di Roberto Barzanti
Riscoprire, rileggere Dante oggi non è esperienza da affrontare con faciloneria. In molte delle occasioni programmate a settecento anni dalla morte viene esaltato quasi fosse uno di noi e i suoi scritti son proposti, in primis la Commedia, a guida di una sontuosa catechesi per giorni tormentati. No! Dante è «inattuale» e proprio tentando di misurare il divario che distanzia la sua visione e storicizzando la sua ideologia si coglierà la sua inesauribile permanenza nella letteratura, il fascino e l’autenticità della sua teologia poetante. Dante è, piuttosto, contemporaneo, perché riflette con amarezza su un’utopia sconfitta riaffermando le ragioni del suo disegno. Occorrerà , dunque, riflettere criticamente sui giudizi e sulle accuse che egli scagliò contro il suo tempo e ricavare dall’energica durezza del suo discorso i temi che oggi più risuonano nel nostro animo, traducendoli e non tradendoli, reinterpretandoli senza svisarli o sminuirli in una rincuorante pedagogia.
«Tutti i tempi – ha ammonito Giorgio Agamben – sono, per chi ne esperisce la contemporaneità , oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità , che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente». E il punto d’avvio del fantastico viaggio tra terra e cielo fu giusto una «selva oscura», dove si aggirava smarrito e turbato.
Nella prima terzina del poema già appare l’intento di collocare il suo personale percorso in uno spazio collettivo, avendo di mira la «nostra vita», la fragile e offesa, nuda vita del genere umano. «E di fatto nella cultura europea dei tempi moderni c’è una costante – notò Erich Auerbach (1929) –, che si è mantenuta invariata nel mutare delle forme religiose e filosofiche, e che è riconoscibile in Dante per primo; e cioè l’idea (comunque basata) che la sorte individuale non possa essere trascurata, ma sia necessariamente tragica e importante e che in essa si riveli la connessione universale». Questa ambizione universalistica è il motore che agita passione politica e immaginario spirituale. La Commedia è un libro di battaglia, via via aggiornato. In esso la triviale lingua del quotidiano si alterna a implacabili invettive per infine sublimarsi negli attoniti silenzi dell’ineffabile. Lo stile rispecchia la dottrina e sta in bilico tra realismo e allegoria. La folla che popola l’oltremondo rivela esemplarmente drammi e aspirazioni, violenze e scontri di una crisi che Dante invita a superare nel segno di un approdo «inattingibile» se non per mezzo di una fede che non ceda ai lacci delle discordie e alla seduzione delle colpe.
Questo universalismo che l’esilio dalla città amata tramutava in dolente malinconia come possiamo sentirlo per quello che era e assumerlo come sguardo di un universo che la sregolata globalizzazione ha reso e rende lacerato da ostilità indomabili, solcato da guerre non meno faziose di quelle che si scatenavano nelle città divise del Trecento? L’interrogativo non è formulato per suggerire una risposta edificante. Dante con la sua furente visionarietà è dentro le domande della crisi che sta davanti ai nostri occhi. Senza il suo «corto circuito tra eterno e transeunte» (Santagata), né gli episodi messi in scena né i colloqui intrattenuti con le anime lungo il periglioso tragitto acquisterebbero l’incisività e la necessità che posseggono. L’esser contemporaneo si sarebbe appiattito in colorite cronache, in una conformistica adesione alle consuetudini in voga. Lo scarto fra i due piani temporali accende e legittima polemiche e profezia, lotta per una giustizia terrestre e speranza in pacificanti esiti ultimi: «contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo». Non diversamente da ciò che capita oggi. Abbiamo bisogno con Dante – chi è lontano dal suo tomismo arricchito e chi crede di non credere ma è conquistato da un’opera che unisce realistica cronologia e fondamenti ontologici – di inventare una fraternità che declini al plurale l’universale, e bandisca atti fratricidi, ponga fine a odi e conflitti, alle peripezie di esiliati e di perseguitati. Non sembri questa una divagazione contenutistica che sottovaluti una tessitura poetica che assicura ascolto all’impervia scrittura. Ma in mezzo a tanto kitsch ridicolo, al ritaglio ammiccante di romanticizzati frammenti non è fuori luogo ribadire che la contemporaneità del genio fiorentino deriva dal suo stare in un’epoca di trapasso. Sono passati i tempi che celebrarono Dante quale profeta dell’unità italiana, talora con nazionalistiche se non fasciste e imperiali inflessioni. La Commedia è una cattedrale aperta.
Nelle ottocentesche interpretazioni patriottiche confluirono «religiosità tradizionali – ha ricordato Gian Mario Cazzaniga in una puntigliosa esplorazione –, da cattolici a ebrei e riformati, aspiranti tutte a riforme e talora non prive di risvolti escatologici. Saranno patrioti passati per logge maltesi, corfiote e londinesi a costruire le prime chiese battiste e metodiste italiane che si affiancheranno a quelle valdesi. E confluiscono in questa lettura di Dante nuove religiosità civili, da sansimoniani a mazziniani, da garibaldini a massoni di riti egiziani e scozzesi». Ci colpisce oggi la lezione di Carlo Martello e la sua esortazione a una civile convivenza che alimentata da una mitizzata natura: «E se ’l mondo là giù ponesse mente / al fondamento che natura pone, / seguendo lui, avria buona la gente» (Par., VIII, 143-145). Una Monarchia ispirata ai canoni cristiani non poteva certo essere l’istituzione in grado di produrre l’unificante armonia desiderata. Era un’utopia che guardava a un mitico passato, come sovente accade. Resta il fatto che attesta un’esigenza alta a petto degli insorgenti antagonismi di poteri nemici. La paradisiaca Aquila della Giustizia sa che il pellegrino è turbato da una questione spinosa: «Muore non battezzato e senza fede: / ov’è questa giustizia che ’l condanna? / Ov’è la colpa, sua, se ei non crede?» (Par., XIX, 76-78). Dante non si smuove. Solo l’imperscrutabile dono della fede salva. Ma il dubbio fa già intravedere l’aprirsi di una nuova Età , e Dante giganteggia in un crinale che lo separa e lo unisce a noi: scomodo e contemporaneo, distante, cristianamente fraterno.