di Antonio Capitano
L’arte da sempre amalgama mistero e stupore e vi sono storie che vivono “vite parallele” anche quando sembrano essere dimenticate o sospese. È compito dello studioso o semplicemente dell’appassionato cercare la minima traccia per risalire a quella verità che forse non si saprà mai, ma che potrà aprire una nuova strada alla necessità della ricerca come senso compiuto della scoperta. La missione di Leonardo Sciascia è sempre stata quella di scoprire ancora qualcosa: un nuovo segno, una nuova rivelazione che scatti dai documenti che già si conoscono, un qualche indizio che accada magari di scoprire tra sonno e veglia, come succede al Maigret di Simenon quando è preso da un’inchiesta.
Questa passione per il mistero ancora non svelato e che ancora non si riesce a svelare è, secondo me, un paradigma sciasciano ben adatto e che dovrebbe trovare una maggiore attenzione per riportare alla luce alcune circostanze mai troppo chiarite o forse più semplicemente frettolosamente sorvolate. Sul genio e la grandezza di Raffaello si sono scritte pagine memorabili, eppure vi sono ancora spunti per continuare a scriverne. Accade dunque che l’Urbinate si trovasse nella duplice condizione di dar vita a nuovi capolavori e, al tempo stesso, di distruggerne altri, sebbene con comprensibile dispiacere.
Nel 1507 gli venne affidato da Giulio II l’incarico di decorare l’appartamento pontificio, come testimonia il cerimoniere Paris de Grassis:«In die coronationis […] hodie papa incepit in superioribus mansionibus palatii habitare, quia non volebat videre omni hora, ut mihi dixit, figuram Alexandri praedecessoris sui, inimici sui, quem marranum et iudaeum appellabat et circumcisum».
Lasciamo perdere il più singolare improperio che si sia mai letto, non soltanto di un pontefice al predecessore. Sta di fatto che il rifiuto papale di ogni committenza precedente fu la consacrazione quale fuoriclasse assoluto al punto tale da cancellare la memoria di grandi artisti quali Perugino, Baldassarre Peruzzi, il Sodoma, Lorenzo Lotto, Bramantino. Si arrivò addirittura alla decisione di eliminare gli affreschi precedenti, sia più recenti sia più lontani nel tempo ma del calibro di Piero della Francesca e di Luca Signorelli.
Proprio qui si apre un punto controverso: dei dipinti preesistenti non si è mai chiarito univocamente il soggetto rappresentato. Certo è che Raffaello di fronte alla distruzione di un affresco di Piero della Francesca non doveva essere molto sereno, malgrado la sicurezza nelle sue capacità. È noto il suo carattere amabile e al tempo stesso non è trascurabile l’invidia dei suoi contemporanei di fatto esclusi dalle commesse di enorme prestigio “sociale” ed economico. Queste premesse non caratterizzano propriamente un “giallo”, ma allo scrittore di Racalmuto, probabilmente, non sarebbe sfuggita, qualora chiamato a “indagare” sul caso, l’atteggiamento degli altri artisti chiamati da Raffaello a essere solo delle comparse, pur avendo dei nomi di grande rinomanza.
Qui si intende invece soffermarsi su ciò che non possiamo vedere, ovvero le opere cancellate. Sul punto, la grazia di Raffaello sembra confortarci poiché sembrerebbe che proprio lui abbia fatto realizzare una copia di tutto ciò che il papa fece atterrare, salvando solo – secondo alcune autorevoli fonti – le opere del Sodoma, non a caso presente nella mirabile Scuola di Atene, e un soffitto del Perugino.
Chissà se gli “uomini illustri” dipinti dal Maestro di Sansepolcro, sui quali avrebbe anche lavorato Bramantino, potranno mai venire alla luce, magari sotto forma di cartone!
Il Vasari nella Vita di Baldassarre Peruzzi del 1550 scrisse: «Fu fatta nella sua giovanezza per papa Giulio in un corridore in palazzo, vicino al tetto, una uccelliera, dove egli dipinse tutti i Mesi di chiaro oscuro, et in questi tutti gli esercizi che si fanno mese per mese per tutto l’anno; nella quale opera si veggono infiniti casamenti, teatri, anfiteatri, palazzi et altre fabbriche, con bella invenzione da lui accomodate in quel luogo».
E qui ancora una suggestione: «infiniti casamenti, teatri, anfiteatri, palazzi et altre fabbriche» che ora sono solo rimandati all’immaginazione di menti capaci di ricostruire quei mosaici che non vorremmo credere perdute per sempre.
Raffaello, bello, e nato per difendere ogni bellezza, non avrebbe potuto permettere l’oblio; la pittura è poesia per immagini e contiene un insieme di parole che fanno parte del tessuto di colori tra le trame delle figure. Tutto parla. Come l’alba dentro la notte nella Liberazione di San Pietro.
Raffaello morì giovane e, secondo la vulgata, per eccessi amorosi, ma anche questo aspetto è sempre stato avvolto nel mistero. A Sciascia il colpevole non interessava, gli interessava invece studiare una situazione, un “contesto”. E se scrivere un “giallo” è trasformare la morte di qualcuno in un’esperienza narrabile, un fatto di “cronaca”, ora storico, che – come ha lucidamente osservato Claude Ambroise – «ha la forma del giallo; non è una finzione, ma uno squarcio di realtà; il detective è lo scrittore in prima persona». Tutto riporta a una variante enigmistica per qualcosa da decifrare: sembra fatto apposta per continuare a rimanere sospeso, nascosto, celato, segreto. Come se qualcosa si possa scoprire nelle “pagine seguenti” e per una conclusione inattesa: come avviene in ogni “giallo” che si rispetti.