1. Il saggio di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, dal titolo La guerra capitalista (Mimesis 2022),1 ruota intorno alla tesi della centralizzazione del capitale, non in quanto fenomeno più o meno occasionale, transitorio e sostanzialmente casuale, quando non addirittura inesistente, bensì quale vera e propria “legge” di tendenza del capitalismo.
Partendo da questo assunto, che rappresenta il vero e proprio fil rouge del volume, ne vengono quindi sviluppate alcune conseguenze dirette, che vanno dal conflitto fra capitali deboli e capitali forti, fra imperialismi “debitori” e “creditori”, fino alla disgregazione dell’ordine democratico, o, meglio, liberal-democratico, e allo sfociare in vere e proprie guerre militari. Insomma, come già si può intuire da questi brevi accenni, un testo decisamente non banale e di non comune vision.
Il libro è strutturato in tre sezioni, ciascuna con una propria natura e struttura.
Nella prima viene sviluppata la tesi della centralizzazione del capitale, partendo da una constatazione per certi versi sorprendente: Marx, ormai pressoché dimenticato dagli eredi della tradizione del movimento operaio, viene riscoperto e citato copiosamente proprio dai sacerdoti del capitale. Dal Financial Times all’Economist, passando per illustri economisti e accademici, fino ai grandi magnati della finanza, non si contano le citazioni di Marx (in realtà il libro le ha ben contate: il solo Financial Times cita Marx 2.644 volte in 13 anni). E, ciò che è più singolare, si tratta spesso di citazioni positive: “Karl Marx aveva ragione” afferma l’economista statunitense Nouriel Roubini in un intervista del 2011 a The Wall Street Journal; “Marx resta una figura monumentale”, recita inaspettatamente un articolo di The Economist del 2018. A cosa è dovuta questa riscoperta delle tesi marxiste da parte del “nemico”? Gli Autori non hanno dubbi: “oggi più che in passato il capitale si trova costretto a interrogarsi su sé stesso, sulla sua potenza e sulla sua stessa fragilità riproduttiva” (p. 19).
Viene quindi analizzato il concetto di centralizzazione del capitale (si badi bene centralizzazione, non già concentrazione) ed il suo sviluppo in dottrina, con una ricca analisi che parte proprio da Marx e passa per Hilferding, Lenin fino a Shumpeter. Particolarmente efficace, in questo ambito, è l’illustrazione dello sviluppo del capitale da pura proprietà diretta, a proprietà parcellizzata fra più piccoli proprietari ma gestita dai grandi players finanziari, fino ai gruppi di controllo che governano masse di capitale più grandi di quelle effettivamente possedute, al punto che “per mezzo di fitte trame di relazioni proprietarie, intricate da partecipazioni condivise, reciproche, indirette, i titolari di pacchetti di maggioranza anche solo relativa sono capaci di governare le decisioni riguardanti tutto il capitale” (p. 34).
Nell’ambito della centralizzazione del capitale, un’analisi specifica è poi dedicata alla centralizzazione finanziaria, con una ricerca davvero esaustiva sull’argomento, ancora una volta a partire da Marx e fino ai più recenti approfondimenti dottrinali e non. A sua volta, all’interno della centralizzazione finanziaria, viene sviluppata una sezione a parte che riguarda la concentrazione nel settore bancario ed esamina particolarmente le relazioni fra efficienza, tassi di interesse, concorrenza e deregulation rispetto al rischio di crisi. Dall’analisi delle connessioni tra centralizzazione e crisi gli Autori si soffermano sia sulla possibilità che la prima induca le seconde, ma anche, al contrario, che le crisi possano a loro volta influenzare la tendenza alla centralizzazione.
Una menzione a parte, poi, merita il ricchissimo capitolo, probabilmente il primo del genere, dedicato al dibattito italiano sulla centralizzazione del capitale, che ripercorre con completezza e lucidità argomentativa le posizioni di studiosi da Arturo Labriola a Francesco Saverio Nitti, Achille Loria, Luigi Negro, fino a Paolo Sylos Labini e lo stesso Emiliano Brancaccio.
2. Passando al tema della solvibilità, gli Autori ricordano che le teorie “classiche” vedono l’insolvenza come un sano strumento di pulizia delle imprese inefficienti, che il capitalismo espelle in quanto scorie che non meritano di riprodursi. Esiste però una teoria alternativa, secondo la quale “la solvibilità capitalistica è condizione non semplicemente tecnica ma anche inesorabilmente politica, di lotta intestina alla classe capitalista, con continui riverberi sulla classe lavoratrice” (p. 80) per cui “nell’ambito del paradigma alternativo la solvibilità incarna un inesorabile conflitto interno alla classe capitalista, tra capitali deboli a rischio di insolvenza e acquisizioni, che lottano per la sopravvivenza e contro la forza distruttiva della centralizzazione, e capitali forti e solvibili che dalla centralizzazione traggono sempre maggiore forza e potere” (p. 79).
