è intatta o restaurata, quella inferiore cade a pezzi. Sorprendente è anche un ingresso maestoso, in pietra, con un cancello tra due alte colonne: dietro di esso il nulla, un’apertura sul vuoto. Il palazzo non esiste più. Sullo sfondo gli amorfi condomini anni sessanta, minori imitazioni della speculazione edilizia del Vomero.

In una sequenza scorrono inquadrate dal mare le fatiscenti ville di Posillipo, una dopo l’altra, simili al Palazzo Donn’Anna, immortalato da La Capria nel suo Ferito a morte. Anch’esse cristallizzazione architettonica del desiderio, di un accordo fra la natura e la storia, che la «mezza modernità» ha reso impossibile. Con un significato non troppo dissimile, Rosi ci mostra in montaggio alternato le figure parietali delle ville romane di Pompei e i corpi pietrificati dalle ceneri dell’eruzione, creando l’illusione – in alcuni casi – di una somiglianza tra i volti dipinti e quelli delle vittime. L’intera sequenza è metafora molto lacapriana di una vita splendida e fiorente, immobilizzata e sottratta alla storia.

Nel documentario appaiono uno smarrimento e un rimpianto, che in Mani sulla città erano sormontati dall’acceso intento di denuncia. In Diario napoletano invece una insopprimibile inclinazione malinconica dev’essere contrastata ogni volta, non senza fatica, da un soprassalto di ironia e di spirito critico. Come si comprende dal dibattito ben intenzionato, ma in fondo inutile, che si svolge – nella prima parte del film – alla Facoltà di Architettura, in trent’anni la ferita interna della città non ha fatto che divenire più intensa.

Frammenti di telegiornale ci informano degli eventi di quei mesi, nei quali Diario napoletano è stato girato. Siamo nell’Italia in cui vengono uccisi Falcone e Borsellino, ed è iniziata la stagione di Mani pulite e se ne attende l’arrivo anche a Napoli. Momento-crinale, in cui si aspetta e si richiede un cambiamento profondo, come dicono i più giovani presenti al dibattito (tra di essi Mario Martone). Un cambiamento che non avverrà: e questo nostro sapere retrospettivo accentua la tonalità malinconica del film.

Plebeizzazione e modenizzazione selvaggia procedono complementari, fino a quell’estremo che poi è stato descritto da Saviano e da Garrone in Gomorra. Le masse popolari sono recluse nel recinto dell’inespressivo ed escluse dalla vita del centro, in una separazione spaziale che le consegna al codice della camorra. Su questo sfondo assumono rilievo le fotografie di Mimmo Iodice che mostrano i bambini destinati all’esclusione. La criminalità organizzata si sviluppa a partire dall’estraniazione della plebe alla propria città, che ricalca quella sociale, in una struttura urbana che tende a creare microzone scisse l’una dall’altra, invece che spazi di interconnessione e riconoscimento: «Il conflitto urbano è lo scontro tra la visibilità permanente del centro, il suo aver luogo continuamente ridefinito mediante una prestazione retorica che ne esalta le manifestazioni, e l’altro, lo spazio oltre la città, la metropoli che apparentemente esiste solo nelle note a margine dei discorsi centrali, sito senza materia se non per chi lo abita (gli inesistenti spettrali)»2.

Nel film sono incastonate alcune sequenze tratte da film precedenti di Rosi, che non sono semplici autocitazioni o un’antologia personale. Estratte dal contesto originario e montate in quello nuovo, esse assumono un diverso significato. Le immagini di Mani sulla città, trent’anni dopo, nel loro raccordo con quelle del documentario, intensificano la percezione di una storia pietrificata, dominata dalle stesse e sempre uguali forze speculative.

La sequenza da Cadaveri eccellenti (nell’originale il funerale di uno dei giudici uccisi), mostra il lento funereo corteo della classe dirigente in Piazza del Gesù a Napoli; la fissità impietrita dei volti, maschere barocche sostanziate di nulla, la marcia fintosolenne della banda militare, il carro funebre gigantesco impennacchiato di bianco e di nero, i vestiti togati e cerimoniali indossati da giudici, militari e politici in piena parata, sono la metafora realizzata di un potere vacuo e insieme governato da un’ irrevocabile pulsione di morte.

Il documentario si conclude con una sequenza tratta da Lucky Luciano, che rievoca il formarsi dell’organizzazione della camorra a Napoli nel dopoguerra e le sue ragioni: la collusione degli occupanti americani con la criminalità organizzata, la protezione accordata alla classe dirigente ex fascista e poi laurina, la disgregazione di ogni tessuto comunitario della plebe della città, che la destina a diventare manodopera della camorra.

Montate in momenti cruciali di Diario napoletano, le tre sequenze delineano una genealogia, una storia del potere a Napoli, tra paternalismo populista e fantasiosa arroganza: in un filo continuo che procede dall’immediato dopoguerra, agli anni laurini, a quelli dominati dalla Democrazia cristiana e dai socialisti. Il boss Genovese che annuncia provvedimenti populistici a favore della plebe napoletana e si prepara a sfruttarla senza alcun limite ha l’esemplare gestualità e la retorica, che ritroveremo nei caudillos dei periodi successivi.

Alla fine, il film si conclude con un’ennesima, amara versione della napoletanità, come la intende La Capria: mancano le luci in sala, durante una conferenza, proprio quando parla Carlo Fermariello, il protagonista di Mani sulla città. «Non ci deprimiamo – dice qualcuno – non ci svalutiamo: succede anche a New York». E tutto il pubblico colto e politicizzato defluisce a mangiare una pizza.

Nota sulla città porosa. Nello stesso 1992 in cui esce il film, viene anche pubblicata La città porosa, un libro di interviste su Napoli: il contesto e i temi sono simili a quelli affrontati nel documentario da Rosi e La Capria, soprattutto negli interventi di Francesco Venezia e Massimo Cacciari. Cos’è la porosità di cui parla il saggio di Benjamin? Innanzitutto – sostiene F. Venezia – è una comunicazione verticale che caratterizza l’architettura della città, e che lega il suo strato ctonio e sotterraneo a quello alto e luminoso: «Se tracciamo una sezione ideale, abbiamo l’edificio, il pozzo del cortile e la cava sottostante. […] Quello che in quasi tutte le città del mondo è traslato, trasferito, a Napoli vive in una coincidenza assoluta»3. Questa prossimità dello ctonio e del solare, nota anche Cacciari, è poi una caratteristica di architetture inconfondibili, in cui assume un significato allegorico, come le Catacombe di San Gennaro o la Piscina Mirabilis.

Per Benjamin la porosità è una caratteristica dell’architettura della città, che riflette la sua «ritmica comunitaria» e si trasferisce nella sua struttura materiale. Come i passages di Parigi esprimono materialmente la modernità capitalista, allo stesso modo i porosi edifici napoletani la resistenza della sua Gemeinschaft premoderna: «Si evita ciò che è definitivo, formato. Nessuna situazione appare come essa è, pensata per sempre, nessuna forma dichiara il suo “così e non diversamente”»4. Benjamin non ignora certo i lati negativi e talvolta esasperanti di questo modo di essere: per esempio, già allora «le chiese non si riescono a trovare, la scultura più rinomata è sempre nell’ala del museo chiusa al pubblico» ed è molto difficile convocare un convegno di filosofia: «Prostrati, in segreteria comparivano gli invitati ai quali in quattro e quattr’otto erano stati sottratti soldi e documenti»5.