In questa lotta un ruolo decisivo è quello assunto dalle banche centrali, oggetto privilegiato di un’attenta e rigorosa analisi. Secondo la teoria dominante oggi, le banche centrali tendono a seguire una “regola ottima” che fissa i tassi verso un valore che assicuri l’equilibrio naturale di inflazione e reddito. Ma esistono voci critiche, che evidenziano “la difficoltà di trovare una relazione causale tra la regolazione del tasso di interesse da un lato, e l’andamento del PIL e dell’inflazione dall’altro” (p. 82). In questa visione alternativa, il banchiere centrale è “regolatore sociale del conflitto tra creditori e debitori”. Ad esempio, in caso di inflazione, “dovrà (…) decidere se e in che misura compensare i creditori dall’erosione di capitale causata dall’aumento dei prezzi”, agendo come una sorta di “scala mobile” per il capitale creditore, una scala mobile che paradossalmente “i lavoratori non hanno (ce l’hanno) più, i capitalisti sì” (p. 84). Viene quindi presentata una “regola di solvibilità”, alternativa alla classica regola di Taylor, che, oltre a determinare il tasso di interesse in funzione di inflazione e PIL (che, come noto, rappresentano i parametri classici), lo lega anche ad altre variabili, in particolare alle sofferenze finanziarie. In sostanza, il banchiere centrale, alzando o abbassando i tassi, ostacola o agevola la capacità dei debitori di rimborsare i debiti, “regolando” quindi il maggiore o minore numero di fallimenti. La verifica empirica di queste due teorie, basata ovviamente sui dati, mostra che, contrariamente a quanto previsto dalla c.d. “regola Taylor”, “il banchiere centrale non risulta mai in grado di controllare l’inflazione regolando i tassi d’interesse” (p. 85) . Viceversa, risulta confermata una relazione fra tassi d’interesse e non performing loans, in accordo con la regola di solvibilità.
Quindi il banchiere centrale non è un “agente «neutrale», che cioè si limiterebbe ad accompagnare il sistema verso il cosiddetto «equilibrio naturale», senza mai pretendere di incidere su quest’ultimo” (p. 86). Egli, piuttosto, determinando il livello di fallimenti, stabilisce il vantaggio per le imprese solvibili che riescono a rimanere sul mercato e “che potrebbero decidere di acquisire a buon mercato i concorrenti sulla via dell’insolvenza” con la conseguenza che emerge “quella circostanza decisiva che Marx definiva con l’espressione «centralizzazione dei capitali». Il banchiere centrale, governando la solvibilità, regola il conflitto tra capitali e con esso anche il ritmo della centralizzazione” (p. 87).
In questo contesto, il libro esamina gli interessanti risvolti di questa teoria sui recenti eventi economici, politici, bellici, con una speciale attenzione all’Europa, attraverso una rilettura suggestiva delle politiche monetarie, in particolare di Mario Draghi, orientate “in modo da allentare le condizioni di solvibilità al livello minimo necessario per evitare un’ondata di bancarotte di tale portata da far perdere del tutto il controllo della crisi e del connesso ritmo della centralizzazione dei capitali” (p. 90). Ciò che emerge è un “ribaltamento generale, sia pur temporaneo, dei rapporti di forza tra finanza e politica”: non sono più “le politiche economiche soggette alla cosiddetta «dittatura dei mercati finanziari», come si soleva dire, ma al contrario la sottomissione dei mercati finanziari alla disciplina imposta dalle autorità monetarie e di governo” (p. 91). Con la conseguenza che la regolazione politica delle autorità monetarie “ha messo sotto controllo la solvibilità e con essa anche il ritmo della centralizzazione capitalistica” (ibidem). Con una felice espressione, dal 2012 in poi si è avuto in Europa il “decennio eretico dei banchieri centrali” (p. 91).
La prima sezione del libro si chiude con l’auspicio di uno studio di una compiuta e scientifica teoria della centralizzazione, che tenga conto della complessità della lotta interna alla classe capitalista, delle posizioni dei banchieri centrali e, in ultima analisi, dei rapporti fra l’economia e lo Stato e tra l’economia e la politica.
La seconda sezione è formalmente più “tecnica”, e si propone di misurare sperimentalmente la concentrazione del controllo delle imprese e quindi, in definitiva, il grado di centralizzazione del capitale e la bontà stessa della teoria esposta nella prima sezione. La verifica sperimentale è basata principalmente su recenti studi che, utilizzando tecniche e strumenti di varie discipline (fisica, matematica, informatica), analizzando la topologia degli assetti proprietari di un numero assai rilevante di società e introducendo una prima innovativa misura del controllo delle società stesse (il c.d. net control), hanno consentito di confermare empiricamente la bontà delle intuizioni di Marx sulla centralizzazione del capitale, in particolare sotto due profili.
In primo luogo “tra il 2001 e il 2016 il controllo del capitale globale risulta altamente concentrato nelle mani di un ristretto manipolo di azionisti, sempre inferiore al 2 per cento del totale; in secondo luogo, prosegue la tendenza verso una ulteriore centralizzazione del capitale, che aumenta di circa 25 punti percentuali negli anni considerati e si intensifica soprattutto a ridosso della grande crisi mondiale del 2007” (p. 116). Un’altra importante verifica di tesi teoriche riguarda il rapporto fra centralizzazione e crisi: dalle analisi dei dati si evince infatti che “la crisi sembra avere avuto un impatto rilevante sulla distribuzione delle quote proprietarie, che ha favorito società e azionisti già situati nel cuore della rete dei legami a discapito dei nodi più deboli” (p. 118).
In termini qualitativi, si scopre poi che i primi tre posti sono occupati da colossi della finanza e sono stabili nel tempo, tanto che gli Autori possono affermare che “nel turbine della centralizzazione dei capitali sembra dunque sussistere un nocciolo duro, una costante gravitazionale. Lontani anni luce dall’idealizzato capitalismo concorrenziale delle origini, i proprietari che escono vincitori dal meccanismo della centralizzazione somigliano sempre più a un club esclusivo e sclerotizzato, in cui è difficilissimo entrare ma sembra piuttosto complicato anche uscire. Una nuova oligarchia capitalista” (p. 120).
Infine, sempre le analisi dei dati confermano anche la bontà della regola di solvibilità sulle politiche monetarie: alti tassi di interesse favoriscono fallimenti e acquisizioni perché “una politica monetaria restrittiva, ovvero un innalzamento dei tassi di interesse, conduce a una riduzione del net control, ovvero alla riduzione della frazione di azionisti di controllo del capitale e dunque all’aumento della centralizzazione del capitale” (p. 124). Un’affermazione, quest’ultima, che andrebbe studiata e approfondita con particolare attenzione soprattutto dall’attuale classe politica italiana, specie una certa “pseudo” sinistra (liberista quando non più propriamente capitalista) che, dopo aver abdicato al proprio ruolo politico e istituzionale, si è rivelata sempre più incurante di – o, forse, connivente con- quanto sta accadendo a livello sovranazionale, assecondando le scellerate politiche monetarie della BCE, che rischiano di portare il nostro Paese in un baratro dal quale sarà sempre più difficile uscire.
La terza sezione, infine, che riprende articoli ed interviste già apparse nel corso del 2022, analizza il rapporto tra centralizzazione del capitale e conflitti imperialistici e, dunque, con la guerra in Ucraina, ruotando attorno ad alcune tesi centrali:
- L’“imperialismo dei debitori” (USA e Paesi occidentali), in crisi di risultati e prossimo al limite massimo di espansione, si sta scontrando con l’imperialismo dei creditori, che sono alla ricerca continua di sbocchi per la loro espansione mondiale, preferibilmente acquisendo il controllo di aziende occidentali;
- Il blocco occidentale sta cercando da tempo di frenare l’imperialismo di Cina (e Russia) adottando misure protezionistiche a livello economico e soprattutto finanziario;
- Le conseguenti difficoltà all’esportazione dei capitali genera tensioni che devono trovare sbocchi, anche con la forza. Come giustamente sottolineato, infatti, è proprio da queste difficoltà di esportazione dei capitali che “nasce la tentazione dei grandi creditori orientali di dare nuovi sbocchi ai loro flussi finanziari attraverso la forza, a mezzo di interventi militari. Ossia, sorgono i primi cenni di un imperialismo emergente da parte dei creditori orientali, incoraggiati anche dai limiti di espansione dell’imperialismo militare del grande debitore americano” (p. 154).
La posta in gioco, pertanto, è altissima e consiste nel controllo delle regole dell’assetto finanziario (e geopolitico) mondiale e che dipende dalla sopravvivenza o dalla cancellazione “delle regole del circuito militar-monetario internazionale, fino a oggi continuamente scritte e riscritte a piacimento dai soli Stati Uniti e dai loro alleati, e subite da tutti gli altri” (Ibidem).
La centralizzazione del capitale, insomma, determina anche la concentrazione del potere politico ed una sostanziale drammatica ed inesorabile perdita di democrazia, che si evince anche e soprattutto da fenomeni quali l’esautoramento delle rappresentanze popolari, la preferenza per la governabilità a scapito della rappresentatività che sfocia nell’esecutivizzazione delle decisioni politiche, la “ricerca spasmodica di grandi risolutori, di uomini forti cui affidare i destini collettivi” (p. 174).
Come detto al principio di queste brevi riflessioni, ci troviamo di fronte ad un libro tutt’altro che banale, che si stacca (meglio, che si eleva) dalla marea di testi di presunta geopolitica sulle cause della guerra russo-ucraina, da cui siamo sommersi ormai da mesi.
Con uno stile asciutto, estremamente “succoso”, pur nel rigore scientifico, il libro poggia su basi teoriche amplissime e su riferimenti scientifici solidissimi, il tutto venato qua e là da momenti di pungente ironia. Insomma, una lettura importante e scientificamente granitica, ma allo stesso tempo godibilissima anche per profani.
1 Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista (Mimesis 2022).