Porosità c’è anche tra vita privata e vita pubblica, una caratteristica che Benjamin ritroverà curiosamente simile nella Mosca post-rivoluzionaria, mentre i mercati, nella loro struttura diffusa e ancora incertamente controllata dal capitale dei grandi magazzini, conservano il movimento e l’imprevedibilità del suk o del bazar delle città orientali. L’ interno delle case è spesso miserabile, ma paradossalmente questo porta a una vitalizzazione delle piazze e delle strade, che conferma la “ritmica comunitaria” della città: «Come l’ambiente domestico si ricrea sulla strada, con sedie, focolare e altare, così, solo in maniera molto più chiassosa la strada penetra all’interno delle case. […] Anche qui compenetrazione di giorno e di notte, rumori e silenzio, luce esterna oscurità interna, di strada e di casa»6.

Per Cacciari, almeno il Cacciari del 1992, questa struttura premoderna, plebea e comunitaria non va distrutta in nome di un’astratta modernità, e neanche del resto va mantenuta così com’è, nel degrado che l’ha sempre più colpita: bisognerebbe dare a essa voce e articolazione propria, rispettarne le caratteristiche, immaginando un modello di «città mediterranea», «Napoli e Palermo vanno reimmaginate, reinventate, riprogettate nell’ambito di quella specifica dimensione europea che è l’ecumene mediterranea». Se questo non avvenisse, si avrebbe solo un’«Europa franco-tedesca, “carolingia”, cioè un’Europa “fredda”, monca, un’Europa incapace di essere ponte, di avere rapporto, di concepire apertura nei confronti dell’altro»7. Ciò è accaduto, si potrebbe oggi dire. Il sogno di un’armonia originaria perduta, presente in La Capria, rinvierebbe in tal modo non a un’imitazione di modelli esterni, delle città nord-europee, ma all’«invenzione di una vita comunitaria su suolo europeo»; dunque a un’alternativa al corso canonico e capitalistico della modernità verso la Gesellschaft e il trionfo del dominio reale del capitale, rifiutando l’unilateralità e l’irrevocabilità del suo sviluppo storico-economico. Né accettazione né negazione di Napoli come situazione-soglia (Cacciari), ma una riarticolazione del suo essere comunitario antagonista a quello arcaico e regressivo della camorra: «Irresistibilmente il giorno di festa pervade ogni giorno feriale. La porosità è la legge che questa vita inesauribilmente fa riscoprire. Un grano di domenica è nascosto in ogni giorno della settimana, e quanto del giorno feriale vi è in questa domenica!»8. Si capisce come questo modo di vivere possa oscillare tra un caos inquietante e l’utopia di una vita sottratta alla scansione capitalistica del tempo di lavoro.

1 La Capria ha curato la sceneggiatura e Rosi la regia. Rinvio a due miei articoli che dovrebbero essere letti in continuità con questo: Paesaggio con rovine. Note su «Mani sulla città» di Francesco Rosi, «Il Ponte», n. 11, 2012; La plebe e l’armonia perduta di Raffaele La Capria, «Il Ponte», n.5, 2014.

2 P. Amato, «Il vuoto e l’abitare», in Aporie napoletane, Napoli, Cronopio, 2006, p. 115. Un altro passo di questo saggio: «La topografia di Napoli rivela plasticamente il segno dell’esclusione: la lingua della tangenziale è la traccia iperbolica che taglia fuori. La città più o meno premeditata da una parte e il suo doppio oscuro» (p. 118). Dove è geniale l’intuizione che una strada parli come il segno di un linguaggio materializzato e inscritto nello spazio.

3 La città porosa. Conversazioni su Napoli, a cura di Claudio Velardi, Napoli, Cronopio, 1992, p. 29.

4 W. Benjamin, Napoli, «Opere complete, vol. II: 1923-1927», Torino, Einaudi, 2001, p. 39.

5 Ivi, p. 38.

6 Ivi, 45.

7 M. Cacciari, «Non potete massacrarmi Napoli», La città porosa cit. p. 161.

8 W. Benjamin, Napoli cit. p. 41.